Aveva un nome biblico e anche la faccia da profeta. Parlava ritorto eppure, proprio come le sue sculture, esprimeva armonia, bellezza. Eli Riva era un uomo con un cruccio. Forse di non essere all'altezza dei maestri da cui aveva attinto e con cui si misurava, oppure di non essere considerato tale, di non essere capito. Lo incontrai la vigilia di Natale del 1997, nel suo studio - garage. Faceva un gran freddo. Me ne andai con l'impressione di essere un uomo fortunato ad averlo incontrato e solo alla fine, quando ci salutammo, lo vidi quieto, disteso in volto, quasi che il cruccio che aveva, quel groppo gli si fosse sciolto. Rileggendo a distanza di anni l'intervista, scopro che anche durante l'incontro rideva. E' vero. L'avevo scordato.
Ecce homo. Ecco l’uomo. Un Cristo nudo, spoglio, ligneo come la croce che lo ha condannato e redento. Opera fondamentale, per ammissione del suo stesso autore.
Eli Riva conserva questa sua scultura in quello che chiama studio, ma che assomiglia più ad una bottega artigiana. Forse perché da artigiano ha cominciato e artista è diventato. Poiché se l’arte, usando le parole di Dante, è attività da cui nascono prodotti culturali, Eli Riva è artista per eccellenza.
Colto, mai banale, pronto ad immergersi nella riflessione ad ogni spunto o provocazione, a volte perso nei propri pensieri come nella materia che plasma e modella. Eli Riva non è persona tormentata, ma assai complessa. Come se un fuoco gli ardesse dentro, spingendolo inesorabilmente a conoscere e creare, senza però togliergli armonia e serenità.
Lo raggiungiamo per un'intervista, ne ricaviamo una lezione sull’arte e sulla vita, che in lui coincidono e che si rendono manifeste in molteplici forme.
“Avevo dodici anni quando vidi un ostensorio realizzato da un cesellatore. Ne fui ammirato e il parroco mi trovò un lavoro nel laboratorio di colui che aveva realizzato quella che ai miei occhi di fanciullo era una meraviglia. Mi dissero: diventerai un abile cesellatore quando riuscirai a fare la zampina alle mosche, cioè a far risaltare nel metallo un ricciolo piccolo piccolo. Ci riuscii e capii che quella era la mia strada. Da Como passai a Milano, ottimamente retribuito, tanto che mia madre, quando portai a casa il primo stipendio, mi disse: Non l’avrai mica rubato?”. Successivamente cominciai a scolpire il marmo. Sapevo fare il piano, il tondo. Affittai uno studiolo, che chiamavo “busecca”, perché era lungo e stretto. Imparai rapidamente a tagliare la pietra, perché le mie mani sono comasche, dentro di me c’è la storia dei Benedetto Antelami, dei Magistri Cumacini, dei Rodari. Guardi che mani ho – e ce le mostra di sfuggita, senza ostentazione, due mani lisce e rosse – trentatré anni di marmo e neanche un difetto.
Quindici anni fa, iniziai a cimentarmi col legno. Successe in modo strano. Un mattino d’inverno, arrivando presto coi miei cani al parco di Villa Olmo, vidi che la grande magnolia a monte, che sicuramente avevano piantato i signori Cantoni quando costruirono la villa, era caduta. Assicurai l’amministrazione comunale che se me l’avessero assegnata non ne avrei fatto legna da ardere. Ho lavorato dieci anni. Il legno della magnolia è una cosa, una cosa da… paradiso terrestre”.
Di legno è anche il tavolo sul quale siamo seduti. Anch’esso cela un segreto, che solo l’occhio dell’artista e l’animo del poeta possono distinguere. Infatti lo ignoriamo. Riva ci fa accucciare, ci invita a squadrarne i supporti, ma la nostra mente rimane vuota e la bocca muta. “Sto tentando di insegnarle a leggere. Lei sta bevendo acqua sorgiva” aggiunge bonario. “Il pianale del tavolo poggia non su gambe, ma su due sculture”. “Fionde” le chiama lui. “La mia scultura è entrata nell’oggetto come elemento attivo. Questo tavolo porta la mia firma, ha diritto di esistere. Ogni tanto vengono nel mio studio dei ragazzi e ne approfitto per chiedere cosa vedono i loro occhi senza vizi nelle mie sculture. Ho settantasette anni e faccio queste sculture per voi, dico. Capiscono che è un dono che viene fatto loro. Un dono. La scultura è per l’uomo, per la sua celebrazione. In questo senso mi ritengo un umanista, che usa l’arte per rivelare a se stesso e agli altri un immagine mai rivelata. Il problema terribile dell’arte moderna”.
Osservandoci in difficoltà, venendo ancora una volta in nostro soccorso, ci mostra una scultura.
“Questa è una mia opera del 1948. Se la ruoto - e comincia a farla girare - questa donna seduta è sempre lei. Se faccio lo stesso con una struttura astratta, ogni volta che ruota dimentico quello che ho visto un attimo prima. La prima esprime un immagine esistente, la seconda esprime soltanto se stessa. Questa è l’arte moderna. Kandinskij, Mondrian, anche Picasso, per un certo periodo. Ho impiegato parecchio tempo per creare una scultura multipla-spaziale, che non abbia più una base, un fianco, un sopra, un sotto. E’ l’ultima mia fase creativa”. E ci mostra una mezza dozzina di sculture in bronzo, alte non più di un paio di palmi. “Tutta la scuola comasca è diventata astratta dalla sera alla mattina. Io ho pagato di persona, passando dalla figurazione alla astrazione. Queste sculture non riuscivo ad assestarle. Io per lavorare devo capire. Se non capisco, tremo. Penso di non essere preparato abbastanza. Per questa ragione lascio alcune opere incompiute. Solo quando l’immagine, il bozzetto non suscita più problemi in me allora mi sento soddisfatto”.
Poco lontano ci sono una decina di disegni raffiguranti il frontone di una chiesa. Una delle ultime commissioni. “Intendo rappacificare architetti e scultori – ci spiega –facendo capire ai primi che hanno tradito la scultura, perché pensano di essere loro i demiurghi, i creativi. E invece sono in fondo dei baggiani, come scriveva il Manzoni”. E giù una risata. Una delle tante, che accompagnano astuzie e facezie. Una risata che esplode improvvisa e sonora, smorzandosi raucamente per il fumo di troppe sigarette.
Eli Riva a Como ha realizzato la scultura di Papa Odescalchi.
“Da ragazzo, con altri aspiranti artisti, facemmo un patto strano. Nessuno avrebbe mai dovuto fare un monumento al centro di una piazza. Per la statua di papa Innocenzo c’erano una dozzina di proposte. Tutti gli altri lo volevano al centro, su un acropodio. Io pensai: guarda un po’, l’amministrazione ha speso un miliardo per ristrutturare San Pietro in Atrio e io vado lì ad occupare subito questo stanzino? Non mi sembrava giusto. Il mio maestro è stato, in questo caso, Donatello, con la sua edicola angolare sul Duomo di Prato. Recentemente un amico toscano mi ha informato che per salvare quel podio di magnifica bellezza lo hanno messo in un museo, esponendo sul luogo originario una copia perfetta. Lo stessa cosa proposi insistentemente per il Duomo di Como, non venendo ascoltato, ma rimanendo della mia opinione. Non dico queste cose perché sono bravo, ma perché sono attento. Como non è una città attenta. Non lo è per niente. Potrei farle un elenco dei delitti pesanti che ha subito l’arte a Como, ma è un periodo di festività natalizie e non voglio essere cattivo”.
La poco attenta Como è almeno una città di cultura?
“Faccio una distinzione. L’informazione è una cosa, ce l’ha anche chi possiede grande memoria e ricorda molte cose. L’informazione diventa cultura solo quando determina un prodotto. Cultura e prodotto, un binomio inscindibile. Altrimenti non è cultura, è informazione e basta. E allora, al circolo culturale, preferisco la biblioteca, che è più precisa. A Como può esserci informazione, ma non colgo cultura”.
Se le chiedessimo a che tipo di pietra sente di assomigliare, cosa risponderebbe?
“Ad un mattone di pietra di Moltrasio. Si dice che l’architetto Mustio, quando i Plinio l’hanno portato da Roma per costruire la villa a centro lago, rimase sconvolto nel trovare le case già costruite in pietra. A Roma erano tutte di legno. Qui le maestranze erano esse stesse architetti. Questi sono i valori semantici della nostra città. Ma a Como chi li conosce? In pochissimi”.
Giorgio Bardaglio
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