Venti righe. Indro Montanelli sosteneva che in venti righe si può raccontare tutto. Bastano tre parole invece per spiegare le ragioni di questo blog: comunicare, in libertà. Per il resto, vale per me ciò che scrisse Jorge Luis Borges, "I miei limiti personali e la mia curiosità lasciano qui la loro testimonianza".
lunedì 18 aprile 2011
Il sacrificio di Roberto e gli occhi del cieco
Ce l'ho qui da dire, tra gola e lingua, da sabato mattina, ma ogni volta ho deglutito insieme con la saliva pure la buona volontà e il pensiero. Ora però guardo il computer, lo schermo luminoso che contrasta con il buio tutt'attorno, e mi pare di non avere più scuse per tacerlo, se non quella dell'essere pavido, di non ammettere ciò che durante i funerali di Roberto ho sentito, cioè che si sia chiuso un tempo, che la mia generazione si sia ritrovata adulta, vecchia persino, nonostante ciascuno di noi dentro immagini di essere e si senta un ragazzino. Era come vivere una poesia di Giorgio Caproni: "Con voi sono stato lieto / dalla partenza, e molto / vi sono grato, credetemi, / per l’ottima compagnia".
Quella chiesa strapiena, quei volti familiari e sconosciuti insieme, di tanti amici con cui sono cresciuto - magari io un filo più grande ma tutto sommato dell'età loro - e che ora si ritrovano per caso, tutti un po' diversi, con parecchi capelli in meno e molte segni in più sul viso, qualcuno d'occhi stanchi, altri - molti - cresciuti in pancia e peso, ma con una scintilla di ciò che erano che tuttora conservano, accanto alle loro compagne o ai figli o agli amici, anche chi è solo e la sera, a casa, non lo attende nessuno, se non un genitore ormai anziano, che continua a preparargli da mangiare e rifare la mattina il letto. Qualcuno, come Flavio, come ora Roberto, se n'è andato, strappato alla vita giovane, con l'unica consolazione che rimarranno per sempre ragazzi, che il tempo non potrà scalfire ciò che non ha più sottomano. Gli altri, tutti gli altri, erano lì, seri, qualcuno con le lacrime agli occhi, qualcun altro con lo sguardo fisso. "Sono i miei amici" ho pensato. Anche se non li vedo più o, quando capita, non è mai per più di una chiacchiera, una battuta al volo. Eppure ho condiviso con loro un tempo che pareva infinito e, se lo guardo adesso, senza fine lo è davvero. Marco, Paolo, Giannino, Drino e tutti gli altri, che non sto a nominare uno a uno, perché occorrerebbe l'elenco del telefono. Sono distanti ormai, ma sabato li sentivo legati da un unico filo, e quando ci siamo ritrovati al cimitero, una folla immensa, un paese intero, mi è sembrato che divisioni, pareri diversi, scelte di vita, fossero accessorio minimale di fronte a un'appartenenza che mi pareva forte ed evidente, quanto il cielo sopra la testa e la ghiaia sotto i piedi, tra un loculo e l'altro. Da dov'ero non sentivo le preghiere del prete, non udivo alcuna parola, solo silenzio, e vedevo centinaia di persone, chi ha opinioni simili e chi diverse dalle mie, compresi gli assessori, il sindaco e altra gente che cammina su sentieri opposti al mio. Eppure con essi, con tutti, in quel momento mi sentivo un tutt'uno, parte di una comunità, e mi parevano così sciocchi e banali i miei distinguo, i punti e le virgole che metto, tralasciando il senso e il nocciolo del discorso, cioè che siamo sulla stessa barca, in qualche modo fratelli e che occorreva il sacrificio di uno di noi per aprire gli occhi a un cieco.
Foto by Leonora
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