La prima atleta che in vita mia ho intervistato, ben prima dell'incontro per questo articolo. La più "normale" tra le speciali che hanno vinto tutto. Una donna che dell'esistenza ha sperimentato il dritto e pure il rovescio. A Viviana Ballabio sono legato da più motivi e se scelgo la data odierna per ripubblicarne il suo "ritratto" è perché oggi compie gli anni, volendo così con queste parole fare un regalo, per primo a me stesso.
Per incontrarla, siamo tornati a casa. Seduti fianco a fianco, sulle tribune di un palasport che per anni abbiamo frequentato. Il tempo non si è fermato, ma basta un sorriso, una parola, uno sguardo per riattivare il circuito delle relazioni umane.
Viviana Ballabio, capitano della squadra femminile di pallacanestro del Pool Comense. Viviana Ballabio, ovvero l'elogio della normalità. Perché un talento eccelso la natura in dono non le ha portato. Niente polmoni capaci di sbuffare come caldaie o il fosforo di uno stratega geniale, né la mira infallibile di un formidabile cecchino. Di straordinario Viviana ha soltanto la forza della volontà. Ed è ciò che l'ha condotta lontano.
Nulla le è stato regalato. Quel che ha, se l'è preso sul campo. Giocando ogni partita come fosse l'ultima e terminando ogni volta fiacca e molle come un sacco svuotato. Ecco perché, a trenta tre anni compiuti, ammiriamo ancor più il suo stare al gioco. Abituata fin da ragazzina a competere con chiunque per ritagliarsi un posto in squadra, Viviana tra i due canestri non ha mai cercato il risparmio. E nemmeno riesce a farlo ora, che pure gli acciacchi e la stanchezza consiglierebbero prudenza e parsimonia. Potesse almeno imitare Mario Corso, che aveva nei piedi un tesoro e per gran parte dei novanta minuti si permetteva di cercare l'ombra in un prato dove gli alberi non crescono. Ma tirarsi indietro non può e non deve. Fosse nata uomo e avesse giocato a calcio il destino di Viviana non poteva essere che quello del mediano. Cuore grande e vita breve. Sportivamente parlando, si intende. Invece è ancora lì, ad inseguire ragazzine e a tirar manate ad un pallone. Stanca e rassegnata, ma non sconfitta.
«Con il nuovo allenatore si lavora molto e dopo ogni allenamento o partita che sia, mi accorgo di fare una gran fatica a recuperare. In più, non sto benissimo fisicamente. Mi tormentano cento fastidi, ma non mollo. Voglio riuscire a concludere la carriera in bellezza. La stagione scorsa non è stato possibile, spero avvenga quest'anno».
Stringe i denti, come sempre. Si rimbocca le maniche, abbassa la testa e pedala. Pure senza bicicletta pedala. Nei suoi occhi la luce splende ancora, anche se ormai è quella del tramonto.
«Penso sempre più spesso a cosa farò dopo, come impiegherò il mio tempo, che lavoro sceglierò. Non ho deciso ancora nulla. L'idea di rimanere nel settore, pur con un altro ruolo, non mi dispiace, ma neppure mi entusiasma. Certo alla Comense sono legata, ma non è scontato che nei piani futuri della società rientri io. Chissà, forse potrei esaudire qualche sogno. Come andare a curare le foche monache, in qualche fiordo lontano».
Mentre parla si torce i capelli. Distrattamente infila tra le ciocche e i riccioli scuri le dita. Un vezzo che ha sempre avuto. La concessione più civettuola di una ragazza poco abituata ai belletti e ai fronzoli della vanità. C'è infatti un'unica gara che vede Viviana sconfitta in partenza: la corsa all'estetista o al parrucchiere. Eppure in poche altre donne traspare una femminilità tanto intensa e vera. Una femminilità fatta di contrasti. Fragile e forte insieme. Tenera e tenace. La prima volta che l'intervistammo, dodici anni fa, scrivemmo che era dolce. Non abbiamo cambiato idea.
«Eppure cambiare idea è un segno di maturità. Io, ad esempio, quando è arrivato Aldo Corno, l'allenatore con cui abbiamo vinto tutto, ero disperata. Avevo una pessima opinione di lui e non lo sopportavo. Un'antipatia contraccambiata, tant'è vero che lui voleva cacciarmi via. Poi ci siamo conosciuti, chiariti, spiegati. È servito del tempo, molto tempo, ma alla fine ci siamo compresi a vicenda e credo che non potevo avere maestro migliore».
Guarda il campo vuoto e sorride. Ne ha viste e sentite tante il PalaSampietro, ma non ne racconta nessuna. Conserva geloso i segreti che vi sono custoditi.
Come nella favola del Re Leone, la storia di ognuno rientra nel cerchio della vita che, chiudendosi, ogni volta si rinnova.
«Quando ho iniziato a giocare non vedevo nulla oltre la pallacanestro. Respiravo, mangiavo, vivevo per il basket. Negli anni '90 è venuto il tempo della maturità. Eravamo un gruppo omogeneo, compatto e motivato. Non erano sempre rose e fiori e a volte si creavano forti antipatie, come tra Fullin e Gordon. Ognuno però voleva vincere e ciò faceva appianare qualsiasi contrasto. L'attuale gruppo è formato da giovani, che cercano di ritagliarsi con le unghie e con i denti un po' di spazio e da atlete come Zara e Paparazzo, consapevoli del loro valore e che hanno raggiunto uno standard altissimo di qualità. Infine ci sono io, che ho il futuro ormai alle spalle, ma che credo ancora di poter rendermi utile».
Beata modestia. Non finta, però. Brianzola autentica, abituata a contare le monete e a misurare le parole, Ballabio non è il tipo da portarsi appresso i numerosi trofei che ha vinto, tanto meno tutti i giorni, come fossero caricati su un carretto.
«No, non penso mai ai campionati o alle coppe che ho vinto e tanto meno al fatto che verrò ricordata in futuro».
L’ora dell’allenamento si avvicina. Dallo spogliatoio si affacciano le prime cestiste in braghette e canottiera. Dalla tribuna si sente guaire. Per tutto il tempo se n’è stato silenzioso, ma ora reclama un po’ di attenzione anche per sè. Si chiama Douce, è un barboncino. Da dieci anni la accompagna ovunque. Nessuno conosce Viviana meglio di lui, ma non può parlare. Anche stavolta ci dovremo rassegnare. Peccato capiti a noi di scrivere da cani, ma non il contrario.
22 ottobre 2000
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