Timido e riservato nei rapporti umani, amava confrontarsi con l'immensità dell'arte che aveva dentro. Incontrammo Francesco Somaini il 29 gennaio del 1998, in una giornata tersa e gelida. Ricordiamo le sue mani, bianche come il marmo che scolpiva, e lo sguardo da miope, che tuttavia non perdeva un dettaglio di ciò che lo circondava. Lo apprezziamo più adesso del momento in cui l'incontrammo: il vino necessita di tempo, di decantazione, per diventare buono.
Come acqua di fonte. Gli occhi chiari. La naturalezza con cui spiega le cose. La limpidezza dei pensieri. Francesco Somaini, scultore, è come acqua di fonte.
Per descrivere e commentarne vita e opere i critici hanno scritto pagine su pagine. Arduo è aggiungere qualcosa al molto che è già stato detto, inventandoci per di più competenze che non abbiamo. Del resto, neppure lui pare abbia interesse a parlarsi addosso.
Pur avvezzo ad usare la parola, Somaini le preferisce il gesto. Il primato delle mani sulla voce si manifesta anche al momento delle presentazioni. Dopo lo scambio di saluti e nomi, lo scultore non ci dice chi è, ma ci mostra dove lavora e cosa fa. Quasi che il luogo del modellare e dello scolpire fosse chiamato a dare testimonianza dell’essenza piena e vera dell’autore. Il suo è un biglietto da visita che misura svariati metri quadri ed è composto da pietre, disegni, bozzetti, argani, ponteggi, paranchi, pompe, utensili. Il laboratorio non somiglia ad una vecchia bottega. Ricorda piuttosto una piccola azienda. Non è un caso. Francesco Somaini è un artista, ma soprattutto un professionista dell’arte. La differenza sta nel fatto che il primo con l’arte è in amore, il secondo con essa lavora e riesce pure a campare.
Essere professionista è per Somaini una necessità ("chi fa grandi sculture non può creare un’opera di quindici tonnellate e sperare di venderla. Bisogna esserne certi. Per farlo occorre predisporre preventivi, pianificare costi e ricavi, stipulare contratti, stabilire prefinanziamenti") e anche una virtù. Lo scultore discende da una famiglia di imprenditori e le origini di una persona significano sempre qualcosa. Il sole può cambiare il colore delle fronde, ma l’albero non dimentica la terra in cui affonda le radici.
"Mio padre possedeva un cotonificio e osteggiava la vocazione che avevo. Non giudicava l’arte una cosa seria. Per accontentare la famiglia frequentai il Liceo Classico a Como e mi laureai in giurisprudenza a Pavia, facendo nel contempo l’accademia di Brera. Realizzai le prime opere. Nel 1959 vinsi il Primo Premio Internazionale alla V Biennale di San Paolo del Brasile. Un riconoscimento inatteso, poiché vinto in precedenza solo da grandissimi, come Giorgio Morandi, mentre io ero il più giovane dei giovani in una delegazione che contava fior di maestri, come Burri, Consagra, Fontana, Minghuzzi, Pomodoro. Cambiò la mia vita. Feci mostre a New York, esposi nei maggiori musei americani e aggiunsi anche uno zero al valore delle mie opere. Ebbene, quando raccontai a mio padre del premio, mi rispose: “che gran venditore. Dai, vieni in ditta”.
Quando comprese di avere del talento?
"Da bambino. Avevo otto o nove anni e mio nonno mi portò in visita al museo Vela. Il custode ci mostrò una piccola acquasantiera con scolpita una testa di angioletto. Posso farla anch’io, pensai. E così feci".
Qualcuno oggi comincia dai muri o dai treni.
"Un gesto pseudo artistico, che è solo danneggiamento. Ogni volta guardo i dipinti sui treni con la speranza di vederne uno bello. Non mi è mai capitato. Sono volgari ripetizioni dei grafitisti americani di venticinque anni fa. Non c’è inventiva. L’arte non ha nulla a che spartire con il vandalismo che non rispetta persone e luoghi".
Ci stupiscono alcune immagini realizzate dal figlio Cesare (che fotografo d’arte è per mestiere, mentre la figlia Luisa insegna a Brera). Il padre è immortalato al lavoro. Somaini dalle fotografie non si riconosce. E’ celato da uno scafandro che lo fa sembrare un palombaro. Sbaglia chi lo pensa alle prese con martello e scalpelli. Per scolpire usa un getto di sabbia che esce da un piccolo ugello con la forza di dieci atmosfere, sollevando un polverone denso. Non lo vediamo all’opera, ma ce lo immaginiamo avvolto da una bianca nube, simile a quella che deve aver circondato il Dio creatore. E’ il destino di chi non si accontenta delle piccole cose e ha il gusto dei monumenti imponenti.
"Ho voluto sempre far cose grandi. Ho un’idea antica della scultura. Per me l’artista che fa delle cose minute ed intime, che parlano di sé, non segue la grande tradizione italiana, che di fatto si è immiserita dopo il Canova, nell’ottocento. Un segno dell’impotenza del nostro secolo, che ha paura di fare grandi opere. Ma cosa lasceremo noi? Le autostrade, le gallerie e poi? Ho sempre pensato che il destino della scultura è quello di arricchire le piazze, oggi come ieri".
Il contesto è però cambiato. Un tempo si abbelliva l’agorà, poi la cattedrale, oggi i supermercati. Paragone irriverente?
"Perché mai? L’ho sempre sostenuto e anche realizzato".
Con “La porta d’Europa”, davanti al Bennet di Montano Lucino, ad esempio.
"Venne Enzo Ratti e mi disse: “voglio l’opera tua migliore, la più importante che puoi fare”. Realizzai un bozzetto. Piacque tanto al committente da indurlo persino a cambiar nome al centro commerciale. L’idea che avevo era quella di rappresentare l’abbondanza e la carestia".
Non ne abbia a male, ma da lontano “La porta d’Europa” sembra un dolmen, quei massi che si vedono anche nei fumetti di Asterix.
"Perché dovrei prendermela? Sono soddisfatto quando un comune visitatore si pone delle domande su ciò che vede. I nemici della scultura sono coloro che dei monumenti non si accorgono neppure, troppo impegnati a correre, a fare e disfare. La mia idea è quella di realizzare opere che interroghino le persone e che la gente di buona volontà possa tentare di capire. Ecco perché ritengo necessario che l’opera contenga in sé un aggancio, un’indicazione, una traccia che rimandi al suo significato. La forma del triglite prende spunto proprio dai dolmen. Il motivo è semplice. La cultura delle grandi pietre, di cui si conserva la memoria nelle più svariate zone del continente, dall’atlantico al baltico, dall’Inghilterra fino alla Sardegna e a Malta, fu elemento unitario europeo più ancora dello stile gotico o romanico".
Come giudica la Como artistica?
"Una città abbastanza gretta, fatta eccezione per alcuni mecenati. E’ sempre stata provinciale, soffocata dalla vicina Milano. Como vivacchia. Negli anni ’50, quando aprii un piccolo studio, preferii il niente di Lomazzo al provincialismo di Como. Se si pensa che i disegni del Sant’Elia non sono ancora esposti".
Se le dicessero, scegli un angolo della città di Como dove mettere una tua scultura, quale sceglierebbe?
"L’ho già detto – sorride quasi con malizia, come un bimbo di cui è stato rivelato il luogo dove nasconde i dolci – Piazza Roma. Perché in fondo a questa piazza c’è un punto dove si vede il monumento di Piazza Volta. Questi due luoghi segnano la memoria della vecchia Como".
Che tipo di opera metterebbe?
"Un monumento ai nostri Maestri Cumacini, che per secoli hanno esportato arte e importato arte".
Si sente un po’ loro figlio?
"Certamente. Io mi ritengo mitteleuropeo, è tale è la mia scultura. Anche Como lo è, ma non si rende conto di esserlo, mentre sarebbe importante risvegliare in noi una cultura mitteleuropea".
Giorgio Bardaglio
E altre domande e risposte, mai pubblicate prima.
"Ogni scultura parla di sé. Per sé. E’ la pietra che, modellata dall’uomo, riesce a comunicare. Ogni parola che si aggiunge non è però vana. Non è facile realizzare una scultura per il pubblico. Quel che nel contesto urbano è un cumulo di sabbia scaricata da un camion, in una galleria d’arte diventa una scultura".
Como è una città bella?
"Lo è, ma sbaglia a pensarsi per questo turistica. Turistica è Lugano che, tanto per cominciare è rivolta a sud mentre Como guarda a nord. Poi non basta un pista da ghiaccio o un babbo natale che scende dal campanile".
Piazza Cavour?
"E' pericolosa per un artista. Da manuale è una piazza morta. Dove si instaurano le banche e le assicurazioni muore il tessuto urbano. La loro è una clientela frettolosa, di passaggio. Le amministrazioni precedenti avrebbero dovuto imporre le banche dal primo piano in su, lasciando il sotto per i parrucchieri, i bar, i ristoranti per tutte le tasche, anche i fast-food e le pizzerie. Piazza Cavour non ha niente perché la gente ci stia lì. Neanche la fontana del Bernini risolverebbe qualcosa. Dopo qualche mese si sarebbero già annoiati di vederla. Bisogna ricostruirne, magari rimpicciolendola, il tessuto urbano. Guardiamo piazza San Marco, a Venezia. Quanti bar ci sono? Non ho però certezze a riguardo".
Qual è il committente migliore?
"Quello che ha pazienza. In vita mia non ho mai chiesto una lira in più del pattuito. A volte ho avuto però bisogno di più tempo. Qualche volta sono stato anche accontentato".
E gli intermediari?
"Se posso ne faccio a meno. Si prendono almeno il 50% del ricavo, all’estero anche il 60".
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