Un terremoto. Era un vero terremoto e vi eravamo immersi, tanto da percepirne ogni giorno una scossa, un crollo, una crepa, incapaci tuttavia di avere visione di come sarebbe andata a finire, di quale quadro sarebbe emerso dalla crisi epocale del tessile, l'architrave dell'economia comasca negli ultimi due secoli.
Ed ora che ne siamo fuori, che la grande falce ha mietuto lasciando sul campo infinite perdite e uno sparuto drappello di sopravvissuti, ci manca la lucidità, la profondità di analisi, l'intelligenza e l'ostinazione nel dedicarvi tempo per comprendere cosa ha fatto la differenza tra chi ha resistito e chi invece ha alzato bandiera bianca. Se dunque siano stati i più scaltri, i più spregiudicati o i più sagaci, i più agili o ancora i più prudenti, i più forti, coloro che potevano contare su spalle robuste, non sappiamo dire.
Certo ci piacerebbe discuterne, confrontarci magari attorno a un tavolo, nella convivialità del dialogo schietto, senza preclusione alcuna. E a quella mensa, se potessimo scegliere - e la sorte non ci avesse preceduto, portandoselo via - vorremmo sedesse Giulio Pelandini. Per almeno due motivi. Tre, anzi. Il primo è l'acutezza di pensiero, il secondo l'abilità di sintesi, il terzo - il più venale - è che sarebbe certo uno dei pochi che baderebbe al contenuto del problema, senza avventarsi sul buffet.
Scusate il ritardo. Un anno, sette mesi e un giorno, ad esser precisi. Il tempo che abbiamo impiegato per incontrarlo.
Lunedì 3 novembre 1997. Tarda sera. Sede del “Corriere” di Como. Convocazione per l’assegnazione di un ciclo di interviste da pubblicare la domenica. Palpitazioni. Impercettibile dilatazione delle pupille.
“Noi dobbiamo volare alto” erompe il direttore, che ci fissa negli occhi, ma guarda oltre. “Distinguere e delineare i tratti di questa nostra Como non basta. Dobbiamo comprendere qual è la sua anima. Dobbiamo dare voce ai personaggi che danno vita alla nostra provincia. Noi di questa gente abbiamo bisogno. Di persone speciali, di nomi illustri, di uomini dello stampo di un...di un...di un Giulio Pelandini!”
Pausa. Silenzio. Deglutizione. Lieve sentore di smarrimento. Il vuoto.
Non che ci aspettassimo nomi altisonanti di re o di regine.
Non che avanzassimo pregiudizi o riserve nei confronti di alcuno. Ma lì per lì, su due piedi, ci saremmo aspettati l'indicazione di un Botta, di un Maggiolini o di un rampollo delle varie covate di Ratti, Mantero e Spallino, che con Como han cucito il loro nome a doppio filo.
Sbagliavamo. Il midollo di una città può esser colto nella storia, nel volto, nelle parole di “un Giulio Pelandini” e neppure ce n'eravamo accorti. Peggio. Non soltanto non avevamo la benché minima idea di chi fosse, ma ignoravamo persino con quante “l” si scrivesse quel cognome.
Per giorni, settimane, mesi l'abbiamo cercato. A volte giungendo fino a un passo, quasi a scorgerlo, sentirlo, toccarlo. Niente. Al lavoro, in ufficio, a casa. Nulla. “Non è ancora arrivato”. “È appena partito”. “Oggi non torna”. “Domani forse rientra”. Alle nove: “È un po' presto”. Alle dieci: “È troppo tardi”. A Camerlata: “È partito per la Francia”. A Parigi: “È occupato in Germania”.
Per oltre un anno e mezzo, la medesima musica. Non abbiamo desistito. Per due motivi: la curiosità di riuscire almeno una volta a parlare con lui e il timore di dover dar risposta ai posteri per aver tralasciato addirittura “un Pelandini”.
Il miracolo è avvenuto ieri l'altro. Per la prima volta, dall'opposto capo del telefono un suono, una voce, una melodia. Un anno, sette mesi e un giorno. Una lunga attesa. Ne valeva la pena.
Per capirlo è bastato un secondo. Il tempo di stringergli la mano e di guardarlo negli occhi.
Giulio Pelandini è una persona cortese, ma schietta. Quando finalmente l’abbiamo contattato, dopo aver acconsentito a rilasciarci un’intervista, ha detto: «Se mi avessero precisato che si trattava di un giornalista, non avrei risposto al telefono». Gli crediamo. Senza prendercela, però. Il suo atteggiamento non ha nulla da spartire con l'alterigia o la supponenza. Semplicemente, si tratta di discrezione e riservatezza, due comportamenti poco di moda ai nostri giorni, ma che nella considerazione dei savi vengono ancora annoverati tra le virtù.
Cinquantaquattro anni, industriale tessile, titolare della Stamperia di Camerlata. Un’azienda gloriosa e una feconda fucina per decine di imprenditori. Una storia che si ripete. Suo padre Giovanni apprese l'arte in Pessina, prima di cominciare a camminare con le proprie gambe.
Alla prematura scomparsa del fondatore toccò a Giulio e agli altri familiari reggere il timone per portare avanti l'impresa. Ci son riusciti bene ed ora è già il tempo della terza generazione. Un momento di passaggio meno brusco, rispetto al precedente, ma ugualmente delicato. Colpa della congiuntura. Parola complicata, sinonimo di crisi.
«Il comparto tessile sta vivendo un cambiamento epocale e strutturale che non ha paragoni recenti. In Europa, a ben guardare, qualcosa di simile è accaduto solo nella seconda metà del secolo scorso, quando all'espansione dei mercati, registrata dopo il 1850, fece seguito un reflusso drammatico. Oggi la crisi di numerosi mercati mondiali, dal Sud Est asiatico all'America latina, ha drasticamente diminuito le vendite. Perciò il settore tessile, che è il più globalizzato, si trova a dovere fare i conti con un vero e proprio terremoto».
Sarà più facile salvarsi per le industrie grandi e per quelle piccole?
«Premesso che ciò che chiamiamo industria tessile, in verità è un grande artigianato, poiché vengono prodotti quasi esclusivamente prototipi ed è altissima la componente creativa: le dimensioni contano poco. In questi frangenti, ciò che importa per le aziende è una buona capitalizzazione, cioè una robusta capacità finanziaria».
Le banche aiutano o affondano?
«Senza dubbio paghiamo il fatto che non ci sia una banca locale. La politica attuale degli istituti di credito è di agire in maniera equiparata, prescindendo dal settore. Soltanto una banca con radici ben piantate nel nostro territorio potrebbe comprendere il periodo che questo distretto sta attraversando, avendo la lungimiranza di premiare progetti industriali a lungo termine».
Poche parole, misurate. Frutto di buone letture. Giulio Pelandini non si accontenta di leggere libri. Conserva pure l'ambizione di poter trarne una lezione.
«Dedicarsi all'azienda di famiglia è stato naturale. Per i giovani d’oggi, invece, la possibilità di optare per numerose soluzioni rende praticamente impossibile scegliere. Questa è la difficoltà di chi ha dai venti ai quarant'anni. La così detta “generazione invisibile”, come ho trovato scritto in un bel saggio».
Lucido nell'analisi, pacato nella riflessione, Giulio Pelandini non frequenta gli estremi. Per lui, il massimo dell'esaltazione è una scintilla negli occhi. E quando qualcosa lo preoccupa, riesce a far sentire tutto il peso di una responsabilità, senza lambire il baratro della disperazione.
«Ho sempre lavorato con piacere. Rispetto ad ieri, è lacerante il dover fare ogni giorno scelte senza ritorno, cioè con la consapevolezza di non poter sbagliare due volte. L’Europa Occidentale si trova ad un bivio: o smantella la propria industria manifatturiera o garantisce un rapido abbattimento del costo del lavoro e una forte mobilità. Non c'è scampo. Più tempo la popolazione impiegherà a comprenderlo, più alto sarà il prezzo da pagare e il numero delle vittime».
6 giugno 1999
Nessun commento:
Posta un commento