venerdì 4 dicembre 2009

Sì, sono razzista, ma pentito


Ieri l'altro ho visto un film, s'intitola "Giù al nord" e racconta con umorismo e delicatezza i pregiudizi nei confronti dell'altro, a qualsiasi longitudine e latitudine. Nello specifico, quelli degli evoluti francesi del sud nei confronti dei paesanotti francesi del nord. Inutile dire che ho ritrovato tanti piccoli e grandi razzismi che io per primo alimento, e che indicano ignoranza più che cattiveria. Mi ha fatto sorridere quando il marito trasferito al Nord, per compiacere alla moglie rimasta in Provenza e convinta del fatto che oltre il Passo di Calais siano tutti zotici e ubriaconi, non riesce a dirle la verità e si fa passare lui stesso per alcolista. "Corrono in macchina e bevono: d'altra parte, c'è da capirli, non hanno niente da fare di meglio, lassù" dice in sostanza la donna, e mi sembra di sentire i miei stessi pensieri quando leggo di un incidente in Valtellina o in alto lago di Como. Che stupidaggine. Inutile aggiungere che per il sud Italia è anche peggio e ora come ora - che il nero e in generale lo straniero sono diventati vicini di appartamento, e non più gli eroi buoni che leggevo nei fumetti di Mandrake, da bambino - la diffidenza e il pregiudizio sono un tutt'uno. Non parlo del razionale, ma dell'istinto, del vissuto. E vale viceversa, perché la supponenza di sentirsi i migliori non conosce confini di stato e non lascia immune nessuno. Ecco perché l'aspetto che più mi ha affascinato del film che ho visto, non è stata la macchietta dei preconcetti, bensì la descrizione di un paese che accoglie, che dà il meglio di sé per far sentire a proprio agio l'intruso. Mi è venuto in mente che questi nostri paesi, ora spaventati e che si chiudono a riccio nei confronti di tutto ciò che invade il loro, il nostro mondo, sono stati in passato testimoni di fratellanza, di porte aperte per lo straniero, il povero, il pazzo. Mi tornano in mente i rari racconti di mio padre, che ricordava sua nonna Lucia e una scodella di minestra che non si negava a nessuno, così come un posto caldo in cascina, su quello stesso fieno che faceva da materasso pure alla famiglia. E la corsa a offrire ospitalità, negli anni Settanta, a chi doveva scappare dalla guerra, fosse dal Vietnam (a Grandate arrivarono molte famiglie) o dal Libano (a Caccivio aprirono le porte dell'oratorio per farli dormire e lo stesso avvenne in moltissimi altri centri del circondario).

Perché siamo cambiati, cosa c'è di diverso in noi rispetto a loro? Siamo diventati più ricchi, non c'è dubbio, e questa ricchezza non l'avvertiamo più come benedizione o fortuna da condividere, ma come privilegio da difendere, orto da recintare. Ma non può essere solo questo. Siamo diventati diffidenti, ci mettiamo poco in ascolto dell'altro, riduciamo tutto al materiale e quando rimaniamo scottati lasciamo che la rabbia e la delusione abbiano il sopravvento, reagendo con durezza e concedendo raramente l'occasione di un riscatto. Vale per il colore della pelle, la carta d'identità e pure per la condizione sociale o l'idea politica (e non mi riferisco solo a chi vota Lega e si sente puro, ma anche a quanti disprezzano chi vota Lega senza comprendere che quel voto rivela una paura e più ancora un bisogno). Integrazione non significa tradire le nostre tradizioni, dimenticare chi siamo, ma non dimenticare chi siamo, non tradire le nostre tradizione significa anche ricordare che i nostri nonni, che mangiavano carne solo una volta la settimana, se andava bene, non hanno mai chiuso la porta in faccia a uno sconosciuto e imparavano a conoscerlo, prima di giudicarlo.
Foto by Leonora

4 commenti:

andre ha detto...

....ricchezza, ottusità, ideali politici, mi sembrano un film già visto. Credo che più di tutto possa una sorta di povertà ideale, spirituale, che limita il nostro desiderio di vita, la nostra innata tendenza di animale sociale. Testa bassa, futuro "corto" anche se la nostra speranza di vita si è notevolmente allungata, lavoro e null'altro, così (o quasi) scorrono le nostre giornate....fortuna che qualcuno si è inventato i blog!!!

silvia ha detto...

La minestra, il fienile, cose che mi ha raccontato anche mia mamma... ma.. c'è qualcosa che non mi quadra. C'è dello zucchero in quella minestra, Giorgio e Andrea. E poi mi dà fastidio l'idea che quelli di sinistra debbano essere "con" gli stranieri, e quelli di destra "contro". Perchè è quello che leggo nei vari blog: guelfi e ghibellini. Io non ci sto. Voglio avere la libertà di non sopportare lega leghisti e legaioli, ma anche di non sopportare la difesa a spada tratta degli stanieri. Qualcuno mi spieghi perchè le carceri ne sono piene, se sono così tutti buoni e bravi, e non venite a dirmi che sono costretti dall'indigenza a derubare le nostre case, perchè mi arrabbio. Mi metto nei panni dei milanesi che vivono in certi quartieri e non scarto l'ipotesi che al loro posto voterei lega, pur turandomi il naso.(vedi lettera sull'unità, stamattina)
ciao

Giorgio ha detto...

Non sono tutti bravi e buoni, come non lo siamo noi. Una maestra saggia mi ha insegnato che nell'immigrazione si spostano fondamentalmente due categorie di individui: quelli desiderosi di migliorare e che al proprio paese non ne avrebbero la possibilità e quelli che già al proprio paese sono parassiti e spostandosi sperano di farla franca, sfruttando il fatto che nessuno li conosca. Io non sono per il buonismo, sono per l'essere buoni, che è altra cosa. Essere buoni non significa tollerare che le regole fondamentali della convivenza vengano infrante. Nè da parte di colui che giunge in un paese ospitante e neanche da colui che ospita. Rinunciare a queste regole, abdicare ai valori fondanti la propria società, sarebbe sciocco, oltre che dannoso. Con il mio post volevo ricordare che, tra i valori fondanti, c'è anche un'accoglienza non ottusa, non mercificata, non basata esclusivamente sul "gli servo, mi servi". Essere buoni non significa accettare o addirittura favorire un'invasione che distruggerebbe il paese ospitante, con tutti gli aspetti positivi che inducono il migrante a trasferirsi. Essere buoni significa essere forti, così da portarsi sulle spalle il peso di un'integrazione ardua, ma non impossibile.

andre ha detto...

francamente anch'io forse voterei lega se abitassi certi quartieri di Milano anche se...cosa voterei se abitassi certi quartieri di Napoli??? e comunque non si tratta ovviamente di zuccheri e fette di salame sugli occhi (sinceramente le preferisco passate alle papille gustative, e di molto!!): si tratta da una parte del concetto stesso di integrazione, dall'altra della nostra qualità di vita. Sul primo: integrare significa anche venirsi incontro, ovvero tu stai alle mie leggi, alla mia lingua, in parte ai miei costumi (per una questione di sensibilità), dall'altra però anch'io imparo qualcosa della tua lingua, della tua tradizione, del tuo mondo. Diversamente si tratta di adattamento, ch'è altra cosa, e di gran lunga assai più rischioso. Sulla seconda mi pare sia la paura a farla da padrona, e temo fra un po', sarà la paura anche del nostro stesso "genotipo" dato che a contare sarà più il nostro personale orticello che non la nostra comunità (intesa come genere umano!). E' la partita tra individuo e comunità, entrambi con la stessa identica necessità e lo stesso inalienabile diritto ad esistere ed essere coltivate.