L'ho in mente ancora così, con quei capelli biondo rossi a caschetto, l'accento brasiliano e il sorriso indossato spesso, tranne le volte in cui le schiacciavano la coda senza sospettare quanto può essere spigolosa un'anima tonda con un cervello nel mezzo.
È stata lei tre mesi fa a contattarmi, per dire che aveva avuto l'idea di tradurre in un libro fotografico i molteplici sentimenti suscitati dalla prima ondata di virus, quando tutti eravamo impreparati a sostenerne l'urto (non è che ora lo siamo, nonostante l'esperienza passata, ma questo è un altro discorso).
Mi è stata chiesta l'introduzione al capitolo "People", alla terza insistenza le ho risposto che andava bene, ignorando chi fosse l'editore committente, senza pretendere un soldo né conoscere altro, limitandomi al piacere ricambiato della fiducia assegnata d'istinto.
Il volume è uscito ("Suspended Freedom", Lombardia Foto Book), ha un profumo che sa di buono e più che da leggere è da sfogliare, ammirando le molte fotografie incastonate nel bianco.
Ci sono pure le mie venti righe, ispirate a suo tempo e che a pagina diciannove hanno trovato aria, spazio.
Le riporto qui, essendo questa essenzialmente una stanza di casa loro.
Gli occhi non mentono e sono gli occhi quel che resta del giorno, ciò che più limpido rimane di un tempo “a volto coperto” che confidiamo appartenga soltanto al passato e che fatichiamo a raccontare, immersi tuttora nell'onda di piena montata all'improvviso e che ha cambiato l’esistenza di sempre, di come la conoscevamo.
È storia, non cronaca, quella che consegniamo agli archivi, alle pagine dei libri, come questo.
Ma è una storia muta, poiché le parole incespicano, tartagliano, non vanno dritte al punto, non riescono a spiegare l’essenza di quanto vissuto: il dolore, l’incertezza, il timore, l’angoscia, lo sgomento.
Per farlo, per lasciare traccia a chi verrà dopo di noi, per evitare che l’unica testimonianza sia quella di un resoconto ricco di dettagli ma di sentimenti povero, servono le immagini.
Le fotografie. Gli scatti dei volti, in particolare. E, dei volti, gli occhi soprattutto, che custodiscono non l’ultima immagine di chi era in vita, come per centinaia di anni si è creduto, bensì quanto ha provato, cosa stava provando, chi è sopravvissuto.
Guardarle, osservarle bene, altro sforzo non è richiesto, se non quello di aprire i nostri, di occhi, con un suggerimento: chiuderli subito dopo. Fissare l’immagine che troviamo di fronte e per un istante serrare le palpebre, lasciare penetrare quello sguardo nel nostro, sentire sotto pelle, prima ancora di immaginare, le mille emozioni tutte diverse, tutte uniche, che quelle persone in prima linea hanno sperimentato.
“People”. Gente, persone, anche popolo. Così ha per titolo questo capitolo, che forse più degli altri fa comprendere il significato di un periodo che ciascuno di noi ha vissuto in maniera differente, ma nel contempo pure esperienza di insieme, di comunità, di popolo appunto.
Un grazie sincero allora agli autori e ai soggetti di queste foto, di chi ha saputo cogliere e di chi si è fatto cogliere, di chi ha messo gli occhi davanti e dietro l’obiettivo, permettendo a noi di conservare memoria di un evento storico, dando forma e contenuto a parole quali virus, pandemia, malattia, morte, contagio, che abbiamo sentito ripetere migliaia, milioni di volte, e proprio per questo faticano a mantenere la forza d’urto, l’impatto, mentre le immagini colgono nel segno, come una carezza e al tempo stesso un pugno nello stomaco.
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