E se crescere non significasse affatto conoscere se stessi, e il dono portato dall'esperienza consistesse solo nel doverci mettere un bel "non", davanti a "so chi sono"?
Sandro Veronesi
Scrivo di te, di raro, ma costantemente. Tengo traccia sporadica del ragazzo che sei, dei tuoi quasi quindici anni trascorsi in un bozzolo, pur avendo tu vissuto ciò che la maggior parte di noi vivrebbe come incubo.
Cresci in fretta, i piedi, prima di tutto, ma pure gambe, braccia, tronco. Hai cominciato una nuova scuola, ti stai sempre più appassionando al basket, guardi serie tv e film quasi sempre da solo, nel rispetto della nostra tradizione familiare, che vuole educare alla libertà e alla responsabilità più che puntare su regole ferree e controllo. Potremmo fare più cose insieme, è vero anche questo, e mi sento un poco in colpa, mitigata appena dalla circostanza che anche con gli altri figli è stato non stesso.
A volte pari assente, freddo, distaccato. Non lo imputo al carattere, bensì a ciò che da piccolo ti è capitato, a un vuoto che nessun velo può coprire o nascondere, specialmente a te stesso, soprattutto adesso, pozzo profondo di domande senza risposta, crepaccio di giustizia assente, a meno che si creda in un tutto e in un destino.
Troppo, per affrontarlo adesso. Poco, per cominciare a guardarci seriamente dentro. Prima o poi tirerai le somme e deciderai da che parte stare, se ribellarti per rabbia o risolvere i conflitti voltandoli in positivo. Che volere è potere, sempre. E tu, già così, ancora piccolo, mostri qualità e maturità per farmi essere ottimista, confidando che tanto dolore, tanto vuoto, non verrà sprecato, né ti farà restare appiccicato addosso l'amaro.
P.S. Quando ti vedo giocare a basket, tirando il pallone nel canestro appeso sopra la porta del garage, mi commuovo e insieme diverto. Sono fiero di te, davvero.
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