Proverbio africano
Riconoscere mi piace come verbo, poiché anche ai distratti, ai superficiali, ai supponenti, concede una seconda possibilità.
Sono riconoscente verso molti, una schiera che pure a quella degli angeli e dei santi farebbe concorrenza, tanto che se dovessi prenderne intera consapevolezza finirei con il restare schiacciato, rendendomi conto di aver ricevuto assai più di quanto abbia mai dato e possa in futuro dare.
Debbo gratitudine nei più svariati ambiti, da quello famigliare a quello professionale, passando per amicizie, passioni, amori, passatempi, svaghi...
Quando mi definisco "un uomo fortunato" non millanto, non esagero, non pecco di immodestia. Mi limito a guardare con lucidità alle mani che mi sono state tese, agli buoni che ho incrociato, alla compagnia e ai favori di chi ha messo me al primo posto, fosse per un istante, in coda allo sportello delle poste, o per una vita.
P.S. Scegliere uno, in casi come questo, non è fare torto a tutti gli altri, bensì estrarre semplicemente dal mazzo una carta, portare esempio per evitare di ricorrere a un elenco.
Angelo Curtoni è stato il mio primo direttore - non ne ho avuti molti e a tutti sono grato - forse il meno potente, tuttavia colui che per primo ha investito su di me, concedendomi dapprima fiducia e poi stima, ricambiata. Con il passare del tempo e per uno di quei riccioli del destino che rendono la vita sapida, m'è capitato poi di passare dall'altra parte della barricata ed essere io a commissionargli articoli, che lui puntualmente consegnava. Ieri l'altro, per caso, me n'è capitato sotto occhi uno, spuntato per caso - se il caso esistesse - dalla posta elettronica. Si intitolava: "Storie ferragostane: il guaito del cane e il pianto dell'uomo" ed è stato pubblicato su La Provincia il 17 agosto di quattordici anni fa, nel 2008.
Lo copio e incollo qua, a futura memoria.
L'estate è stanca e consumata e vuol ritirarsi. E con essa se ne vanno anche le vacanze. In compenso esce ancora acqua fra i lastroni di piazza Cavour: responsabile una falda acquifera su cui, sembra, poggia la città murata. Tanto per complicare le cose. Ma lasciamo che i problemi comaschi decantino e rilassiamoci con un apologo estivo.
Ero andato in questi giorni a far la spesa in un supermercato e ad un palo metallico dove si allineano i carrelli vi era, legato con il proprio guinzaglio, un bastardino. Si agitava ma adagio, come rassegnato, e guaiva. Faceva pena.
Dopo circa mezz'ora avevo riportato il carrello e, stupito, avevo notato una ragazza che stringeva fra le braccia il cane, che non si agitava più ma tremava, come avesse la febbre. Incuriosito, avevo chiesto alla ragazza se il cagnolino era suo e lei mi aveva risposto di no, che l'aveva notato al mattino legato a quel palo e, tornata nel pomeriggio, l'ha trovato ancora lì, spaventato e piangente. E allora aveva capito. I suoi proprietari l'avevano legato a quel palo poi, invece di entrare per la spesa, erano risaliti in macchina e se n'erano andati in vacanza. Insomma, aveva concluso, l'avevano “scaricato”.
Più o meno nello stesso tempo m'ero accorto di non incontrare più un mio vicino di casa a passeggio col suo cane. Era una coppia che dava nell'occhio per la sproporzione fra l'uomo e l'animale. Lui, circa uno e novanta spalle larghe e pancia incipiente, il cagnolino un pugno di peli color champagne lunghi e setosi, piccolo come un peluche, quattro etti di cane o giù di lì. L'uomo camminava a passi lenti e pesanti per adeguarsi al cagnolino che zampettava veloce. Poi, al rientro, prendeva in braccio quel pugno di peli che sembrava un giocattolo ma era vecchio e non riusciva più ad arrampicarsi sulle scale che, per lui così piccolo, sembravano l'Everest.
Ora è morto perchè era giunta la sua ora. Me l'ha detto il mio vicino che non è riuscito a trattenere le lacrime. Un pianto inconsolabile. Nonostante la sproporzione fisica, o forse anche per quella, si volevano bene.
Due storie tristi. Che dovrebbero insegnare qualcosa. Anche nel bailamme di Ferragosto.
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