lunedì 12 ottobre 2020

Undicesimo (Non invidiare)

Il fatto di cronaca è passato di moda, acqua sotto i ponti, eterna girandola di un sapere senza memoria.
Non per me, non questa volta, che mi ostino a ricordare il titolo dell'articolo in cui l'autore del duplice omicidio di Lecce, a fine settembre, avrebbe confessato uno dei moventi della sua furia: "Li odiavo, erano troppo felici".
L'invidia. La "tristezza per il bene altrui percepito come male proprio". Una debolezza che più delle altre mi spaventa, un po' perché rifugge la luce e pugnala alle spalle, in maniera vigliacca, un po' poiché dei sette vizi capitali è l'unico che nemmeno mi sfiora, per cui mi sento impreparato a riconoscerlo e, non riconoscendolo, a pormi in difesa.
Tentando però di non cedere alla paura, faccio uno sforzo per ignorarlo, evitando di snaturare la mia natura, bensì assecondandola e provando tristezza a mia volta per coloro che ne sono corrosi, logorati nel cuore da quella fiamma, non riuscendo a godere nulla, dovendo convivere con il loro demone ventiquattro ore ogni giornata.
Non ho invidia degli invidiosi, insomma.
L'unica cosa che mi sento di appuntare loro è l'assenza di obiettività: se sapessero mettersi nei panni altrui, infatti, scoprirebbero che la felicità piena non esiste, che ciascuno ha la sua pena e che provare invidia è un farsi del male da sé, non godendo la propria vita soltanto per il torto di immaginare migliore l'altra.

P.S. L'unico invidioso che mi viene in mente, che ho riconosciuto, la tipica eccezione a conferma della regola, è un collega di tempi lontani, il quale tuttavia lo era in maniera puerile, evidente, quasi farsesca, tanto da diventare esso stesso macchietta. Avendone perse le tracce non ne ho più l'occasione, ma se potessi tornare indietro glielo direi, gli farei presente che la sua invidia è proprio un "peccato", nel senso che dispiace come le molte piccolezze offuschino la grandezza del professionista che stimavo, che era e che forse da qualche parte è, tuttora.



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