Completo un pensiero lasciato a metà - me ne rendo conto solo adesso - nel post precedente. Aggiungendo questo: non si fanno crescere i giovani, i ragazzi, a parole, bensì evitando di metterli sotto una cappa di vetro, non proteggendoli troppo, lasciando loro quella libertà che noi stessi abbiamo avuto ma che ora difficilmente concediamo. Un quesito semplice semplice, proprio in base all'esempio citato ieri: se mio figlio volesse prendere la bicicletta e a quindici anni, cioè adesso, andarsene con un paio di amici al lago di Ghirla, lo lascerei andare. O penserei: "Oddio, e il traffico? E se gli succede qualcosa? Almeno che abbia il cellulare. Ma deve proprio andare? Ma se facesse dieci volte avanti e indietro da qui a Gironico (il paese accanto al nostro) non sarebbe lo stesso? Non può aspettare l'anno prossimo?".
Il fatto, come riconosce Angelo - sì, lo stesso Angelo che veniva con me in bici a Ghirla - è che spesso vogliamo usare l'esperienza maturata negli anni e non soltanto metterla a disposizione dei nostri figli, ma anche imporla, senza tener conto che l'esperienza è giusto se la facciano loro, sbattendo pure il muso, a volte, ma imparando ad osare, cadere e rialzarsi, quando è il caso.
Siamo una generazione di mammoni e lo scrivo senza giudizi sprezzanti, sapendo che il primo ad esserlo sono io. Confondiamo la vicinanza con l'invadenza, lo stare a fianco con il mettersi davanti e tracciare il sentiero. Così facendo però non solo non scopriranno mai una strada loro, ma saranno pure deboli, passivi, dimessi, senza visione, oltre che uno spazio proprio.
Foto by Leonora
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