Il club dei "noisti". Coloro che dicono sempre di no. Un dettaglio che avevo dimenticato e che ha un padre d'autore, Giovanni Guareschi, uno degli umoristi più sottili e sapidi che il secolo scorso ci ha regalato.
Per il resto, ricordo un signore spiccio e svelto, che nel paio d'ore scarse in cui siamo restati uno di fronte all'altro, non sono riuscito a farmi un'idea certa se la severità che ostentava fosse d'indole oppure soltanto un vezzo, uno veste con la quale s'ammantava per marcare una distanza tra se stesso e il mondo sconosciuto.
Per scoprirlo dovrei chiederlo ai figli, a Bianca o Corrado, perché nel frattempo Antonello se n'è andato, lasciando però eredi che portano della famiglia Passera il vessillo, continuando la tradizione di un "modesto ristoratore" di inizio Novecento.
Ottant'anni. Con qualche acciacco, è vero. Nulla però di tanto grave da indurlo a rinunciare al lavoro quotidiano.
Possiede due alberghi, il Terminus e il Villa Flori.
Una moglie, quattro nipoti, tre figli. Tutti e tre laureati alla Bocconi.
Bianca ha partorito pochi giorni fa. Corrado è niente meno che amministratore delegato delle Poste Italiane. Antonello lo ha affiancato «in bottega», regalandogli la soddisfazione di costatare che l'impresa di famiglia «non si è volatilizzata».
Se è vero che un uomo, per essere fortunato, deve contare su qualche santo in paradiso, Gianni Passera si è di certo ingraziato l'intera corporazione dei beati.
Non che in vita sua i momenti bui siano mancati. Solo che ogni volta ha trovato qualcuno che l'aiutasse a riaccendere la luce. Come nel 1943. Campo di concentramento, prigioniero dei tedeschi. Due anni di violenze, privazioni, stenti. «Ero una larva - ricorda - pesavo quarantun chili». Lo preservò dalla disperazione solo la solidarietà tra compagni. Uno di loro portava un nome destinato a diventare celebre: Guareschi Giovannino, l'inventore di Don Camillo e Peppone e del Candido.
«Era un personaggio incredibile. Riusciva a sorridere di tutto, anche nelle circostanze più tragiche. Quando passava davanti alla fotografia di Hitler porgeva un saluto tutto cerimonie e ossequi, ma sostituendo il saluto romano col gesto dell'ombrello».
«Avremmo fatto tutto per un tozzo di pane, tranne che rinnegare la nostra Patria. Dicemmo no quando ci proposero di passare tra le truppe naziste. Ripetemmo il rifiuto quando fummo invitati a lavorare per loro come bibliotecari. Dicemmo no anche allorché ci fu chiesto di aderire alla Repubblica Sociale di Salò e replicammo picche dopo la liberazione degli alleati, che ci volevano collaborazionisti. "Sai Gianni cosa facciamo - mi disse Guareschi - fondiamo il club dei "noisti", quelli che rispondono sempre no».
Gianni Passera delle parole non abusa. Ricerca ogni aggettivo con la stessa meticolosa cura con cui le signore scelgono l'abito per le serate di gala. Di tanto in tanto, per sottolineare un concetto che gli pare di speciale importanza, tira in lungo una vocale e traccia con la punta dell'indice un immaginario rigo a mezz'aria o un punto interrogativo sul cuoio della cartella poggiata sulla scrivania.
Sbrigativo e spiccio nei modi, Passera è sagace nel replicare con ironia a ciò che lo indispettisce.
Cosa pensa del turismo a Como?
«Signori studiosi dell'informazione - risponde pepato - dovreste fare delle richieste più precise. Un mio professore chiamava questi argomenti "scatoloni vuoti". Quando sento discutere se la vocazione di Como debba essere industriale o commerciale o turistica, penso: "quante parole inutili". Tutte le zone economicamente più evolute sono a natura plurima. A un'attività industriale, ne affiancano una commerciale, una agricola e anche una turistica. In Italia abbiamo due modelli a cui mirare: l'Alto Adige e la Valsassina».
Il potenziale turistico di Como è sfruttato pienamente?
«No. C'è ancora molto da fare».
Che cosa?
«Aumentare la cultura. Investire in cultura. A questo ho sempre creduto. Quando mi laureai, nel 1940, discussi una tesi sull'industria alberghiera e turistica. Solo due studenti avevano in precedenza trattato quel tema. Fortunatamente oggi la biblioteca è zeppa di studi simili».
Come mai scartò il settore serico, la libera professione, il pubblico impiego e scelse di fare l'albergatore, che allora più di oggi doveva aver sapor di bancone e di osteria?
«Mi piaceva l'idea di continuare il sogno di mio padre Antonio, che iniziò come modesto ristoratore a inizio secolo. Terminando le scuole complementari alla sera, gradatamente diventò gestore del più bel albergo di Como. Un vero “self made-man”. Nel 1920, con l'aiuto dell'avveduto proprietario della Banca Taiana & Perti, poi Banco Lariano, arrivò dapprima ad affittare l'hotel San Gottardo e successivamente ad acquistare il Terminus. Con mio fratello Corrado non feci altro che continuare proficuamente la sua attività».
E ora è un suo figlio a mantenere viva la tradizione.
«Terminata l'università, Antonello decise di accettare le proposte di prestigiosi hotel. Ha fatto esperienza in tutti i settori di albergo, dall'economato all'amministrazione, dal ricevimento alla direzione e persino in cucina. Al Danieli di Venezia diventò aiuto cuoco».
"Dottor Passera, mi dia il passino delle uova!". Lo chef non sarà stato in imbarazzo, ma lei?
«Per me un figlio con l'umiltà di voler imparare è un orgoglio, non una vergogna. Fui lieto anche quando decise di rinunciare alla carriera per dedicarsi all'azienda di famiglia. Gli alberghi diventano facilmente obsoleti. Se non si tengono aggiornati decadono. Per rinnovare i nostri occorreva una forza giovane, con un po' di prurito, un po' di grinta».
E l'altro figlio?
«Fa il postino» ribatte sornione.
Le ha già spedito qualche lettera o cartolina?
«Certo, ed è arrivata in tempissimo. L'ha fatto apposta, per azzittirmi».
Parla sovente con lei di lavoro?
«Sì, anche se a volte siamo in contrasto, non mi ritiene un vecchio bacucco. Di recente mi ha mandato una sintesi del piano di impresa, imponendomi l'ovvia riservatezza».
Andreotti ha dichiarato che, in Italia, i matti che non affermano di essere Napoleone, dicono di voler risanare il bilancio delle Ferrovie. Non è che per le Poste il compito sia più agevole.
«Il compito di rendere efficienti le Poste è improbo. È come far camminare un carro dalle ruote quadre».
Perché Corrado ha accettato?
«Ha risposto ad una sollecitazione di Ciampi, che voleva un non politico e un non asservito».
Quando le confidò di voler accettare un tale incarico?
«Il giorno in cui fui operato per la quarta volta di artroprotesi. Era la prima decade di febbraio. Io non sapevo da che parte prendere e lui mi disse: "sai papà, mi hanno chiesto se...sto pensando di...". Figuriamoci se in un momento del genere mi mettevo a dare consigli».
Va d'accordo coi suoi figli?
«Moltissimo, ma bisogna intenderci. Se io dico bianco loro rispondono sempre rosso e le discussioni proseguono a lungo. Quello che infine cede sono io».
Cosa più ammira in loro?
«Come, non aveva detto che a quest'ora doveva andarsene?».
Appunto.
Como, 23 agosto 1998
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