domenica 22 aprile 2012

Il peso (lieve) dei giorni


Foto by www.lyonora.it
I giorni si contano, ma i giorni anche si pesano.
Ci ho pensato stamattina, mettendo sulla bilancia i miei quarantasei anni con gli ottant'otto dello zio Emilio, il fratello di mia nonna materna. Io, rispetto a lui, nel numero sono a mezza strada, però in fatto di qualità il distacco è molto meno ampio.
Mettiamoli sulla bilancia, allora, questi benedetti anni, mesi, giorni.
Io fino a ventisette anni ho studiato, fatto il militare (venti mesi di servizio civile, per essere preciso), collaborato come giornalista portando a casa soldi, pur se non un vero stipendio, fatto vacanze di gruppo (quelle dell'oratorio, senza nessun Daccò che mi pagava yacht privati e resort di lusso, ma pur sempre giorni spensierati e di svago quasi assoluto), fatto l'animatore, goduto di tantissimo tempo libero, passato generalmente in tre modi: in compagnia degli amici, guardando la tv, leggendo libri.
Mio zio Emilio a dieci anni, l'età attuale di Giovanni, il mio terzo figlio, è andato a lavorare come garzone dal fabbro del paese, dieci ore al giorni, fiacche e calle sulle mani, caldo d'estate e gelo d'inverno, senza prendere un centesimo, perché dovevi già dire grazie che ti tenevano lì, imparando un mestiere a calci in quel posto. A quattordici è entrato in vetreria, sempre dieci ore anche se pagato, al reparto officina, ragazzo di bottega con pochissimi diritti e un dovere solo: stare zitto e lavorare sodo. A diciott'anni è stato arruolato e una settimana dopo il giuramento caricato su un treno che lo ha portato in Germania, in un campo di lavoro, che nel caso specifico non l'ha fatto libero, bensì quasi ammazzato. Lo hanno salvato delle patate crude che in spregio al pericolo aveva nascosto sotto terra e d'inverno, quando da due giorni non metteva nulla sotto i denti, con le dita senza unghie ha disotterrato e divorato poco per volta, quasi fosse un banchetto fastoso. Al ritorno a casa ancora lavoro, quarant'anni di settimane tutte uguali, una dopo l'altra, con unici vizi il sabato e la domenica pomeriggia in cooperativa, per giocare a carte, e due settimane di vacanze al mare, in pensione, ma mica sempre, cinque o sei anni in tutto. Poi l'infarto, la paura di morire, il lento ed inesorabile ritirarsi nel proprio mondo privato, dove l'orizzonte è quello dei propri acciacchi e non importa nulla o poco di tutto il resto. Quanto a me, dopo gli studi ho trovato lavori di gran soddisfazione, le vacanze fatte regolarmente, gli svaghi e gli amici in abbondanza, con i pensieri sì, ma pure la possibilità di affrontarli scegliendo la mia strada, il mio mondo.
Siamo figli di generazione fortunata, nati senza conoscere alcuno stento e con l'ambizione di potere fare tutto. Vorrei che i miei figli possano dire lo stesso, fra trenta, quarant'anni, ma non ne sono così certo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Io appartengo a quella vecchia generazione... al lavoro a 14 anni a bottega presso un'artigiano elettrico, senza calci ma con fatica.. ora a pensarci bene quei tempi ti davano la possibilità di scelta del tuo destino fatto di studi o di lavoro, e adesso? forse si rimpiangono quei tempi!