sabato 1 novembre 2025

Stelle pendenti (Trova le differenze)

Un paio di settimane fa sono andato ad ascoltare Sandro Sallusti, per lo stesso motivo per il quale l'anno scorso ero a sentire Nicola Porro. Stessa rassegna, identico salone affacciato sul lago, profondamente diversi loro, pur scrivendo per la medesima testata.
Sono schietto: Porro l'ho apprezzato, poiché instilla il dubbio, citando fatti; Sallusti mi ha infastidito, riportando opinioni, mistificando e in più ostentando la sindrome di Calimero (noi vittime, noi accerchiati, noi ostacolati, noi etichettati). La sua teoria è: "Siamo tutti uguali", ma non è vero. Tutti prendiamo una "parte", però c'è chi cerca di comprendere le ragioni degli altri e chi invece non ci prova nemmeno, usando le proprie convinzioni come una clava, un martello.
La differenza non sta in destra o sinistra, conservatori o progressisti, liberali o socialisti, bensì tra  “pendenti” (opinionisti che parlano ai loro “clienti” e cercano adepti, piegando o cercando di piegare ogni fatto alla loro teoria) e indipendenti (commentatori che di volta in volta valutano i fatti e cercando di comprenderne il buono e il gramo attraverso i loro valori di riferimento).
Gli uni non sono “meglio” degli altri. Semplicemente appartengono a due generi diversi e le persone, possono scegliere quale preferiscono. Una varietà di voci che distingue l'opinione pubblica democratica da quelle di altro stampo. La verità assoluta non esiste, l'unica garanzia di informazione libera è il pluralismo.

P.S. Se lo guardo a ritroso, tutta il mio percorso professionale è una continua ricerca di indipendenza nel giudizio. Cioè un vedere e raccontare ogni cosa come chiedeva Montanelli: "in chiaro scuro". Se infatti si enfatizza il "troppo chiaro" si è dei leccapiedi, se si predilige il "troppo scuro" si diventa canaglie. Sono occhiali, non verità. Però gli occhiali degli indipendenti permettono di dire che il re è nudo, a prescindere che stia simpatico o meno. I "pendenti" lavorano per giornali di schieramento, gli "indipendenti" per testate “generaliste”, come lo sono quasi tutte quelle “locali” per altro, nelle quali l’appartenenza è quella di un territorio, in cui c'è sia chi la pensa in modo, sia chi in quello opposto. Ecco perché a Brescia mi trovo a mio agio: pensare alle ragioni degli altri diventa necessario, esattamente come per i Sallusti, Belpietro, Travaglio, Fabozzi è obbligatorio restare nell’alveo dell’opinione omogenea del loro gruppo.

sabato 25 ottobre 2025

Volti e disinvolti (Cercare lavoro)

Le carta della “disinvoltura”, nel mazzo dei sostantivi, è una comparsa. Tra le qualità fa capolino di rado, una semplice damigella d'onore, al cospetto di matrone quali onestà, generosità, empatia, coraggio, pazienza, rispetto, entusiasmo, fiducia...
Io stesso, lo confesso, non è che l'abbia mai considerata. Eppure un atteggiamento di sicurezza, di naturalezza, di “disinvoltura” appunto, nove volte su dieci fa la differenza, in positivo. 
A farmici pensare è stata Maura Gancitano, durante un convegno che ho moderato a Brescia, nel quale di passaggio, quasi con noncuranza, ne ha fatto riferimento, elogiandola.
Un tributo a cui mi associo, riconoscendole la dignità che merita, soprattutto quando è cercata, coltivata.
Esiste infatti una disinvoltura naturale, propria di chi ha un talento, una sicurezza di sé, parente stretta della sfacciataggine, della sfrontatezza.
La disinvoltura a cui invece mi riferisco non si riceve in dono, bensì si acquisisce o, meglio, si costruisce. È frutto dell’esperienza, discende da una confidenza che a sua volta deriva dalla pratica, da un costante allenamento ad affrontare questa o quella situazione.
La prima, quella naturale, è un “carisma”: chi lo possiede, lo stende come un velo, su tutto.
La seconda è settoriale, dipende dal contesto: si può essere disinvolti negli affari e imbarazzati negli affetti; brillanti nei discorsi a tavola e rigidi su una pista da ballo; eleganti con jeans ed anfibi e impacciate quando si indossano abiti e tacchi a spillo; campioni sul campo da calcio e pasticcioni con la racchetta da padel in mano.
In questo senso, la “disinvoltura” è una capacità e come tale può essere appresa e allenata, dunque a nessuno è preclusa e chiunque, impegnandosi, può smetterla di essere… imbranato. Appuntiamocelo.

P.S. Il valore della “disinvoltura” è sottostimato anche in ambito lavorativo. Lo scrivo soprattutto per i più giovani che, mancando di esperienza, è probabile non ce l’abbiamo. Una zavorra che pesa soprattutto all’inizio del percorso, quando un mestiere si comincia a cercarlo. Il consiglio - non richiesto, come lo sono sempre i suggerimenti dei vecchi tromboni - è di osare. Specialmente in principio, non è importante quale lavoro si trova, bensì che si impari a “cercare un lavoro”.
Le prime occupazioni con ogni probabilità non saranno quelle di un'intera esistenza, ma ciò che si apprenderà trovandole quello sì sarà utile per tutta la vita.

venerdì 17 ottobre 2025

Quant'è profondo (Il bene)

Ha compiuto sessant'anni qualche settimana fa e per una serie di sfortunate coincidenze non sono riuscito a festeggiarlo. Stasera, tornando da Brescia e rovistando tra i libri ho trovato casualmente la sua firma, con dedica. Un libricino che mi ha regalato a metà degli anni Settanta e di cui non conservavo memoria.
Raffaele, oltre che un vero "sapiente", è uno dei miei migliori amici, una persona con cui non smetto mai di crescere, pur se ci incontriamo con il contagocce e la mancata assiduità nella frequentazione è uno dei pochi rimpianti di questa vita per il resto piena e generosa. Di contro, se immagino i miei anni futuri, quelli che trascorrerò se riceverò in dono l'abbondanza d'età, mi "vedo" al suo fianco, nel convivio di una tavola apparecchiata e di cibi semplici ma saporiti, come quelli che prepara. Ciò che provo per lui, al netto di tutto, è un "bene" fatto persona, un sentimento che incide e lega e tutto supera, nulla intralcia. Un "bene" che assomiglia a ciò che chiamiamo Dio, “senza misura”.

P.S. Ci sono case e chiese e bar e piazze e spiazzi. Poi ci sono luoghi del cuore: quelli in cui ci si sente a proprio agio. Uno che frequento spesso, di recente, è il duomo vecchio di Brescia, una magnifica basilica romanica a pianta circolare, che si erge massiccia e parimenti è piantata profonda nel terreno, tanto che per raggiungervi il basamento occorre fare due rampe di scale, in discesa. La associo a Raffaele perché un'identica quiete mi ispira, la stessa sensazione di pace, di essere al posto giusto, di non avere più nulla di chiedere, di bastare a se stessi e non essere mai soli. Quelle mura, proprio come l'amicizia, hanno un respiro antico, primigenio, sedimentato nel tempo, capace di fornire riparo, protezione, e allo stesso modo di proiettare verso l'alto, la luce, qualcosa che ci trascende e trasmette unità, nel corpo e nello spirito.

venerdì 10 ottobre 2025

Trovare equilibrio (Taci e pedala)

Tu dici: “Non trovo l’equilibrio”. Ma l’equilibrio non è un punto da trovare, bensì una strada da percorrere. Equilibrio è andare in bicicletta: se ti fermi cadi, se invece pedali resti saldo in sella.
Chi si ferma è perduto. Al massimo si può diminuire la velocità di crociera, così da gustare meglio il panorama, che nella vita equivale agli incontri, a ciò che restituisce calma, piacere, bellezza. Oppure scegliere un diverso punto della pista. Nel lavoro, ad esempio, mi piace partire dal fondo e non per caso, né per modestia, mi occupo dell’ultima pagina, quella delle lettere al direttore. Da lì infatti si ha il polso di ciò che pensa la gente reale, senza filtro o censura, e ogni giorno, rispondendo a questa e a quello, si scrive un piccolo editoriale, trasformando le parole in goccia.

P.S. Restare un passo indietro non mi pesa, ma non ho problemi a occupare la prima fila, com'è capitato lo scorso martedì, all’inaugurazione della mostra per gli ottant’anni del GdB, non potendo esserci Nunzia e avendo l'onore di rappresentare le centinaia di giornalisti che hanno lavorato al GdB e le decine che lo confezionano nelle sue varie forme, cartacee e digitali, tuttora.
Il discorso che ho fatto è stato breve, ricordando innanzi tutto che un giornale ha una sua importanza non soltanto di per sé, bensì per il territorio a cui appartiene e che racconta. Un territorio, senza un suo giornale di riferimento, è un territorio più povero e che si inaridisce, inesorabilmente, venendo meno sia il megafono delle proprie istanze, sia il simbolo di un'identità che, nella continua narrazione, accomuna.
Per ricordarlo ai presenti, ho scelto di restituire tre sguardi che coincidono con altrettante originalità distintive.
La prima è un’eredità culturale, dipende dalla città in sé, da una città che da duemila anni conosce ricchezza, economica e di riflesso culturale. Una ricchezza ch’è sedimentata e pretende dal giornale che ne sia all’altezza.
La seconda originalità concerne il modo in cui è nato il Giornale di Brescia, mettendo insieme - come in un crogiolo, potremmo dire, evocando il primato che qui ha da dozzine di secoli la metallurgia - varie forze, ideologicamente anche distanti tra loro, ma che in un dato momento storico, con un comune obiettivo, hanno trovato unione e forza. Quello spirito, quella vocazione a rappresentare l’intero arco costituzionale delle idee, dei pensieri, delle aspirazioni, continua, così come non cessa quella libertà data da una tradizione forte e da un editore puro, che non ha interessi di bottega, ma cuore per l’intero “sistema Brescia”.
La terza originalità è invece dovuta all’età del GdB, agli ottant’anni, che sono moltissimi, in relazione alla vita di ciascuno di noi, eppure lo qualificano come relativamente giovane se si pensa alle altre eccellenti testate a cui si paragona, a cominciare da quelle dove ho lavorato io, ai cento e trentatré anni de La Provincia di Como, ai cento e ventisei anni de Il Cittadino di Monza, ai cento e quarantacinque dell’Eco di Bergamo. Ottant’anni dunque sono un tempo relativamente breve per un giornale ed è una "gioventù" che io noto limpida, per lo spirito effervescente, brioso che ha, per la voglia di fare, per come ha raccolto le sfide del digitale, ma pure perché in piena crisi, quando tutti gli altri quotidiani tiravano i remi in barca, Brescia ha investito capitali ingenti per una sede nuova, bellissima, che profuma di futuro e in cui si sta bene, si costruisce insieme alle pagine, una casa.
Ecco perché il taglio del nastro ch'è stato fatto non celebra soltanto il passato, essendo di buon augurio per il futuro, per altri ottant’anni - minimo - di vitalità e presenza.




sabato 4 ottobre 2025

La mossa del pedone (Due verità)

La realtà si può guardare e affrontare in molti modi, ciascuno di noi ha il suo. Il mio è questo: non posso pretendere né imporre che gli altri cambino, l’unico che può “agire” il cambiamento sono io.
Un po’ come nel gioco degli scacchi. Se l’altro muovesse il pedone, sacrificasse il cavallo, spostasse l’alfiere, proteggesse la regina… Invece no. Fa di testa sua, a noi spetta soltanto una mossa, la nostra mossa, di rimando.
Non è una resa, né la rinuncia all’azione. Esattamente il contrario: concentrarsi su ciò che è in mio potere davvero, su qualcosa che posso fare di concreto. Che poi è uno degli insegnamenti del buddismo.

P.S. Questa settimana, complice l’assenza di Nunzia, sul lavoro sono uscito spesso dalla confort zone, comparendo in pubblico, stringendo mani, scambiando opinioni, tessendo pubbliche relazioni. La sorpresa più lieta, lo ammetto, è stata frà Luigi, francescano, direttore della scuola di Luzzago e cappellano agli Spedali Civili, dove vive in fraternità con altri francescani. Mi ha raccontato che lo chiamano anche in piena notte per un’estrema unzione o un colloquio struggente con i parenti di un infortunato grave o un moribondo. Mi ha detto una cosa bellissima: “Quando incontro un malato o una persona che soffre non gli parlo “di Gesù”, bensì mi accorgo che sto parlando “con Gesù”. Per la Chiesa e per San Francesco, l’incarnazione è in colui o colei che abbiamo accanto”. Che poi è l’essenza stessa del cristianesimo.

sabato 27 settembre 2025

Guardare l'altro (Davvero)

Tutti no, non lo siamo. Qualcuno che conosco però sì, è un "meteorologo". Non nel senso che sviluppi modelli previsionali matematici, né si limiti a scrutare il cielo, semmai il soggetto dell'osservazione è il volto di colui o colei che ci troviamo accanto, per comprendere come stia davvero.
Così mi pare d'essere anch'io e lo associo sempre a qualche trauma avuto da bambino o, meno drammaticamente, all'essere cresciuto in luoghi o momenti in cui la tensione era palpabile e restare in silenzio, drizzando le antenne per capire cosa stesse succedendo, risultava una necessità prima ancora che un vezzo. 
Chiamiamola empatia, o sensibilità, importante è intenderci su cosa essa sia, perché al pari di tutte le virtù ha in sé, innato, il pericolo di trasformarsi in un vizio, rovinando l'esistenza, non permettendo di distinguere più il bordo altrui dal proprio.
Ecco perché ogni ragazza o ragazzo "meteorologo" spesso ha, per contrappeso, una capacità alta di proteggersi, talvolta rintanandosi, come in un guscio.
In ogni caso, per chi vuole scoprire chi siano i "meteorologi", suggerisco un metodo efficacissimo: guardare gli occhi, negli occhi. Quanti hanno animo empatico, infatti, utilizzano le pupille come radar, uno scanner, abili nel vagliare di volta in volta chi si trovano di fronte e cogliere ogni minimo segnale. Cominciando dagli occhi, appunto, sapendo guardare "veramente" l'altro.

P.S. Di convesso, c'è una desolazione potente che sperimenta il cuore umano: è quella, appunto, di non essere "guardato". Una sensazione di trasparenza che mortifica pure il più orso, piallando altresì l'autostima in soggetti con un ego vasto quanto un campo. A volte passare sotto traccia risulta ossigeno, specie nei giorni di gran caos, con mille stimolazioni che pungono dappertutto. In altri momenti, al contrario, si sperimenta quanto sia umiliante, triste e mortificante sentirsi soli, anche quando è zeppo di gente attorno, ragion per cui se mi chiedessero un regalo per Natale o il mio compleanno, racconterei il desiderio di ricevere in dono la capacità di incrociare sempre gli occhi altrui e di appoggiarvi i miei, non facendoli scivolare via distratti, posandoli adagio, confidando in un contraccambio, affinché si inneschi una scintilla che scaldi il cuore e non faccia sentire soli, nell'universo.

sabato 20 settembre 2025

Non è mai troppo tardi (Potare e coltivare)

Di mamma ce n'è una sola, anche quando la si vede poco.
Imparo molto da lei, tuttora, specialmente quando non proferisce verbo ed è con l’esempio che dà lezioni di vita, a tutto tondo.
Me ne sono accorto nei giorni scorsi, assaggiando una pietanza che non aveva mai preparato e facendo mente locale che nell’ultimo mese non è la prima volta. Ho ricordato allora le trasmissioni di cucina su cui è sintonizzata la sua tv, realizzando che invece di rattrappirsi su ciò che sa, prende spunto per nuove ricette, dimostrando che imparare non ha età, basta averne desiderio e spirito. E che lei ne abbia è indubbio. Basti pensare che un anno e mezzo fa, cadendo dalle scale, s'è rotta entrambi i malleoli, restando allettata un mese e mezzo, ma già dopo quattro era in piedi e al termine del quinto guidava l'auto.

P.S. "Potare" e "coltivare" sono le due parole che mi fanno idealmente da bussola, in questo scorcio di stagione che è un avvio d’anno, anche se per come siamo abituati a contare i mesi ci siamo nel mezzo.
Sul “potare” dico nulla, pur se è la parte più difficile: d'istinto infatti vorrei trattenere, conservare, accumulare, poiché in potenza tutto potrebbe venir utile per un domani che poi - se devo essere onesto - novantanove volte su cento resta vano.
“Coltivare” è azione ugualmente impegnativa, ma che di fatica me ne costa meno, evocando qualcosa che sento nelle corde: il prendersi cura. In questo da mia madre ho preso moltissimo, anche se lei non è esente da limiti e proprio in questo so di poter fare meglio. E anche in ciò mi è da maestra, non facendomi mai sentire schiacciato, avendomi così aiutato a spiegare le ali, affinché nella vita mi librassi in volo libero, da solo.