lunedì 12 dicembre 2011

Lo studente lavoratore

Studente lavoratore. Lo ripetono ossessivamente, in radio e in televisione, raccontando la tragedia dei tubi che si accartocciano sul palco del palasport di Trieste, uccidendo Francesco Pinna, un ragazzo di vent'anni che per pochi euro all'ora montava le impalcature.
Ma non è di questo che volevo parlare, né del triste sudario che si leva in questi casi, dove un dramma atroce si mescola con lo spettacolo, visto che su quel palco si sarebbe esibito poche ore più tardi Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.
Lascio che il carrozzone vada avanti da sé e faccio un passo indietro, invocando la possibilità che deve esser data ai ragazzi di cimentarsi nel lavoro, di mettersi alla prova e nel contempo imparare un mestiere. Tra i molti tagli del governo Monti potrebbe esserci lo spazio anche per qualche agevolazione alle imprese, affinché inseriscano tra i loro ranghi delle persone con meno di trentacinque anni.
Io quella quota l'ho superata da un pezzo, ma devo dire che sono grato a quanti mi hanno permesso di lavorare, anche se non sempre in regola o retribuito congruamente, concedendomi però in cambio di attivarmi, di non restare passivo, di sperimentare.
Come spesso accade, in Italia passiamo direttamente da un estremo all'altro senza toccare quel mezzo che invece sarebbe auspicabile. Prendiamo il giornalista. All'abusivismo più vile, con nessun contratto in regola e il disprezzo pure della decenza si oppone una rigidità da "Primo premio Inpgi" che non si concilia affatto con le esigenze di autentica formazione.
Nel primo caso, le aziende che lo praticano restano impunite, perché altrimenti minacciano di portare i libri direttamente al tribunale fallimentare e chiudere baracca e burattini. Nel secondo caso (che ho sperimentato quando ero a La Provincia) non c'è un cavillo fuori posto ma per formare un possibile giornalista e poterlo valutare dovrebbero trascorrere almeno due ere geologiche, con poi il cappio al collo del non poter recedere dagli impegni, una volta presi, che detto in modo più brusco si traduce in un solo verbo: licenziare.
L'estrema flessibilità non è auspicabile, ma assolutamente indispensabile se vogliamo crescere generazioni di persone in gamba, che non si limitino a vivacchiare.
Lo scrivo non per me, ma per i miei figli, per i loro coetanei, che hanno diritto ad avere una possibilità come l'abbiamo avuta noi, che grazie a quella gavetta abbiamo imparato a guadagnarci il pane e a masticarlo pure.
L'alternativa non è "più occupazione per tutti", bensì un sistema ingessato, che si atrofizza pian piano e lentamente s'accartoccia. Così com'è capitato alla struttura sul palco del teatro di Trieste, dove per cinque euro all'ora un ragazzo doveva accontentarsi di mettere insieme tubi, mentre magari aspirava a far altro, ma non poteva permetterselo perché in Italia l'avviamento al lavoro è limitato da una giungla di vincoli e non resta che l'espediente, il tirare a campare fino a che in qualche caso, proprio come per Francesco, si muore.

Foto by Leonora

1 commento:

Unknown ha detto...

Le Morti sul lavoro sono il rischio che si corre quando si affronta una cosa di cui si conosce poco o tutto.Puo' accadere al piu' esperto o al neofita,la causa puo' essere propria o per mano di altri che non rispettano i principi di sicurezza.Il fatto che sia capitato ad una persona che praticava senza essere li nella qualita' di addetto ma di aiuto aggrava il fatto.Per svolgere certi lavori,si deve conoscere la materia,o deve conoscerla chi dirige.Poi subentra il fato.......