martedì 15 febbraio 2011

Luciano Caramel e l'arte vissuta (anche in tinello)

Più che lui, ricordo la scala. Il corrimano scolpito da Angelo Tenchio. Deve avermi fatto lo stesso effetto allora, poiché lo scrissi in principio d'articolo. Del resto, a parte ciò che trovate qui sotto, Luciano Caramel lo ricordo piacevole ma che non metteva l'interlocutore a proprio agio, nonostante non mancasse nulla nella forma, era la sostanza che creava distanza, da parte sua forse riparo. O forse ero io a sentirmi così inferiore al suo cospetto, da immaginare una distanza che poi è diventata di fatto. L'arte mi ha sempre messo a disagio, forse perché sono stato educato a usare poco gli occhi e il cuore e troppo il cervello. Mi affascina più ora di quand'ero ragazzo e non è mai stata nelle mie corde, nonostante credo che l'abitudine all'osservazione abbia concesso in dote un certo gusto. Ma è il gusto di chi commina sui gusci d'uovo, circospetto e incerto su tutto.

Affermare che la sua dimora somiglia ad un museo non è banale, è falso. Nelle stanze in cui abita, l’arte non è esposta, è vissuta. Niente di confezionato, nulla di patinato.
Opere in anticamera, nel corridoio, in ogni angolo. Non per modo di dire. Lo spigolo del muro che separa l’entrata dalle scale è ricoperto da una scultura di Tenchio. E in un anfratto stretto, nei pochi centimetri concessi da un armadio, appoggiata al pavimento, si intravede una cornice. “C’è un Fontana” ci spiega con la stessa noncuranza con cui direbbe “è il gatto”.
Luciano Caramel, storico d’arte, sessanta tre anni, occhi limpidi, chiama “cose” e “robe” ciò che per i comuni mortali sono meraviglie. Sironi, Rho, Reggiani, Radice, Veronesi, Salvatore e molti altri gli fanno compagnia.
Chi se lo immagina lacerato dal dubbio, alle prese con lo studio della collocazione ottimale di tanto ben di Dio, si disilluda presto. “Ho scelto dei criteri particolari – chiosa divertito – questo quadro mi pareva giusto metterlo in cucina”. Una qualsiasi casalinga non avrebbe fatto meglio. Sulla tela sono dipinti dei limoni.
Luciano Caramel per l’arte a Como è più che un punto di riferimento. E’ un’istituzione. E di essa detiene il prestigio, senza però cadere nella supponenza. Caramel non siede su un piedistallo. E se così fosse ne scenderebbe da solo, con l’umorismo furbo che usa anche nei confronti di se stesso.
“Il primo articolo che scrissi per il giornale di Montanelli me lo restituì lui stesso, tutto segnato di rosso e di blu. “E’ impubblicabile - mi disse - parla non per i tuoi compari ma ai lettori. Aveva ragione. Molti miei colleghi invece si ritirano ancora nelle torri”.
Ascoltarlo è un po’ come risalire le rampe e le balze che portano alla sua casa sul lago. Bello e faticoso.
Faticoso a causa della nostra poca dimestichezza con gli argomenti trattati. Bello perché quando parla incanta. Le parole escono da lui senza inciampo, quasi fossero musica.
“Sono un chiacchierone - ammette candidamente - quando ero più giovane mi proponevo di essere più controllato. Giunto alla mia età ho capito che non è più il caso di insistere”.
Luciano Caramel è docente di storia dell’arte contemporanea alla facoltà di lettere dell’Università Cattolica. “Mi sento un privilegiato perché ho un lavoro che mi piace e che mi fa sentire me stesso. Ogni anno ho circa settecento alunni. Un tempo riuscivo a seguirli tutti. Ora mi dedico abbastanza ai laureandi, di più a chi si sta specializzando e moltissimo a coloro che effettuano il dottorato di ricerca e che hanno la possibilità di diventare assistenti e poi, a loro volta, professori. Io sono zitello e questa è un po’ la mia paternità”.
Si reputa un buon professore?
“Credo di riuscire abbastanza bene ad insegnare, perché ho capito che l’insegnante deve essere un po’ attore. Mi aiuta l’essere ancora molto immaturo e quasi infantile”.
Cosa pensa dell’università a Como?
“ Ho dei timori pregiudiziali. Innanzi tutto manca una biblioteca, che è indispensabile e si forma non con gli anni, bensì attraverso i decenni. Poi molti professori insegnano anche altrove, per cui non possono dedicarvisi a tempo pieno. Infine, se avessi un figlio, non mi piacerebbe che facesse l’asilo, le elementari, le medie, le superiori e anche l’università sempre nella stessa città. Non mi pare produttivo per la formazione umana. Il fatto di andare a Milano, di uscire dal proprio guscio, aiuta a crescere. Restare in una città circoscritta com’è Como può essere rassicurante, ma poco utile. Sicuramente non lo è per la produzione scientifica. Ed è pericoloso anche per gli artisti”.
Che sensibilità artistica hanno i comaschi?
“Ho sempre creduto che la grande fama che ha Como nel mondo sia basata su personaggi isolati, che mai hanno avuto rapporti con il contesto del territorio. Terragni, ad esempio. O il Sant’Elia stesso, cosa c’entra con Como? Ha fatto la Castellini, ma poi se n’è andato a Milano, dove ha trovato un ambito che gli ha permesso di essere se stesso. La verità è che non c’è mai stato un ambiente favorevole all’arte. Prendiamo le collezioni. Ora ce n’è qualcuna, ma che diversità da altre città pur a noi vicine”.
Cosa è possibile fare?
“Bisogna distinguere due ambiti. Il primo è quello dell’arte connessa alla vivacità culturale della città. Como ha tradito la sua vocazione turistica. La classe dominante l’ha ritenuta la sua cuccia e ha limitato tutto ciò che potesse creare disturbo. Oggi qualcosa comincia a muoversi, ma siamo ancora ad un grado molto basso. I fondi di bilancio degli enti locali per le manifestazioni artistiche sono ridicoli e tra i privati c’è una grande insensibilità, unita ad una grande ignoranza. Trovare dei soldi per organizzare mostre, manifestazioni, iniziative, è quasi impossibile. L’altro livello riguarda la formazione e l’educazione artistica. Como per essere viva ha bisogno di una biblioteca e di una pinacoteca degne di questo nome. La prima invece è in enorme difficoltà, la seconda è ancora tutta da inventare. Quella attuale continua a essere un museo jugoslavo, vuoto e desolante. Un museo oggi deve essere un laboratorio di informazioni, di cultura. Dovrebbe avere anche un bar, un ristorante, anche se è difficile immaginarlo adesso, con l’utenza media delle tre, quattro persone”.
Come mai l’arte è ritenuta un ambito accessibile a pochi?
“L’arte è per sua natura di elìte. Lo sforzo deve essere quello di rendere questa elìte sempre più vasta. Stando attenti, però, a non correre il pericolo di confondere la creatività con l’artisticità. Anche il mio gatto crea balletti, evoluzioni, ma non è un artista. L’arte presuppone una formazione, un’intenzionalità. Non può essere solo uno sfogo della creatività, ma deve diventare fatto di cultura. Troppi, invece, credono che l’arte visiva sia alla portata di tutti. Non accade con la parola. Il mio portinaio di Via Carcano scriveva dei biglietti per darmi delle notizie, ma non ha mai pensato di esser poeta o scrittore. Quando ha smesso di andare a pescare e ha cominciato a fare dei quadretti del lago, s’è ritenuto artista”.
L’eloquenza di Luciano Caramel è un fiume in piena in cui si finisce per affogare. Se pochi minuti bastassero per conoscere una vita, giureremmo che egli non sappia cosa sia il silenzio. Non solo accetta di rispondere alle nostre domande. Se ne suggerisce persino qualcuna da solo.
“Una domanda che non mi avete fatto è perché mi interesso d’arte. Eravamo sei fratelli e i nostri genitori, professori di lettere, ci portavano sempre a visitare chiese e musei. Gli altri miei fratelli non ne hanno più voluto sapere. Io ci ho preso gusto”.

Giorgio Bardaglio

1 commento:

carlo ferrario ha detto...

I miei auguri a Luciano per il suo compleanno (0 vissuti bene con l'arte)