Ci giro in giro a lungo, sperando di passarci attraverso semplicemente lasciando scorrere il tempo, spostando ogni giorno la pietra d’inciampo più in là, tendendo i fili delle relazioni umane lo stretto necessario, rispondendo a chi bussa alla porta senza cercare per primo nessuno.
È una bolla, una risacca, un mulinello di sentimenti quello in cui sono finito, senza che i più lontani se ne accorgano, perché per notare certi stati d’animo occorre tenere il palmo della mano sulla guancia dell’altro, con in più la fortuna di cogliere il momento esatto del fremito, quell’istante in cui il disagio emerge, nitido, a dispetto della copertura di normalità spalmata sul resto.
È trascorso un anno esatto da quando te ne sei andato e - vengo al punto - non riesco ancora a guardare dritto nel vuoto che hai lasciato, allo sgomento che provo tuttora, quel misto di indifferenza e cinismo necessario per andare oltre, avanti almeno un passo. Quella forra di senso la sfioro, la accarezzo, la sondo, la assaggio, ma dentro non ci butto gli occhi mai, tenendo al riparo pure il cuore, come dietro un recinto.
È trascorso un anno esatto e proprio in corrispondenza di questo anniversario mi trovo aggrovigliato in una matassa di fili senza bandolo, conscio di essere così poco lucido da girare spesso a vuoto, incapace di comprendere ciò che io per primo voglio.
Aveva ragione la Deledda: siamo “canne al vento”. Chi più, chi meno, ci passiamo tutti, così come ciascuno di noi prima o poi deve affrontare il dilemma di Primo Levi: perché lui, perché lei e non io? Cosa ho fatto per meritarmi la fortuna di sopravvivere e cosa faccio per esser degno di essere sopravvissuto, per non sprecare o sciupare il dono ricevuto?
Domande a cui non trovo risposta, limitandomi a mettere un piede dopo l’altro, avanzando, confidando che alla fine, a distanza di mesi o di anni, guardando indietro, unendo i puntini, il cammino appaia tanto chiaro da prendere la forma di un contorno, l’immagine di qualcosa di buono, forse pure di bello.
P.S. Annoto qui una sensazione - poiché di ciò si tratta: un sentire, un sentore, un intuire, non un sapere, non un averne piena certezza, che è come il sogno, che sfugge quando nel dormiveglia si pensa di averlo acciuffato del tutto - che traspare con maggior lucidità proprio nel tempo più opaco. È la percezione esatta, lucida, che esista proprio un “disegno”, che capitino eventi, occasioni (qualcuno li chiama Provvidenza, altri destino, altri ancora semplicemente colpi di c… fortuna), come la sceneggiatura di un romanzo, come se qualcuno stesse tramando per noi, tessendo fili a prima vista invisibili ma che uniti danno sostanza a un tessuto, a qualcosa che ci comprende, quasi che tutto l’universo si pieghi per scrivere una storia in cui noi, ciascuno di noi, è al centro, protagonista in assolo di un’orchestra in cui siamo contemporaneamente musica e spartito, uditore e strumento.