Sia messo agli atti, a imperitura memoria: per mettere alla prova il mio noto spirito ottimistico nei confronti dell’essere umano, dell’umanità in sé e il convincimento sul suo progressivo “addomesticarsi”, diventare più gentile, tollerante, “umana”, appunto, ha fatto sì che mio figlio diventasse... arbitro.
Di calcio.
Non occorre aggiungere altro.
Qualcosa forse sì, potremmo aggiungerlo, così, per sport, per condividere più il divertimento che la rabbia, l’incredulità, lo sgomento, la delusione, la stizza nel sentire panciuti cinquantenni che non correrebbero di fila più di un minuto, mamme che il pallone sanno a malapena ch’è rotondo, nonni che a fatica si reggono in piedi, spesso aiutandosi aggrappandosi alla rete di recinzione a bordo campo, non cessando però di imprecare, sgolarsi, insultare con ostinazione e rancore profondo.
Il lato positivo - perché c'è sempre un aspetto positivo, in tutto - è che così alleno me stesso alla tolleranza, allo spirito zen, alla comprensione profonda dell'animo umano, incluso bassi istinti e diffusa ignoranza, ricordando che le persone sono quello, ma pure molto altro.
P.S. "Idiota", Mongolo", "Bastardo", "Capra", "Cretino", "Deficiente", "Venduto", "Fighetta"... Potrei continuare a lungo, con l'aggravante che finora, ad un anno esatto dal suo esordio (l'1 ottobre 2022), un po' per fortuna, un po' per suo talento, non c'è stata partita che sia una terminata in malo modo ovvero con proteste e lamentele dissennate e corali, al di là di qualche urlo, qualche epiteto più o meno volgare, variopinto. E anche quando le orecchie sentono gli insulti che gli rivolgono contro, il cuore non smette di essere fiero di quel ragazzo solo, in mezzo al campo, che (come altri ragazzi e ragazze) per pochi spiccioli e molto impegno, compie il proprio dovere, crescendo innanzi tutto come essere umano.
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