giovedì 24 ottobre 2019

Nel nome del figlio (Un problema di coscienza)


Due indizi non fanno una prova, però se scrivo ogni giorno è più arduo omettere tutto ciò che concerne il mestiere che faccio, le questioni che altrettanto quotidianamente affronto.
L'antefatto. Nei giorni scorsi sulla tangenziale di Milano c'è stato un incidente in cui sono morte due persone, tra cui un bimbo di cinque anni. Molti giornali hanno riportato la notizia, alcuni di essi hanno omesso il nome e cognome delle persone coinvolte, qualche collega ha dichiarato la sua perplessità, richiamandosi al fatto che dare nome e cognome è sempre stata una regola del buon giornalista, sui social si è scatenato un parapiglia, con buona parte degli interventi che davano al suddetto collega dello sciacallo, della iena.
Dare il nome e cognome. Una questione delicata, che mi sta a cuore e che vorrei fosse affrontata "laicamente", cioè interrogandosi con serietà sui criteri, sulle motivazioni, anche alla luce delle nuove sensibilità e non scegliendo la via più comoda (che sovente è non mettere nome e cognome per pigrizia, per sciatteria).
Il tema è guardare alla luna e non limitarsi al dito che la indica, schierandosi da una parte o dall'altra.
Personalmente credo che sia essenziale - fatta eccezione per i casi già presenti nei manuali di deontologia - mantenere la regola di fornire le generalità delle persone coinvolte in un fatto meritevole di notizia.
Può non piacere, può costare imbarazzo, dolore, fatica, ma è il nostro mestiere.
Ed è importante non perché, banalmente, si vende una copia di giornale in più o si fa clic su una pagina web, bensì perché esiste una sfera pubblica, una dimensione sociale, comunitaria, dell’esistenza umana e di questa dimensione credo sia giusto dare valore, non annullarla.
Rinunciarvi significherebbe infatti accettare e promuovere una “privatizzazione” estrema, un mondo in cui è garantita la maggior privacy possibile, senza tener conto che il rischio conseguente è quello di individui ignoti, anonimi, soli, in cui nessuno conosce più nulla dell'altro.
Ecco perché a mio parere "dare il nome" non è soltanto un diritto, ma il dovere di un giornalista.
Non darlo, viceversa, non equivale a “rispettare” l'altro. Rispettarlo è raccontare cosa è avvenuto e far conoscere, affinché ne sia fatta memoria, compresa la buona memoria, affinché - nel caso specifico - chi conosceva quel bimbo e anche chi non lo conosceva possa piangerlo. Non è un caso che da che mondo e mondo si dica "partecipare al lutto".
La faccio breve, occorrerebbe un trattato, una discussione lunga, un confronto aperto. Se ce ne sarà occasione mi piacerebbe farlo, se qualcuno è interessato potremmo organizzarlo, anche perché ci sono altri temi simili e forse ancora più spinosi (dare il nome e cognome di chi commette un reato, ad esempio).
Per il momento mi accontento di insinuare il dubbio, di porre la domanda. Che poi è il nocciolo del mestiere del giornalista.

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