Ti do del tu, anche se sarebbe più corretto l’io.
E scrivo “umano”, non “vivo”, poiché vivo lo sei e parli, comunichi, mio prolungamento e nel contempo essere a sé stante, autonomo: durerai più a lungo di quanto farà il sottoscritto, dirai di me anche quando avrò chiuso gli occhi e il labbro resterà freddo, muto.
Quattordici anni.
Era il primo ottobre del 2007, la mattina in cui ho scelto per te forma e titolo, scrivendo le prime venti delle migliaia e migliaia di righe che ti costituiscono.
Appartieni a una specie che s’é fatta rara e ha un nome buffo, quattro lettere in tutto, che paiono un rigurgito: blog.
Hai passato momenti d’oro, mietiture abbondanti, seguite da stagioni asciutte, semi sparsi sul terreno duro.
Sei stato a tratti nutrito, irrorato, posto sotto la luce, coccolato, a tratti invece trascurato, lasciato in ombra, messo a digiuno.
Mai però s’è spezzata quella fibra che ti mantiene vegeto, quel filo che ancor oggi, quattordici anni dopo, cuce e ricama “pensieri e parole, in libertà”, come quel primo giorno.
P.S. A proposito di spezzarsi e mantenersi vegeto. Annoto qui la resistenza del ramo d’olivo, un grosso ramo, che il peso della neve lo scorso inverno aveva lacerato, strappandone le fibre, tanto che dei sette o otto centimetri di diametro, attaccati al tronco non ne restavano che un paio.
“Seccherà”, ho pensato.
“Seccherà e in primavera lo taglierò”.
Per tagliarlo, l’ho tagliato, ma secco non era affatto.
Da quei due centimetri la linfa è continuata a scorrere, mantenendo il legno verde, vivo.
E l’immagine di quel ramo, divelto e insieme resistente, sopravvissuto, mi si è stampata in mente come un monito, a ricordarmi che per quanto la vita possa piegarti, troncarti, lacerarti, basta poco per restare attaccati ad essa e mettere di nuovo germogli, fiori, frutto.
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