Debbo moltissimo ad Adolfo Caldarini, il mio direttore dei tempi del Corriere, la cui stima mi è stata da spunto, oltre che da sprone, per ciascuno degli oltre centoquaranta "ritratti" di comaschi illustri, da lui fortissimamente voluti.
Il guizzo vivace nei suoi occhi ogni volta che leggeva la bozza dell'articolo valeva assai più di qualsiasi compenso, così come il cenno di approvazione finale, spesso con qualche sottolineatura.
Un rituale con rarissime eccezioni. La più clamorosa - e dolorosa - è legata per me a Martino Verga, una tra le persone che tra l'altro ho ammirato di più, avendo la fortuna di frequentarlo anche successivamente a quel primo incontro.
L'intervista che ne uscì, infatti, non piacque per nulla a Caldarini, che da galantuomo qual era non me lo nascose, dandomi così un dispiacere e insieme una lezione. "Giorgio! - esclamò, chiamandomi nel suo ufficio - Giorgio... Sai quanto ti stimo, vero? Però sai anche perché ti stimo? Ti stimo perché mi piace come scrivi ma più ancora perché hai un dono: riesci a cogliere l'essenza delle persone e a trasmetterla in poche righe. Stavolta invece hai scritto poco o nulla di Martino e invece hai fatto un pippone su quello che fa, che dice. Ti prego, rifalla".
Così la riscrissi. Non tutta. Una parte, poiché mancava poco ad andare in stampa, aggiungendo tuttavia qualcosa che in effetti mancava.
A un quarto di secolo di distanza lo ricordo ancora e qui ne voglio segnalare pure il motivo: Martino Verga era talmente appassionato del suo lavoro, di ciò che faceva, che ha finito con il contagiare anche me, che ho quasi scordato lui, ammaliato e affascinato, quasi ipnotizzato, da quel suo modo lieve e piano di parlare, quasi sussurrando.
Il paragone, più che ardito, appare sfrontato.
L’uno “mostro gigantesco, non simile a uomo che mangia pane, ma a picco selvoso tra alte montagne”. L’altro, laureato in chimica e biologia, industriale nel settore alimentare. Il primo, prepotente e sciagurato, figlio di Poseidone. Il secondo, tranquillo e misurato, discendente da una famiglia che da quattro generazioni si occupa di impresa e affari. Quello, capace di lanciar massi grandi quanto “un cucuzzolo di un gran monte”. Questo, abile nel l’usare il cervello. Nulla sembra più distante di due siffatti opposti.
Eppure Polifemo e Martino Verga qualcosa in comune hanno. “Subito fece cagliare una metà di quel bianco latte” recita Omero, cantando del ciclope le gesta. Polifemo la sapeva lunga, per farla breve, in fatto di latte e formaggi. Proprio come Martino Verga, titolare di aziende che si occupano di biotecnologie.
Lo precede una fama ingombrante. Ci hanno detto che è intelligente. Quando ci fa accomodare nel suo ampio ufficio, che alle pareti ha appese tele che rappresentano mucche («i clienti vedono le loro bestie e sono contenti»), le aspettative nei suoi confronti sono elevate. Non ne restiamo delusi. L’aspetto cortese, quasi dimesso, non trae in inganno. Martino Verga possiede un dono raro: esser semplice, ma non banale; presentare dei fatti le conseguenze, non desistendo dal ricercarne le cause. Ciò a prescindere dall’argomento interessato, che si tratti di teorie scientifiche o della presentazione della sua principale attività.
«Il Caglificio Clerici, seleziona enzimi da impiegare nel settore lattiero caseario. La Sacco, acquistata dodici anni fa, produce fermenti lattici e microrganismi per l'industria alimentare».
Bastano poche parole per svelare l’arte del suo mestiere. Conciliare una trovata antica quanto il mondo con le esigenze e le innovazioni tecnologiche attuali.
«Dall’alba dei tempi l'uomo ha imparato a far fermentare gli alimenti per conservarli. Fino a pochi anni fa, per cagliare il latte, si immergevano pezzetti di stomaco animale che, rilasciando enzimi, consentivano la coagulazione. È evidente che ripetere pari pari quest'operazione oggi non tutelerebbe affatto l'igiene, perciò, utilizzando lo stesso principio, selezioniamo chimicamente gli enzimi per cagliare il latte. Medesimo discorso vale per la produzione di microrganismi. Un tempo, quando il contadino mungeva, nel latte cadevano anche alcuni microbi. Questa flora batterica dava un gusto particolare al formaggio. In Val d'Aosta si otteneva la fontina, in Campania la mozzarella, in Svizzera l'emmental coi buchi e così via. Nel latte cascavano anche microbi pericolosi, portatori di tubercolosi o altro. Per questo il latte deve essere pastorizzato, eliminando tutti i microrganismi. È necessario allora raccogliere tutti i microbi buoni, selezionarli, pulirli e fornirli ai caseifici per differenziare i sapori dei vari prodotti».
Un mestiere complesso, che necessità di continua ricerca. Per associazione di idee non possiamo non chiedere della collaborazione con l’università.
«All’Unione industriali si parla molto di questo rapporto aziende-università. A Como ci sono difficoltà ad instaurare un rapporto proficuo. Ritengo che dipenda dalla tipologia aziendale. Per il tessile, ad esempio, le tecnologie non sono in rapidissima evoluzione, per cui la ricerca è meno importante e collaborare non diventa una necessità. Per noi è il contrario e la risposta dell’università è indispensabile».
Avviato il discorso, non resistiamo alla tentazione di metterlo alla prova su un tema affascinante, ma che raramente si concilia con l’ambizione al profitto di un imprenditore. Ricerca può voler dire manipolazione genetica, cioè i confini etici del proprio lavoro, dove la domanda diventa un abisso.
«Di principio sono assoluta mente contrario a certe tecniche. Se però in futuro il mercato dovesse accettarle, potremo ignorarle? Almeno centodieci famiglie contano sul nostro lavoro. Sentiremmo di aver la coscienza a posto se non ci preparassimo? Certo i rischi sono notevoli. È scontato condannare la manipolazione su esseri umani, ma ci sono settori in cui la questione è più sottile ed egualmente pericolosa. Pensiamo all’inquinamento ambientale. Fino ad ora si è sempre parlato di quello chimico. Le acque sporcate delle tintostamperie, i gas di scarico delle automobili, eccetera. Meno evidente, ma altrettanto dannoso può essere l'inquinamento biologico. Se si manipolano microrganismi, piante, animali, quando questi tornano a contatto con l'ambiente, non è che muoiano e svaniscano nel nulla. A differenza delle sostanze chimiche, queste si riproducono, invadono nicchie ecologiche, distruggono, si sostituiscono facilmente ad altre specie. C'è stata un'azienda che produceva semenze in grandissima quantità e le manipolava in modo che le piante che nascevano da esse fossero resistenti agli erbicidi, prodotti dalla stessa ditta. Qualcuno aveva ipotizzato che i geni modificati sarebbero potuti trasferirsi in altre piante, ma gli scienziati negarono tutto. Così si produsse il mais resistente. Anni dopo si notò che le erbacce, di genere e specie completamente diverse, erano diventate resistenti agli erbicidi. L'evoluzione genetica non era stata controllata. Qual è la lezione? Dobbiamo forse inventare erbicidi sempre più potenti? Non è una corsa folle?».
La fama non è stata smentita. La retorica è rimasta fuori dalla porta. Lo stesso vale per il giudizio su Como.
«Considero assai triste la chiusura di tanti negozi. In centro rimangono solo quelli di abbigliamento. È innegabile una dissoluzione del tessuto sociale. Una città è viva se ci sono possibilità per tutti. Alla fine di ogni anno sul Sole 24ore compaiono alcune statistiche. Mi ha colpito il fatto che Como è in quasi tutti i settori in posizione mediocre o cattiva. Siamo invece al terzo posto come presenza di grandi centri commerciali. Primeggiare solo in questo campo evidenzia comunque uno squilibrio. Si parla di Como città turistica, ma a parte il lago e alcuni monumenti, non esistono attrazioni come in altre città lombarde. Forse solo Sondrio e Varese non ci superano. Poi c'è troppa rissosità. Mi pare che i comaschi prendano gusto a bisticciare. Appena qualcuno ha una proposta, ecco che si alza un altro per criticare. Bisogna rifuggire dal pettegolezzo e dal litigio continuo. A parte questo Como è un bel posto».
L’analisi continua, ma ci piace finire qui. Per tutto il tempo abbiamo avuto un pensiero che stentavamo a reprimere. Tanto sforzo per nulla, poiché prima di congedarci non riusciamo a trattenerci. Complimenti per le molte candidature, abbozziamo.
La sua reazione è decisa, ma bonaria. «Basta con i borsini - replica corrucciato, senza però nascondere un sorriso - a parte che vengo pure preso in giro, quello che mi scoccia è apparire come un arrivista e un intrigante. Non è così. Desidero solo dedicarmi al mio lavoro».
11 gennaio 1998
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