(Quanta tragicità. Scusate.
Rifaccio)
Di troppa razionalità si sta male, non si vive bene, in certi casi ci si inacidisce, finendo dalla parte del torto, pure partendo dalla ragione.
Un pensiero fisso, che gravita impertinente e che provo a sviluppare qua, per scrupolo di autocritica, consapevole che l’assenza di prove non cancella gli indizi.
Siamo fatti di testa, ma anche di pancia, di stomaco, di cuore.
“Sapere” non è l’unico criterio per giudicare, comprendere, prendere decisioni: esiste il “sentire”.
In questo tempo, tra i molti ostacoli alla discussione serena, alla comprensione reciproca sui più vari e vasti temi (guerra, migranti, morte e giudizio su Berlusconi…) senz’altro metto l’incapacità di riconoscere dignità all’opinione altrui, di accettare che il metro di giudizio possa non essere la logica, i numeri.
Si vorrebbero tutti scienziati, quando fatichiamo già a riconoscerci l’un l’altra come esseri umani.
Riteniamo di escludere la possibilità di errore considerando il massimo dell’intelligenza quella delle macchine, dei computer.
Ma quella dei computer, delle macchine, è il contrario dell'intelligenza, del saper "leggere tra le cose".
Smetterla di considerare la razionalità l'unico criterio interpretativo, il solo modo corretto per prendere decisioni, lasciare spazio al dubbio, potrebbe essere un buon modo per aprire spazi di possibilità, invece di continuare ad alzare muri con le nostre certezze.
"Sensibilità", potremmo definire tutto questo. Così come "esuberanza" è il nome che darei a quella condizione di produzione feconda, di continuo seminare e fiorire, contrapposto al primato dell'efficienza, della tecnica, dell'ottenere "il massimo risultato con il minimo sforzo", come direbbe Umberto Galimberti.
Sono pensieri complessi, me ne rendo conto.
Rispondono, più che a uno studio, ad una intuizione.
Tuttavia, messi in fila, mi paiono costituire una sorta di vocabolario della modernità, chiavi di lettura per le stagioni attuali.
Per questo li rendo pubblici, non avendo altro pulpito di questo diario privato (privato di tutto, tranne che della vanità e dell'ambizione di provare a capire, di voler condividere).
P.S. "Chi ha ragione deve essere ragionevole" è una delle frasi che mi piace di più, che ripeto più spesso.
Un invito alla dolcezza, all'esser miti, che è il contrario della debolezza: è anzi soltanto dei forti.
Poiché solo i forti sanno farsi carico dei dubbi e della responsabilità, evitando di schiacciare chiunque sotto il peso delle loro certezze.
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