sabato 30 agosto 2025

La terza verità (Eccedenza e dimenticanza)

Di me, se avrò la fortuna di diventare vecchio e di avere nipoti e di restare seduto quieto all’ombra dell’ampio faggio che troneggia dirimpetto casa, immagino codesta scena.
Un giorno, un pomeriggio, mentre sarò assorto in meditazioni tranquille, di quelle riguardanti il meteo o le pietanze da cucinare per cena o assaggiate a pranzo, sentirò suonare all’improvviso la pesante campana d’ottone accanto al cancello.
Per prima cosa sbufferò, che io - ursus spalaeus - mi indispettisco sempre quando si presenta qualcuno senza preavviso, mentre se avvertono in anticipo non soltanto mi indispettisco, ma pure impreco. Comunque sia, in entrambi i casi, sia una visita preannunciata o meno, i nuvoloni neri si diraderanno in un palpito, perché per educazione mi hanno insegnato a “far la bella faccia” quando si incontra qualcuno.
Con un sorriso ampio accoglierò dunque l’estraneo, che poi estraneo non lo sarà affatto, poiché si tratterà del figlio o della figlia già grande di uno dei miei figli.
In quel caso la contentezza sarà autentica e farò accomodare anch’egli o anch’ella sotto il faggio, e chiederò se desidera un tè, che sono già le quattro, oppure una tisana, una gazzosa, una fetta di torta o altro.
Vengo al punto. Dopo una mezz’ora di chiacchiere, nel momento in cui la discussione abbandonerà il faceto, lui o lei, così, a bruciapelo, se ne usciranno con una domanda apparentemente ingenua, del tipo: “Ma tu, dovessi scegliere una cosa, una soltanto, cos’è che lasceresti in eredità come idea, come concetto?”.
Io, lì per lì, fingendomi dubbioso, finanche sorpreso - mentre non lo sarei affatto, perché è da adesso, da anni prima che ci sto pensando - risponderei serafico: “Le auto sono come il mare: restituiscono le cose e te le fanno ritrovare, quando ormai pareva perso”.
Stupore.
Sì, lo so. Potevo trovare di meglio.
Però che le auto siano come il mare, cioè che in esse si ritrovi, anche a distanza di anni, ciò che pareva irrimediabilmente perduto, è un dato di fatto. Potrei sciorinare molti esempi, mi limiterò a due: un anello smarrito e cercato ovunque, invano, salvo comparire sotto il sedile, accanto al tappetino, un paio d’anni dopo; un documento letteralmente inghiottito nella vettura finché essa è stata venduta ed è ricomparso allorché il titolare della concessionaria che l’aveva acquistata aveva tolto i sedili per una pulizia radicale, svolta a fondo.
In ogni caso, pur essendo una verità quella delle auto che sono come il mare, si tratterebbe di una frase paravento, di quelle che si usano per schermirsi, evitando di dare eccessiva importanza a ciò che si pensa davvero, per non apparire tromboni o patetici, nel darsi tono.
Potendo liberamente confessare ciò che ho intuito da un pezzo e che vorrei lasciare in eredità, senza troppe spiegazioni, così come si lancia al cane un osso, affinché altri ci rimuginino sopra, a lungo, direi questo: “Dio è eccedenza e dimenticanza. Punto”.

P.S. L’ho tirata lunga, auspicando che chi passa di qui apprezzi pure l’affabulazione, la serietà di sguincio, come ornamento. Tuttavia, a parte le convinzioni autentiche sull’auto e su Dio, c’è altro di vero. Questo: quando sarò in là con gli anni vorrei che ogni giorno ci fosse un momento fisso di accoglienza, sotto il faggio oppure se piove o tira vento e fa freddo, in cucina o in un locale arredato con sedie, divani, un tavolo basso e libri tutt’attorno. “L’ora del tè” mi piacerebbe chiamarla, mutuandola dal finale de “Lo Hobbit”, allorché Bilbo dice al resto della compagnia: “Se qualcuno dovesse passare da casa Baggins, il tè è alle quattro. Ce n’è in abbondanza. Siete sempre i benvenuti”. Anche nel mio mondo, nonostante l’indole d’orso. Che la vita è bella così, se ti spiazza, se qualcuno o qualcosa ti fa di uscire dal guscio.
E anche questa è una verità. La terza, se non ho tenuto male il conto.


sabato 23 agosto 2025

Lo sguardo positivo (Fratelli e sorelle)

"La fai facile tu". "Non essere ingenuo". "Per te va sempre tutto bene".
Me lo sento ripetere spesso e no, non va sempre tutto bene.
Però è vero che mi infastidisce sentire certe frasi, espresse con pregiudizio e pressapochismo: "I giovani d'oggi...", "Ai miei tempi", "È sempre peggio".
No. Anche in questo caso.
Mi ribello al giudizio del "sempre peggio", lo considero un errore di valutazione, un difetto di prospettiva, non comprendere che è una ruota che gira.
So che qualcuno scuoterà la testa e non nego lacune, difetti, storture, contraddizioni nella generazione che si affaccia sul mondo, ma nel complesso né più né meno dei ragazzi e delle ragazze d'ogni epoca.
Un'ostinazione, la mia, per la quale tengo la barra dritta, pure controcorrente, sapendo benissimo che in una società sempre più anziana, qual è la nostra, i giovani sono minoranza.
Se lo faccio è perché credo profondamente in loro, nelle qualità che possiedono: basta saperli osservare con benevolenza, che di occhi così c’è un gran bisogno.
"Io mi sono educato negli anni a guardare il mondo con sguardo positivo" ha dichiarato in un'intervista uno dei miei punti di riferimento ideali, Luigino Bruni. A quella positività cerco di educarmi ogni giorno anch'io.

P.S. Sui giovani sono di parte, lo ammetto, avendone quattro che mi fanno da pilastro e, circondandosi a loro volta di amici, moltiplicano le occasione che ho di confronto, apprendimento, crescita. Grazie ad essi imparo anche il valore della differenza, della peculiarità di ogni essere umano, che pur essendo partorito dagli stessi lombi e cresciuto grossomodo in un'identica maniera, sviluppa un'originalità ch'è come impronta digitale: unica. Chi ha la fortuna di avere fratelli o sorelle sperimenta sulla propria pelle questa distinzione, sottile e insieme profonda, di peso. 

sabato 16 agosto 2025

Il tavolone (Rinnovare il senso)

Sono state vacanze più complicate del previsto, un po’ perché si diventa vecchi e resistenti al cambiamento, un po’ perché nulla è dato una volta per tutte: occorre rinnovare continuamente il carisma, attingendo alla profondità del senso originario.
Il nostro, come famiglia, potrei riassumerlo in questo: la bellezza di stare insieme, anche con poco, e la disponibilità all’apertura, ad essere accoglienti, nonostante tutto.
Soltanto così, con questo spirito, quella “insieme” è una vacanza memorabile, di quelle che hai voglia di farne un’altra, il giorno dopo.
Premesso ciò, la ciambella è uscita col buco anche quest’anno, nel senso che al tirare delle somme è stato bello, permettendomi di conoscere meglio chi per parentela mi è vicino, ma non frequento con assiduità, vedendoci una volta a settimana, un paio d’ore, se va liscio.

P.S. La “regola di Capovalle” potremmo chiamarla, quella scritta sopra in neretto, perché trae spunto dalle decine di volte che abbiamo trascorso lì, sopra il lago d’Idro, il mezzo d’agosto. Lo chalet fatto costruire dal signor Bruno aveva tre stanze con due posti letto ciascuna, un cucinino, un locale d’entrata con camino e un bagnetto munito di doccia, che tra un lavaggio e l’altro dovevi aspettare mezz’ora per non farla al freddo. Per mangiare s’apparecchiava fuori, all’aperto, a seconda di dove picchiava il sole, per scansarlo. Non si stava una settimana ma quanti giorni capitava, a seconda dell’anno, dandosi il cambio con l’altra metà dei Noseda, quando arrivavano, e invitando amici o altri parenti a passare, per bere qualcosa o fermarsi una notte, “che tanto Fulvio dorme sul divano”.
Il casale in Toscana, quest’anno, era un incanto, di bagni ne aveva una mezza dozzina, i locali numerosi e le mura ampie, che riparavano dal caldo, in più una piscina gigante, come quelle comunali: lamentarsi sarebbe stato proprio peccato d’irriconoscenza, giusto ammetterlo. Il momento più bello (e anche profondo, di spessore) è rimasto quello conviviale, della cena o del pranzo, quando eravamo tutti attorno a un tavolone e c’era una gran caciara, e chiacchiere, risate, ottimo cibo e vino buono: come un film di Ozpetek o qualche scena di Sorrentino. So che un giorno rimpiangeremo tutto questo, per il momento ce lo siamo goduti e non è poco.

Post post scriptum: ringraziare qualcuno sarebbe fuori luogo, perché dovrei citare come minimo Angelo, che ha pagato la location; Giulia che si è sbattuta più di tutti per trovare un posto magnifico; Filippo e Fulvio e Kadir, ottimi dispensieri e cuochi d’un certo livello; Manu e Isabella, per l’ordine e il decoro; Michela e Matteo per quel loro modo di stare “dentro” la vacanza, creando legami pur quando restano in silenzio, con in più le star di quest’anno, Vittoria; Roberta, per aver accettato di far parte di questo lato di famiglia, facendo da tramite anche con la sua; Giorgia e Giovanni, perché ci tengono proprio a che siamo famiglia e non soltanto compagni di viaggio. Allora nomino coloro che quest’anno sono passati a trovarci, destabilizzando la nostra protervia quiete e regalandoci occasioni di crescita, come riesce soltanto al “pellegrino” che bussa alla porta, domandando nient’altro che compagnia e ristoro: Giacomo, Annachiara, Matteo, Silvia, Cristian, Bea ed Alberto. Tutt’insieme, un mondo.

venerdì 15 agosto 2025

Tu sii (Fuori dagli schemi)

 
Ho scritto in questi giorni guardando all’indietro, confrontandomi idealmente con chi mi ha preceduto.
Ora mi rivolgo a te, che sei viva e presente, in ogni senso.
Tu, intesa non soltanto come nome proprio che porti e che mi somiglia, bensì alla donna che sei e che siete, tutte, come genere e pure in quanto parte femminile di ciascuno ch’è in noi, maschi inclusi.
La prendo a curva larga, per spiegarmi meglio.
Comincio da un celebre ciclo di lezioni di Baricco, le Palladium Lectures, con l’esempio che portava citando l’arte lirica della Tebaldi, soprano eccelso di metà Novecento, che venne però scalzata dalla Callas, la quale seppe rompere gli schemi, cambiare registro.
Baricco cita anche la bellezza di Kate Moss e la tecnica di Dick Fosbury, quello del salto in alto di schiena, che rivoluzionò l’atletica, introducendo un cambio di paradigma, un ribaltamento del nuovo sul vecchio.
Di mio, dal basso di quel che so, aggiungo il Pascoli. Non quello delle poesie più celebri, l’erede del Carducci e dei suoi versi solenni, bensì quello della sperimentazione, in grado di disintegrare “la forma tradizionale del linguaggio” e sperimentare una poesia immaginifica, fatta di frasi brevi, musicali e suggestive.
Tutto questo per dirti che in un tempo omologato e convenzionale qual è il nostro, appiattito dalle bolle dei social, essere originali senza sentirsi fuori posto è il vero lusso. E combattere la povertà - compresa la peggiore, cioè quella di chi possiede soltanto denaro - può essere una buona missione per dare alla tua vita spessore e senso.
In un mondo di Tebaldi e Carducci, tu sii Callas e Pascoli, senza tentennamento.

P.S. A prescindere da ciò che sceglierai o da quanto il destino deciderà per te, armati non di spada né frecce, semmai di scudo. Che proteggersi e voler bene a se stessi è il primo dovere di chi ha a cuore il bene dell’altro. Un conto infatti è l’espressione sincera, onesta, della propria personalità, considerando la diversità un valore profondo e la tolleranza il collante di tutto, un altro la condanna che ci autoimponiamo affinché tutti vadano d’accordo. Che “accondiscendere” fa già parte del tuo armamentario, un anestetico naturale al conflitto che invece accompagna gli esseri umani quanto un marchio e che di recente - come abbiamo insieme letto - cerchiamo di rimuovere ad ogni costo, sostituendo alla naturalezza dei rapporti un contesto sterile, igienizzato, immune da tutto. Ma “immune” è anche assenza di “munus”, di dono. Ed un mondo povero è proprio quello nel quale, a furia di scartare il negativo, si finisce per stare peggio.



 

giovedì 14 agosto 2025

I due estremi (La fonte della varietà)

Desideravo farti un riassunto, ma mi è difficile compilare un elenco, preferisco correre sul filo dei pensieri, lasciando spazio a quelli che affiorano, come la panna sul latte quando il latte era ancora quello preso dalla stalla, non al supermercato.
“Deludere” è verbo che mi fa sempre da monito, da quando ero bimbo e mi lasciavate a balia e dovevo meritarmi l’accoglienza di chi mi ospitava, “facendo il bravo”, dimostrandomi già “un ometto”.
Nessuno dovrebbe esserlo presto, tutti meriteremmo il diritto di fare i capricci ed essere accettati lo stesso.
Imputo nulla a te, né alla mamma: avete fatto assai più di quanto dovuto e a vostra volta ricevuto.
Penso piuttosto a chi sta attorno, a una comunità che dovrebbe essere a misura di bambino e invece - proprio poiché “misura” tutto - dà poco o troppo, a seconda del caso. Così da un lato troviamo nugoli di adulti adoranti un unico pargolo, che cresce come sotto una campana di vetro, protetto da tutto ed incapace di avere uno spazio proprio; dall’altro risultiamo insofferenti ad ogni disturbo provocato dai figli altrui, dal chiasso alle scompostezze, dal disordine ai capricci in ordine sparso.

P.S. Il mondo adulto/bambini era assai più distinto una generazione fa, anche se diffido dei resoconti edulcorati della nostra memoria e mi guardo bene dal giudicare quel tempo, rispetto ad oggi, meglio. Certo il numero faceva la differenza ed era possibile anche tra piccoli creare una propria comunità, sviluppare un’autonomia, mettere alla prova quel valore tanto difeso a parole quanto mortificato nei fatti ch’è la libertà. La libertà non esiste di per sé nel consorzio civile che da millenni abbiamo creato: al massimo si concede. Proprio per questo è essenziale imparare ad esercitarla, mettersi alla prova, assumersene il rischio. Soffocarne la pratica, al contrario, non solo impedisce lo sviluppo di chi cresce, impoverisce altresì l’intera società, prosciugando la fonte della varietà, cioè dell’equivalente dei colori per il disegno d’un quadro.

mercoledì 13 agosto 2025

Benedetto difetto (La sapienza del contatto)

Accettare i tuoi difetti, non giudicarti in base a quelli, saper andare oltre e vedere altro, comprendere come il bene provato possa mettere in secondo piano tutto il resto. 
È così che sono diventato indulgente, pure nei confronti di me stesso, considerando l’errore una parte del cammino e ciò che giudichiamo negativo una componente essenziale dell’impasto che ci dà forma e sostanza.
Ho letto di recente che uno dei rischi del nostro tempo è la tentazione di rimuovere gli aspetti che sono accessori o addirittura di ostacolo al “funzionare”, all’essere perfettamente integrati nella società, al proprio posto del mondo. Mi pare una lettura in cui c’è del vero.
Debolezze, limiti, mancanze, grettezze, inciampi. Non solo ne vorremmo essere esenti: ci sentiamo in colpa quando ci sono. In noi stessi e di riflesso negli altri (pur se con gli altri spesso siamo più severi nel giudizio: la famosa pagliuzza altrui in paragone alla trave nell’occhio proprio). Un rigore che sfocia in sentimenti che turbano: ansia, soprattutto, ma pure senso di inadeguatezza, frustrazione, senso di colpa, mancanza di coraggio, tentazione di chiudersi, creando una barriera con tutto il resto.

P.S. Te l’ho scritto per aggiornarti in qualche modo di alcuni mali del nostro tempo. C’è dell’altro, in positivo, anche se il positivo facciamo più fatica a vederlo. Penso al piacere della compagnia, della socialità. Neppure in questo parte dell’emisfero s’è persa. Così come il piacere delle esperienze o il gusto della curiosità, del cercare qualcosa di nuovo, non limitandosi a rimpiangere il passato. E poi la consapevolezza della natura come ambiente che ci ospita e va rispettato, nonostante cerchiamo sempre di piegarlo al nostro servizio. Meno comunque di quando c’eri tu, pur se riconosco che la tua generazione è stata un crinale, essendo quella con un potere limitato e che poteva permettersi di non amministrarlo con giudizio. Una coscienza che invece ora abbiamo, mentre manca - almeno a me - quella sapienza di chi a contatto con la natura è cresciuto e si ritiene parte di essa non soltanto intellettualmente, bensì nella carne, nel profondo. 

martedì 12 agosto 2025

Il peso del non detto (Un dilemma non banale)

Dire o non dire ciò che si pensa, in particolare quanto stride, divide, separa? Ci rifletto spesso e ho idea vaga delle scelte che avresti fatto tu, che per certi aspetti eri schietto, in altre situazioni preferivi il silenzio, anche se alla lunga erano parole castrate, che avvelenavano, e capitava infine che uscissero ugualmente, portando con sé il carico esplosivo del represso.
Se dovessi dunque cavare una regola generale di comportamento, scriverei questa: meglio dire.
Oppure non dire, ma soltanto se si è capaci di dimenticare. Scordare davvero, non per finta: cancellare proprio e andare avanti come nulla fosse successo. Un esercizio meritevole quanto arduo, anche perché come specie siamo allevati coltivando memoria, non disperdendola quasi fosse fumo.

P.S. La differenza la fa sempre il modo. Anche nel dire. Si può farlo sbraitando, sbattendo in faccia come guanto di sfida il proprio astio o sibilando parole taglienti più d’un rasoio o, al contrario, con mitezza, con garbo, cercando di mettersi anche nei panni dell’altro. Questo non me lo hai insegnato tu, che appartenevi a una generazione ancora fieramente radicata nel primitivo, capace di dispute epocali, che avevano una loro fisicità persino. Una feralità, una ferinità che sento ancora mia, ma che tengo a bada, assicurandola al guinzaglio e permettendole di uscire soltanto in occasioni rade, quasi sempre quando ho consapevolezza di sedermi dalla parte del torto. Perciò la associo alla debolezza: chi è forte, chi si sente nel giusto, non si scompone. La prossima volta che alzerò la voce cercherò di ricordarlo.