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Parole che restano vuote in assenza di un significato, di una comprensione che vada un passo più in là della definizione sul vocabolario. Provo a farlo, pescando nelle vicende domestiche e nei discorsi a spizzichi e bocconi di stamattina.
Onestà intellettuale è quando assaggio il purè di patate e pur trovandolo gustoso mi pare che manchi qualcosa, forse più burro, o il latte, e lo chiedo a Isabella, che l'ha fatto, e subito mi risponde risentita - proprio come faceva mia madre - dicendo che è normale, che l'ha fatto come al solito, che sono io il difficile, il mai contento, che lei è stufa, che insomma, in più che lo fa, deve sentire anche lagnanze e sbuffi. Generalmente, quando accade, ci mandiamo a quel paese reciprocamente, senza ascoltare minimamente le ragioni dell'altro. Oggi no, oggi evito di offendermi e con l'aiuto di Giorgia convinco Isabella ad abbandonare la difesa istintiva e a provare a sua volta, ad assaggiarlo, a dire cosa ne pensa. "Mmmhhh, è vero, può darsi, c'è qualcosa... è, come dire, è... farinoso. Sono le patate". Oh, finalmente! Posso rimettere il cucchiaio di legno nella pentola e tornare a servirmelo a cazzuolate, senza ritegno. E' farinoso, è vero - e io che non riuscivo a trovare la parola, ad abbinare la sensazione a un aggettivo - ma è tremendamente buono lo stesso. E Isabella mi è stata di conforto, dimostrando "onestà intellettuale" appunto.
La "ragion di Stato" invece me la spiega lo zio Emilio, ottant'otto anni lo scorso mese di maggio, raccontandomi di quando era prigioniero in un campo di lavoro tedesco, durante la seconda guerra mondiale. Non ne parla spesso, o meglio, di questi tempi lo fa assai più volentieri mentre per una vita intera è stato sfuggente, evasivo. Vai a capire le reazioni dell'essere umano. Comunque oggi, non so perché, incappiamo nel discorso e lui dice che quando il Duce venne liberato dal Gran Sasso e portato in Germania il governo di Hitler concesse ai prigionieri italiani un trattamento migliore, che si tradusse come prima cosa nel togliere i lucchetti alle baracche, permettendo loro di andare avanti e indietro. "Io ero un ragazzotto - mi dice in dialetto - ma c'erano uomini di trenta, trentacinque anni che si fecero una vita. Di tedeschi in giro ce n'erano pochi, erano tutti al fronte, lì rimanevano le donne. Senza uomini". Un sorrisetto malizioso ma non ostentato, come pensando tra sé e sé, fa da chiosa all'ultima frase. Ci penso un secondo e lo incalzo: "Zio, tu mi hai insegnato a essere antifascista, ma allora il Duce qualcosa di buono l'ha fatto". E lì l'Emilio si anima, drizza il busto, ti fissa dritto negli occhi e a voce più alta di prima dice: "Certo! Per noi lì la vita era cambiata!". Ora sono io a sorridere, vedendolo ringalluzzito, e penso alle tante volte in cui critichiamo quel tale presidente perché ha ricevuto o non ha ricevuto il Dalai Lama oppure il Papa, quando fece visita al Cile dei Colonnelli. Un gesto incomprensibile nel due più due fa quattro della logica, ma che probabilmente ha comportato (o non comportato) conseguenze per decine di migliaia di persone.
Ecco, populismo è quando si grida alla vergogna, allo scandalo, o viceversa al plauso, senza badare con onestà intellettuale alla ragion di Stato che induce a comportarsi o non comportarsi in un certo modo.
P.S. Tanto per chiarire, controllare i rimborsi spese dei consiglieri regionali e renderne pubblico il rendiconto, anche attraverso i giornali, è sintomo di trasparenza e senso civico. Dire che sono dei furbi, dei vigliacchi, allorché si scopre che hanno usato i nostri soldi per farsi i porci comodi loro non è populismo, bensì un sano e consapevole rifiuto di farci prendere per il c...
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