giovedì 2 luglio 2015

Il ritorno del sorriso (siamo ruote che girano)

Foto by Leonora
Il collo di bottiglia del tempo è sempre più stretto e in questi giorni i pensieri, tutti insieme, fanno tappo.
Penso ai compagni del liceo incontrati due settimane fa, un ritrovarsi spontaneo, nonostante i trent'anni anni di solco, ma che ci ha restituito più docili, meno spigolosi, maturi davvero (e non in virtù di una licenza scolastica che allora era barriera da superare d'impeto).
Penso a Giacomo, ai suoi diciott'anni, all'esame di teoria della patente che ha appena superato e al fatto che se fosse nato nella mia generazione avrebbe avuto di fronte un anno da passare lontano dagli amici con cui trascorre la maggior parte del tempo, in una caserma a Vipiteno o a Fano o ad Ascoli Piceno (com'è cambiato il mondo, in meglio, anche se non ce ne accorgiamo, presi come siamo a temere il futuro e rimpiangere senza distinguo il passato).
Penso alla crisi, che se per qualcuno è soltanto dolo e danno, per alcuni è opportunità, mentre per tutti può essere un mondo più a misura d'uomo (penso ad esempio alle amministrazioni comunali, a come le risorse sempre più scarse costringano sindaci, assessori e consiglieri a cercare l'aiuto di tutti; penso agli stessi cittadini, che nel male e nel bene devono farsi carico in prima persona di problemi per i quali prima delegavano, costretti dagli eventi a ricordare che il paese in cui vivono non è di qualcun altro, bensì loro, per cui o si trasformano in comunità oppure fuori da casa cresceranno le erbacce, nessuno farà attraversare davanti alle scuole i bambini, gli anziani non potranno uscire di casa e sarà soltanto un grumo di appartamenti, senza legame sociale alcuno; penso alla tutela del paesaggio, che fino a che il mercato immobiliare "tirava" non importava a nessuno, mentre ora si fa di necessità virtù e si costruisce con molto più riguardo).
Penso alla bellezza dei ragazzi di cui sono stato ospite a cena, sabato scorso: insieme hanno chiesto un fazzoletto di terra e lo stanno trasformando in un parco, lavorando fianco a fianco, con tutto l'entusiasmo e la pienezza di vita dell'adolescenza, che mi pare meno complicata di un tempo, pur se il tempo nel frattempo si è complicato (me lo spiego nella capacità di adattamento degli esseri umani, per cui io che sono cresciuto in un altro tempo sono spaventato dalla precarietà, dall'incertezza introdotta dalla crisi di cui sopra, mentre loro ci sono cresciuti dentro e insieme alla malattia hanno sviluppato gli anticorpi per affrontarla al meglio, senza drammi né pianto).
Penso a tutto questo ma più di tutto a Stefania e a suo figlio Edoardo, che le assomiglia come una goccia d'acqua, anche se ha lo stampo di suo padre Tomaso, che dovrà imparare a conoscere dai racconti che altri faranno e per me, per sua madre credo, per tutti noi, se ci ragioniamo a freddo è una sofferenza lacerante, un'ingiustizia incommensurabile, ma lui probabilmente la avvertirà meno, almeno a prestar fede a ciò che mi raccontava il mio d'un padre, che il suo non aveva fatto in tempo a conoscerlo, avendolo perso anch'egli da bambino. Penso a Edoardo e Stefania ma per quanto mi sforzi nessuno può sapere né capire cosa provano realmente, dentro, ciò che si spezza e ciò che resiste, nonostante tutto. Siamo ruote che girano e un giorno, d'improvviso o annunciate, si fermano, questo sappiamo. Con due certezze: ciascuno è solo e nudo di fronte al dolore ma per chi sopravvive prima o poi torna il sorriso.

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