sabato 8 luglio 2023

Giulio Reiner (L'aviatore leggendario)

Lo ammetto. Non ne ricordavo l'esistenza, né l'incontro che avemmo per l'intervista. E nemmeno adesso, rileggendola, ottengo memoria di allora, mentre l'orgoglio per averlo incontrato aumenta, considerato il personaggio assolutamente fuori dal comune, colui che - con un filo di retorica - potremmo definire "leggenda".

La speranza a volte è legata alle piccole cose.
«La mia vita dipende da una macchina» dice Giulio Reiner, indicando un angolo del locale illuminato dal sole di mezzogiorno. Sul tavolo, sopra tre volumi appoggiati in piano, due scatole per scarpe a mo' di leggio e quattro mollette per stendere i panni che fissano ad un cartone ingiallito un foglio scritto fitto fitto. Macchina, chiama lui questo marchingegno.
Poco più in là, un paio di occhiali con sormontata sul vetro una lente spessa come un chicco d'uva.
«Purtroppo la vista mi ha abbandonato, sono quasi cieco. Non è colpa degli occhi, è il cervello che non fa giudizio». La malattia, la sua ultima battaglia.
Giulio Reiner, ottantacinque anni compiuti l'altro ieri, è una leggenda che cammina, dopo una vita trascorsa in volo.
«Alla scuola, da ragazzo, preferivo i giochi e lo sport all'aria aperta. Nonostante la statura non eccelsa, ero capitano della squadra lariana di pallacanestro. La nostra era una famiglia di modesta condizione. Mio padre, che pure aveva studiato, aveva un negozio di abbigliamento e confezionava abiti su misura a Como. Quando sul lago vedevo alzarsi gli idrovolanti, rimanevo affascinato. Così decisi che un giorno ci sarei salito anch'io. Non avendo i soldi per farlo, impegnai al Monte di Pietà le uniche due cose di un qualche valore che avevo: l'orologio e la scatola dei compassi. Il resto me lo procurai con gli spiccioli recuperati esibendomi come saltimbanco alla fiera delle giostre che ogni anno si fermava in città per alcune settimane».
Il brevetto lo ottenne pochi anni dopo, il 7 marzo 1934, a bordo di un Breda 15 Idro. Da poco era cominciata l’avventura in aeronautica.
Una carriera salita gradino per gradino, senza sconti o scorciatoie.
«Quando fui ammesso all'Accademia ero sicuro di non riuscire a concluderla. Per recuperare il tempo perduto mi chiudevo in bagno a studiare. Per tre anni rifiutai la maggior parte delle libere uscite. Ricordo che per superare l'esame di lingua serbo-croata imparai a memoria un brano lungo due pagine. Prima che il docente incaricato potesse aprire bocca io iniziai a ripetere il tutto, parola per parola. E quando fui giunto alla fine ricominciai da capo come se nulla fosse».
Un sogno, quello di pilotare i Caccia, a cui Reiner è restato aggrappato con le unghie e con i denti, facendo leva sulla forza di volontà, ma anche sul valore del talento.
Su un divano, una dozzina di fotografie. Nella prima, a colori, il comandante delle Frecce Tricolori, gli consegna un premio, con una dedica: “A un nostro maestro”. Nella seconda, in bianco e nero, egli pare un astronauta. Un giovanotto in una tuta candida, i capelli ondulati e pettinati all'indietro, lo stemma di un cavallino rampante sul petto.
«È il simbolo del IV Stormo Caccia, 73esima Squadriglia».
Pretendere da Reiner di spiegare in pochi minuti il suo curriculum è come chiedere a Leonardo di fare il ritratto in cinque minuti della Monna Lisa. In due ore siamo riusciti appena ad iniziare.
Il resto lo abbiamo appreso dai documenti che ci ha lasciato in dote, anche se cento pagine dattiloscritte non possono ricostruire una storia. Sapere che egli ha all'attivo quasi quattromila ore di volo, che in tempo di guerra ha abbattuto oltre sessanta aerei nemici, partecipando a trecentocinquanta azioni militari e collezionando almeno quindici benemerenze, non basta per dare l'idea di chi egli in realtà sia stato.
In vita sua, l'aviatore Giulio Reiner ha compiuto imprese che la maggior parte di noi non può nemmeno immaginare.
Atterrare su un molo del porto di Genova; entrare radente al suolo dal portone di un hangar ed uscirne, sempre in volo, dalla parte opposta; esser sparato con la dinamite per salire verso il cielo con un aereo partendo da una nave.
Episodi entrati a pieno titolo nell'epica dell'aeronautica, ma che il protagonista fatica ad ostentare. Quando lo fa, per un istante la pacatezza senile viene scalzata dallo slancio e dall'irruenza di un tempo. D'improvviso Reiner lascia la sedia e scatta in piedi, mimando ogni azione mulinando le mani e alzando di tono in tono la voce fino a gridare come se tenesse un comizio. «Quella volta, a Taranto, era presente tutto il vertice della Marina, insieme ad almeno diecimila soldati e alla città intera, con sindaco e vescovo in testa, per assistere al collaudo di un aereo scagliato in volo dal ponte di una nave. Il lancio, però, fu troppo debole. Una tragedia. Io ero seduto al posto di comando, su quel trabiccolo che non ne voleva sapere di puntare il naso verso il cielo e pian piano planava verso il mare. Cento, duecento, trecento metri. Niente. Giù, sempre più giù. Ero affranto, avvilito, impaurito, disperato. Stringevo le mani sui comandi e non vedevo ormai nulla, se non schiuma e onde. Ad un tratto sentii una bava di vento sfiorare la pancia dell'aeroplano. “Dai, dai” pensai. Per un lungo istante non successe nulla, poi le ali si stabilizzarono e via, l’impennata, verso l'alto e poi in picchiata, una piroetta, una giravolta e quattro, cinque acrobazie tra lo stupore generale. Ebbene, per un mese non potei girare Taranto a piedi, tanto era l'entusiasmo della gente nei miei confronti».
Anche dopo aver lasciato l'apparato militare ed aver trovato un posto di ingegnere alla filiale della Fiat a Varese, il pericolo è stato più del suo mestiere.
In battaglia, per diciotto volte lo hanno impallinato. In cielo, in mille occasioni ha rischiato la pelle, tornando sempre sano e salvo. Per bravura, ma anche per miracolo.
«La mia fortuna è stata di poter contare su un alleato formidabile: il Padreterno. Quando ripenso a quante ne ho combinate, stento anch'io a credere di essere ancora su questa Terra».
Su questa Terra c'è ancora. Con la testa per aria, però. Tra quelle nuvole che non riesce quasi più a vedere, ma che non ha mai smesso di ammirare.

16 aprile 2000

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