Lo ricordo oggi, nel giorno in cui se n'è andato un suo successore, quel Giacomo Bodero Maccabeo che ha rappresentato - tra i Procuratori della Repubblica in servizio a Como - senza dubbio una punta di diamante.
Giocatore di tennis entusiasta ed affabulatore convinto, Giacomo si distingueva da Giovanni, pur essendo della stessa pasta, nel senso che al rispetto sacro per il proprio ruolo univa uno spessore umano non comune, oltre a un rigore che sta ai magistrati come la curiosità ai giornalisti.
In più a Lo Gatto sono grato perché ha dato i natali a un'amica, Luisa, che stimo altrettanto e con la quale ho un debito di riconoscenza per aver testimoniato che chi giudica è - e deve rimanere - innanzi tutto una persona. Se poi è donna e ha sensibilità femminile, tanto meglio.
Come i soldi per un avaro. Come l'acqua per un abitante del deserto. Giovanni Lo Gatto usa le parole con parsimonia estrema. È arduo che una sua frase contenga più vocaboli di quanti se ne possano contare sulle dita di una mano. I termini egli non solo li centellina. Usa anche squadrarli, pesarli e misurarli ad uno ad uno. Con accortezza e rigore.
Non è unicamente una questione di numeri, ma anche di toni.
Giovanni è Lo Gatto non soltanto di cognome. Il felino domestico è felpato nel passo, lui nel modo di parlare.
In un aula di tribunale ammettiamo di non averlo mai visto dibattere, ma scommettiamo che neppure lì abbia mai alzato la voce.
Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Como da oltre tre decenni, Lo Gatto è un uomo di legge tutto d’un pezzo. Nel corso della sua carriera ha sostenuto l'accusa, come pubblico ministero, in migliaia di processi, ma non ce lo immaginiamo affatto accanirsi pervicacemente nei confronti di una persona, fosse anche un incallito criminale. Con una faccia come la sua, non se lo potrebbe permettere. È vero che le caratteristiche somatiche non hanno relazione con il carattere di una persona, eppure certe persone hanno nel volto alcuni tratti sottili e taglienti che rimandano ad una pignoleria e ad una inflessibilità che sovente si imparenta con il fanatismo. Non è il suo caso.
Al contrario, i suoi occhi sottolineano una certa vocazione alla bonarietà.
Lo Gatto ha il suo ufficio, al quinto piano del Palazzo di Giustizia. Un ampio e luminoso locale, in perfetta sintonia con la sobrietà dell'uomo e la dignità del personaggio.
Come mai scelse la magistratura?
«A me non dispiaceva medicina, ma la prima volta che visitai un laboratorio di patologia stetti piuttosto male e scartai l'ipotesi di diventare medico».
Non si è pentito?
«Mai. Anche se durante il primo incarico di pretore venni spesso delegato per le indagini autoptiche e dovetti fare l'abitudine a veder sezionare i cadaveri. Il destino sa essere beffardo».
Dopo essere stato a Brescia, Castiglione delle Stiviere e Intra, nel 1964 arrivò a Como. Cosa trovò?
«Tranquillità. Il reato più frequente era il contrabbando. Per rompere la monotonia ci contendevamo in Corte d’Assise qualche omicidio».
Ora invece?
«La situazione si è deteriorata. Droga, terrorismo, reati contro la pubblica amministrazione, tangenti. La condizione lariana si è omologata a quella nazionale».
Con gli abitanti di Como ha legato subito?
«C’è voluto del tempo, poi ho coltivato numerose amicizie. I comaschi sono meno esuberanti dei meridionali».
In principio parla dei comaschi alla terza persona plurale, ma l’impressione è che a Lo Gatto scappi da un momento all'altro un “noi”. Infatti accade. «Noi siamo meno estroversi - confida il procuratore - un po' più diffidenti nei confronti di chi viene da fuori, ma una volta che l'amicizia si è cementata sappiamo essere generosi». Il pronome personale non è di maniera, sottolinea un'appartenenza. Giovanni Lo Gatto è nato sessantotto anni fa a Napoli, ma della sua terra ha conservato l’accento e poco altro. Se per comasco si intende un modo di vita senza clamori, discreto, riservato, Lo Gatto comasco lo è a tutto tondo.
Oggi molte polemiche coinvolgono la magistratura. Che ne pensa?
«In sintesi, sono d'accordo con la posizione della procura di Milano».
Ma le loro toghe non sono rosse?
«Voler dare una coloritura politica al pool di “mani pulite” porta completamente fuori strada. Il pool è composto da uomini di diverse tendenze».
Certe voci fanno allora parte di un piano per screditare la magistratura?
«Ai complotti e ai disegni credo poco. Avverto piuttosto un certo risentimento, una certa insofferenza nei confronti dei magistrati da parte di coloro che, per motivi vari, erano abituati ad essere esenti da ogni controllo».
Si riferisce alle persone coinvolte in Tangentopoli?
«Soprattutto a loro. All'inizio degli anni ’90, per una serie di circostanze, si creò un clima favorevole che fece scattare un meccanismo di segnalazione delle illegalità».
E i magistrati?
«Quando si sente il sostegno dell'opinione pubblica si diventa più forti. Il contesto in cui si lavora è importante».
Quel clima favorevole esiste ancora?
«Indubbiamente si sta registrando un raffreddamento».
Scusi l'insistenza. Per parlare il vostro stesso linguaggio, questo calo di tensione può essere dimostrato attraverso dei fatti, delle prove oppure ci sono solo degli indizi?
«Lo si evince dagli atteggiamenti dei politici. Gruppi che prima sostenevano l'operazione “mani pulite”, ora hanno perlomeno affievolito il loro impegno».
C’è una via d'uscita?
«L’auspicio è che i poteri di controllo all'interno della pubblica amministrazione diventino sempre più efficaci ed effettivi, in modo che la nostra sia un'azione residuale».
In questo modo diminuirebbero i carichi di lavoro, rendendo la giustizia più rapida?
«Certamente. E qualcosa si potrebbe fare anche livello legislativo. Inasprire le sanzioni serve a poco. Il problema è la loro effettività. Occorre la certezza della pena. In Italia è questo che manca. La sentenza definitiva arriva con anni di ritardo. Nel penale almeno la sentenza di secondo grado dovrebbe essere esecutiva. E poi l'azione della Cassazione dovrebbe essere limitata ai motivi di legittimità».
Mentre parla Lo Gatto tiene in mano l’inseparabile pipa.
«È una compagna fedele da circa vent'anni. Le sigarette le fumavo anche mentre lavoravo, con la pipa non è possibile, la accendo solo nei momenti di relax».
Che altre passioni ha?
«La storia. A partire dalla Rivoluzione francese in poi».
C’è qualche personaggio che più l'ha affascinata.
«Ce ne sono parecchi, ma non faccio nomi poiché non vorrei fare un torto agli altri».
Fare torti può capitare ad un magistrato. La sua è una professione che comporta problemi di coscienza.
«Il nostro è un lavoro angoscioso. Più grave è il reato, maggiore è la perplessità nel decidere».
Ha sempre dormito la notte?
«Se non l’ho fatto era per il dubbio di una scelta, mai perché non mi sentissi in pace con la mia coscienza».
19 aprile 1998
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