Un momento, in particolare, oltre le chiacchiere, le risate, le reciproche confidenze: l'istante in cui mi hai raccontato di quand'eri ragazzina e il corpo non era quello che ti ritrovi ora.
"Ciciù". Così ti chiamavano, con quel sarcasmo graffiante che diventa umiliazione e ti marchia a fuoco, per tutta la vita, pure quando le forme cambiano e tu puoi prenderti una rivincita.
"Ciciù". Cicciona. Per le guance piene, le rotondità in evidenza, i movimenti goffi dell'adolescenza.
Guardavo te, pensavo alle ragazzine e alle donne di oggi, ma pure agli uomini - che in questo caso la parità di (mal)trattamento è garantita - a come passano gli anni e identica rimane la facilità di ferire, il giudizio legato all'apparenza, a come pure io contribuisca al ripetersi di un modello di estetica, di perfezione patinata, incapace di andare un passo più in là, di badare all'essenza.
Vorrei dire che ora sei splendida, ma commetterei un nuovo torto.
Splendida infatti lo eri anche allora, pure se ti prendevano in giro, pure se guardandoti allo specchio avresti voluto essere diversa.
Eri splendida e lo sei tuttora, poiché la bruttezza è come la bellezza: risiede negli occhi di chi guarda. Piuttosto che detestare se stessi allora, meglio fare "ciao ciao" con la mano, sorridere, voltare le spalle e cambiare direzione, oltre che compagnia.
P.S. È strano come proviamo empatia guardando "da fuori", sentendo raccontare una storia, mentre da protagonisti ripetiamo gli errori, le meschinità, le cattiverie, le indifferenze di chi biasimiamo assistendo da seduti in poltrona allo spettacolo della vita. Al di qua dello schermo ci sentiamo Zorro, mentre una volta entrati nella pellicola ci riveliamo peggio di quel pasticcione del sergente Garcia.
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