venerdì 11 gennaio 2019

Fabrizio e l'Orso (Scriviamoci più spesso)


"Le parole che avrebbe potuto ancora dirci".
Ne ha nostalgia, David, che mi ricorda i vent'anni dall'addio di De André, e provo desiderio di ascoltarle pure io.
Non soltanto di De Andrè, anche delle molte persone che ho conosciuto e che tuttora incontro, riproponendomi e scordandomi ogni volta, inevitabilmente, di fissarle negli occhi, di guardarvi con attenzione dentro.
Corro veloce, anche sui volti e sulle storie di chi mi è sovente accanto, così come di coloro contro cui incoccio, per caso. Perciò, ad inizio anno, mi sono ripromesso di fermarmi più spesso, ritagliandomi del tempo per scrivere lettere, per avviare una corrispondenza meno banale del semplice saluto.
Una forma, quella epistolare, che a ben guardare utilizzo sempre più frequentemente in questo blog, rispondendo all'esigenza di evitare il monologo e avviare il dialogo.


P.S. Oggi è nato il figlio di Luca "il Drugo", collega e amico, che ha scelto per il bimbo un nome spiccio quanto impegnativo: Orso. A lui dedico questo puzzle di frasi delle canzoni di De Andrè, che proprio David mi ha "regalato" (poiché anche io e David un po' "Orso" lo siamo).
"Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra. Io nel vedere quest’uomo che muore madre io provo dolore: nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore. E se questo vuol dire rubare questo filo di pane tra miseria e fortuna, alla specchio di questa kampina ai miei occhi limpidi come un addio, lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di dio. Ma se capirai, se li cercherai fino in fondo se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo. Vanno, vengono, per una vera mille sono finte e si mettono lì tra noi e il cielo per lasciarci soltanto una voglia di pioggia. Sembra di sentirlo ancora dire al mercante di liquore “tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?”. Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso, il lampo in un orecchio e nell’altro il paradiso. Dio di misericordia il tuo bel paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura, l’inferno esiste solo per chi ne ha paura. Tu che mi ascolti insegnami un alfabeto che sia differente da quello della mia vigliaccheria. Mia madre mi disse non devi giocare con gli zingari nel bosco. E scappò via con la paura di arrugginire, il giornale di ieri lo dà morto arrugginito, i becchini ne raccolgono spesso tra la gente che si lascia piovere addosso. E tu piano posasti le dita all’orlo della sua fronte: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte. Ma gli occhi dei poveri piangono altrove, non sono venuti a esibire un dolore che alla via della croce ha proibito l’ingresso a chi ti ama come se stesso. Ma a cuiuassi no riscisini l’aina e l’omu, che da li documenti escisini fratili in primu. Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte. E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà. E un giudice, un giudice con la faccia da uomo, mi spedì a sfogliare i tramonti in prigione. Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati a cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato. Quando in anticipo sul tuo stupore verranno a chiederti del nostro amore. Passerà anche questa stazione senza far male, passerà questa pioggia sottile come passa il dolore. Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati. Ricorda Signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti".

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