sabato 23 agosto 2025

Lo sguardo positivo (Fratelli)

"La fai facile tu". "Non essere ingenuo". "Per te va sempre tutto bene".
Me lo sento ripetere spesso e no, non va sempre tutto bene.
Però è vero che mi infastidisce sentire certe frasi, espresse con pregiudizio e pressapochismo: "I giovani d'oggi...", "Ai miei tempi", "È sempre peggio".
No. Anche in questo caso.
Mi ribello al giudizio del "sempre peggio", lo considero un errore di valutazione, un difetto di prospettiva, non comprendere che è una ruota che gira.
So che qualcuno scuoterà la testa e non nego lacune, difetti, storture, contraddizioni nella generazione che si affaccia sul mondo, ma nel complesso né più né meno dei ragazzi e delle ragazze d'ogni epoca.
Un'ostinazione, la mia, per la quale tengo la barra dritta, pure controcorrente, sapendo benissimo che in una società sempre più anziana, qual è la nostra, i giovani sono minoranza.
Se lo faccio è perché credo profondamente che ci sia bisogno di sguardi positivi sul mondo.
"Io mi sono educato negli anni a guardare il mondo con sguardo positivo" ha dichiarato in un'intervista uno dei miei punti di riferimento ideali, Luigino Bruni. A quella positività cerco di educarmi ogni giorno anch'io.

P.S. Sui giovani sono di parte, lo ammetto, avendone quattro che mi fanno da pilastro e, circondandosi a loro volta di amici, moltiplicano le occasione che ho di confronto, apprendimento, crescita. Grazie ad essi imparo anche il valore della differenza, della peculiarità di ogni essere umano, che pur essendo partorito dagli stessi lombi e cresciuto grossomodo in un'identica maniera, sviluppa un'originalità ch'è come impronta digitale: unica. Chi ha la fortuna di avere fratelli o sorelle sperimenta sulla propria pelle questa distinzione, sottile e insieme profonda. 

sabato 16 agosto 2025

Il tavolone (Rinnovare il senso)

Sono state vacanze più complicate del previsto, un po’ perché si diventa vecchi e resistenti al cambiamento, un po’ perché nulla è dato una volta per tutte: occorre rinnovare continuamente il carisma, attingendo alla profondità del senso originario.
Il nostro, come famiglia, potrei riassumerlo in questo: la bellezza di stare insieme, anche con poco, e la disponibilità all’apertura, ad essere accoglienti, nonostante tutto.
Soltanto così, con questo spirito, quella “insieme” è una vacanza memorabile, di quelle che hai voglia di farne un’altra, il giorno dopo.
Premesso ciò, la ciambella è uscita col buco anche quest’anno, nel senso che al tirare delle somme è stato bello, permettendomi di conoscere meglio chi per parentela mi è vicino, ma non frequento con assiduità, vedendoci una volta a settimana, un paio d’ore, se va liscio.

P.S. La “regola di Capovalle” potremmo chiamarla, quella scritta sopra in neretto, perché trae spunto dalle decine di volte che abbiamo trascorso lì, sopra il lago d’Idro, il mezzo d’agosto. Lo chalet fatto costruire dal signor Bruno aveva tre stanze con due posti letto ciascuna, un cucinino, un locale d’entrata con camino e un bagnetto munito di doccia, che tra un lavaggio e l’altro dovevi aspettare mezz’ora per non farla al freddo. Per mangiare s’apparecchiava fuori, all’aperto, a seconda di dove picchiava il sole, per scansarlo. Non si stava una settimana ma quanti giorni capitava, a seconda dell’anno, dandosi il cambio con l’altra metà dei Noseda, quando arrivavano, e invitando amici o altri parenti a passare, per bere qualcosa o fermarsi una notte, “che tanto Fulvio dorme sul divano”.
Il casale in Toscana, quest’anno, era un incanto, di bagni ne aveva una mezza dozzina, i locali numerosi e le mura ampie, che riparavano dal caldo, in più una piscina gigante, come quelle comunali: lamentarsi sarebbe stato proprio peccato d’irriconoscenza, giusto ammetterlo. Il momento più bello (e anche profondo, di spessore) è rimasto quello conviviale, della cena o del pranzo, quando eravamo tutti attorno a un tavolone e c’era una gran caciara, e chiacchiere, risate, ottimo cibo e vino buono: come un film di Ozpetek o qualche scena di Sorrentino. So che un giorno rimpiangeremo tutto questo, per il momento ce lo siamo goduti e non è poco.

Post post scriptum: ringraziare qualcuno sarebbe fuori luogo, perché dovrei citare come minimo Angelo, che ha pagato la location; Giulia che si è sbattuta più di tutti per trovare un posto magnifico; Filippo e Fulvio e Kadir, ottimi dispensieri e cuochi d’un certo livello; Manu e Isabella, per l’ordine e il decoro; Michela e Matteo per quel loro modo di stare “dentro” la vacanza, creando legami pur quando restano in silenzio, con in più le star di quest’anno, Vittoria; Roberta, per aver accettato di far parte di questo lato di famiglia, facendo da tramite anche con la sua; Giorgia e Giovanni, perché ci tengono proprio a che siamo famiglia e non soltanto compagni di viaggio. Allora nomino coloro che quest’anno sono passati a trovarci, destabilizzando la nostra protervia quiete e regalandoci occasioni di crescita, come riesce soltanto al “pellegrino” che bussa alla porta, domandando nient’altro che compagnia e ristoro: Giacomo, Annachiara, Matteo, Silvia, Cristian, Bea ed Alberto. Tutt’insieme, un mondo.

venerdì 15 agosto 2025

Tu sii (Fuori dagli schemi)

 
Ho scritto in questi giorni guardando all’indietro, confrontandomi idealmente con chi mi ha preceduto.
Ora mi rivolgo a te, che sei viva e presente, in ogni senso.
Tu, intesa non soltanto come nome proprio che porti e che mi somiglia, bensì alla donna che sei e che siete, tutte, come genere e pure in quanto parte femminile di ciascuno ch’è in noi, maschi inclusi.
La prendo a curva larga, per spiegarmi meglio.
Comincio da un celebre ciclo di lezioni di Baricco, le Palladium Lectures, con l’esempio che portava citando l’arte lirica della Tebaldi, soprano eccelso di metà Novecento, che venne però scalzata dalla Callas, la quale seppe rompere gli schemi, cambiare registro.
Baricco cita anche la bellezza di Kate Moss e la tecnica di Dick Fosbury, quello del salto in alto di schiena, che rivoluzionò l’atletica, introducendo un cambio di paradigma, un ribaltamento del nuovo sul vecchio.
Di mio, dal basso di quel che so, aggiungo il Pascoli. Non quello delle poesie più celebri, l’erede del Carducci e dei suoi versi solenni, bensì quello della sperimentazione, in grado di disintegrare “la forma tradizionale del linguaggio” e sperimentare una poesia immaginifica, fatta di frasi brevi, musicali e suggestive.
Tutto questo per dirti che in un tempo omologato e convenzionale qual è il nostro, appiattito dalle bolle dei social, essere originali senza sentirsi fuori posto è il vero lusso. E combattere la povertà - compresa la peggiore, cioè quella di chi possiede soltanto denaro - può essere una buona missione per dare alla tua vita spessore e senso.
In un mondo di Tebaldi e Carducci, tu sii Callas e Pascoli, senza tentennamento.

P.S. A prescindere da ciò che sceglierai o da quanto il destino deciderà per te, armati non di spada né frecce, semmai di scudo. Che proteggersi e voler bene a se stessi è il primo dovere di chi ha a cuore il bene dell’altro. Un conto infatti è l’espressione sincera, onesta, della propria personalità, considerando la diversità un valore profondo e la tolleranza il collante di tutto, un altro la condanna che ci autoimponiamo affinché tutti vadano d’accordo. Che “accondiscendere” fa già parte del tuo armamentario, un anestetico naturale al conflitto che invece accompagna gli esseri umani quanto un marchio e che di recente - come abbiamo insieme letto - cerchiamo di rimuovere ad ogni costo, sostituendo alla naturalezza dei rapporti un contesto sterile, igienizzato, immune da tutto. Ma “immune” è anche assenza di “munus”, di dono. Ed un mondo povero è proprio quello nel quale, a furia di scartare il negativo, si finisce per stare peggio.



 

giovedì 14 agosto 2025

I due estremi (La fonte della varietà)

Desideravo farti un riassunto, ma mi è difficile compilare un elenco, preferisco correre sul filo dei pensieri, lasciando spazio a quelli che affiorano, come la panna sul latte quando il latte era ancora quello preso dalla stalla, non al supermercato.
“Deludere” è verbo che mi fa sempre da monito, da quando ero bimbo e mi lasciavate a balia e dovevo meritarmi l’accoglienza di chi mi ospitava, “facendo il bravo”, dimostrandomi già “un ometto”.
Nessuno dovrebbe esserlo presto, tutti meriteremmo il diritto di fare i capricci ed essere accettati lo stesso.
Imputo nulla a te, né alla mamma: avete fatto assai più di quanto dovuto e a vostra volta ricevuto.
Penso piuttosto a chi sta attorno, a una comunità che dovrebbe essere a misura di bambino e invece - proprio poiché “misura” tutto - dà poco o troppo, a seconda del caso. Così da un lato troviamo nugoli di adulti adoranti un unico pargolo, che cresce come sotto una campana di vetro, protetto da tutto ed incapace di avere uno spazio proprio; dall’altro risultiamo insofferenti ad ogni disturbo provocato dai figli altrui, dal chiasso alle scompostezze, dal disordine ai capricci in ordine sparso.

P.S. Il mondo adulto/bambini era assai più distinto una generazione fa, anche se diffido dei resoconti edulcorati della nostra memoria e mi guardo bene dal giudicare quel tempo, rispetto ad oggi, meglio. Certo il numero faceva la differenza ed era possibile anche tra piccoli creare una propria comunità, sviluppare un’autonomia, mettere alla prova quel valore tanto difeso a parole quanto mortificato nei fatti ch’è la libertà. La libertà non esiste di per sé nel consorzio civile che da millenni abbiamo creato: al massimo si concede. Proprio per questo è essenziale imparare ad esercitarla, mettersi alla prova, assumersene il rischio. Soffocarne la pratica, al contrario, non solo impedisce lo sviluppo di chi cresce, impoverisce altresì l’intera società, prosciugando la fonte della varietà, cioè dell’equivalente dei colori per il disegno d’un quadro.

mercoledì 13 agosto 2025

Benedetto difetto (La sapienza del contatto)

Accettare i tuoi difetti, non giudicarti in base a quelli, saper andare oltre e vedere altro, comprendere come il bene provato possa mettere in secondo piano tutto il resto. 
È così che sono diventato indulgente, pure nei confronti di me stesso, considerando l’errore una parte del cammino e ciò che giudichiamo negativo una componente essenziale dell’impasto che ci dà forma e sostanza.
Ho letto di recente che uno dei rischi del nostro tempo è la tentazione di rimuovere gli aspetti che sono accessori o addirittura di ostacolo al “funzionare”, all’essere perfettamente integrati nella società, al proprio posto del mondo. Mi pare una lettura in cui c’è del vero.
Debolezze, limiti, mancanze, grettezze, inciampi. Non solo ne vorremmo essere esenti: ci sentiamo in colpa quando ci sono. In noi stessi e di riflesso negli altri (pur se con gli altri spesso siamo più severi nel giudizio: la famosa pagliuzza altrui in paragone alla trave nell’occhio proprio). Un rigore che sfocia in sentimenti che turbano: ansia, soprattutto, ma pure senso di inadeguatezza, frustrazione, senso di colpa, mancanza di coraggio, tentazione di chiudersi, creando una barriera con tutto il resto.

P.S. Te l’ho scritto per aggiornarti in qualche modo di alcuni mali del nostro tempo. C’è dell’altro, in positivo, anche se il positivo facciamo più fatica a vederlo. Penso al piacere della compagnia, della socialità. Neppure in questo parte dell’emisfero s’è persa. Così come il piacere delle esperienze o il gusto della curiosità, del cercare qualcosa di nuovo, non limitandosi a rimpiangere il passato. E poi la consapevolezza della natura come ambiente che ci ospita e va rispettato, nonostante cerchiamo sempre di piegarlo al nostro servizio. Meno comunque di quando c’eri tu, pur se riconosco che la tua generazione è stata un crinale, essendo quella con un potere limitato e che poteva permettersi di non amministrarlo con giudizio. Una coscienza che invece ora abbiamo, mentre manca - almeno a me - quella sapienza di chi a contatto con la natura è cresciuto e si ritiene parte di essa non soltanto intellettualmente, bensì nella carne, nel profondo. 

martedì 12 agosto 2025

Il peso del non detto (Un dilemma non banale)

Dire o non dire ciò che si pensa, in particolare quanto stride, divide, separa? Ci rifletto spesso e ho idea vaga delle scelte che avresti fatto tu, che per certi aspetti eri schietto, in altre situazioni preferivi il silenzio, anche se alla lunga erano parole castrate, che avvelenavano, e capitava infine che uscissero ugualmente, portando con sé il carico esplosivo del represso.
Se dovessi dunque cavare una regola generale di comportamento, scriverei questa: meglio dire.
Oppure non dire, ma soltanto se si è capaci di dimenticare. Scordare davvero, non per finta: cancellare proprio e andare avanti come nulla fosse successo. Un esercizio meritevole quanto arduo, anche perché come specie siamo allevati coltivando memoria, non disperdendola quasi fosse fumo.

P.S. La differenza la fa sempre il modo. Anche nel dire. Si può farlo sbraitando, sbattendo in faccia come guanto di sfida il proprio astio o sibilando parole taglienti più d’un rasoio o, al contrario, con mitezza, con garbo, cercando di mettersi anche nei panni dell’altro. Questo non me lo hai insegnato tu, che appartenevi a una generazione ancora fieramente radicata nel primitivo, capace di dispute epocali, che avevano una loro fisicità persino. Una feralità, una ferinità che sento ancora mia, ma che tengo a bada, assicurandola al guinzaglio e permettendole di uscire soltanto in occasioni rade, quasi sempre quando ho consapevolezza di sedermi dalla parte del torto. Perciò la associo alla debolezza: chi è forte, chi si sente nel giusto, non si scompone. La prossima volta che alzerò la voce cercherò di ricordarlo.

lunedì 11 agosto 2025

La città svelata (Viverci dentro)

Ho scoperto cosa significa "città" ieri l'altro. Forse qualche giorno addietro, non molto. Prima ne ho frequentate parecchie, in qualcuna ho lavorato, in un paio abitato.
Su di esse anni fa ho letto un libro, bellissimo, d'Italo Calvino. "Città invisibili" sono state pure le mie, nel senso che le avevo davanti agli occhi, ma non le vedevo. Ci camminavo in mezzo, le attraversavo, mi restava poco, ero turista di passaggio anche allorché vi sostavo.
A Brescia, dopo un anno e mezzo, è caduto il velo.
Da un giorno con l'altro, come raccontano coloro che vanno in un paese straniero, non conoscono la lingua e sentono suoni indistinti per mesi, finché d'improvviso, un mattino o a mezzogiorno, ascoltano le conversazioni di chi è a loro vicino e comprendono tutto.
Brescia, dicevo, mi si è svelata così, all'improvviso. Un istante prima ne percorrevo le vie in superficie, un momento dopo mi ci sono immerso e m’è apparsa viva, precisa, varia quanto un mosaico. Un quadro impressionista, meglio: multistrato, una pennellata sull'altra, cultura e storia che sedimentano. 
Qualcuno me l'aveva anticipato: “È bellissima” avevano detto.
Per mesi l'ho osservata senza m'impressionasse nulla, se non gli angoli da cartolina che vanta ogni borgo. A confronto di Como e di Bergamo mi pareva meno presepe, più a grana grossa, tonda tonda, senza dettaglio.
Non era lei, ero io. O forse sono le città che decidono, che nascondono la loro essenza finché trovano chi le apprezza, mostrandosi per quel che sono. Fatto sta che una sera, mentre camminavo, man mano che procedevo, invece dei soliti muri, delle strade, dei locali, mi si è aperto un mondo. A qualsiasi crocicchio un segno, oltre ogni portone un dettaglio, un reperto medioevale o romano, tutti i palazzi con scorci delle generazioni che si sono succedute.
Philippe Daverio diceva che l'arte o è classica o è barocca. La prima cerebrale, la seconda mossa delle viscere. Ed è quest'ultima che emoziona di più ("Per l'altra non è mai svenuto nessuno"). Se è così, Brescia è barocca al cento per cento. Anche se non ce ne si accorge subito.

P.S. Ci siamo lasciati a Como e mi ritrovi ora decine di chilometri più a est. Nel mezzo ho vinto la pigrizia, facendo scelte di vita, non soltanto lavoro. Tu non c'eri ma centri, poiché nessun altro mi ha fatto mettere radici quanto te, che eri sradicato, avendo abbandonato la tua terra di montagna da ragazzo e costruendo casa dove tuttora l'abbiamo. Io mi sono sempre sentito "di quella casa" e tale mi reputo adesso, anche se la mente razionale sa che posso stare ovunque senza contraccolpo. Brescia è l'ultima tappa, quella più scelta e meno capitata di tutte. Sorrido pensando se fossi qui, tu che guidavi tutto il giorno ma oltre il raggio dei trenta chilometri era impresa titanica, da farti venire il mal di stomaco. Per non parlare di Milano. Lì non ci sei mai voluto andare. "Prendi un taxi", dicevi. Il taxi non l'ho mai preso, nemmeno quando a Milano sono stato a studiare negli anni dell'università e poi per lavoro. Ora che ci penso, sono state tutte piccole conquiste che mi hanno permesso di sentirmi meno inferiore rispetto a te, impedendomi di restare schiacciato.

domenica 10 agosto 2025

Tutti d'un pezzo (Liberi davvero)

Si dice che lo stile, a differenza della moda, non conosce il logorio del tempo.
Io so solo che ciò che è vecchio lo resta, mai una volta che abbia indossato un indumento tenuto a lungo nell'armadio senza che sembrasse largo o stretto, piccolo, corto di gamba, lungo di spalle, troppo a zampa, poco sciancrato...
Sono restio a vuotare il tuo armadio del tutto, anche se non ci sei più da un pezzo. Ogni tanto qualche nipote si incuriosisce e mette il naso, pescando una camicia, una giacca o una di quelle tute lucide, di acrilico, che - tranne che indosso a te - ho sempre detestato.
Non siamo stati mai una famiglia di "arbiter elegantiarum", mi hai insegnato con l'esempio a preferire la dignità al lusso, la compostezza al marchio. Anche se non ti interesserebbe nulla, te lo scrivo lo stesso: i calzoni a tubo, stretti di gamba, "a sigaretta", non si possono più vedere, ora i pantaloni sono a campata larga, che la stoffa che prima serviva per tre e ora a malapena basta per uno.

P.S. L'ho tirata lunga, è stato solo un pretesto. Volevo vedessi la foto qui sopra, di due dei tuoi nipoti, di quanto sorridono. Giorgia e Giovanni li hai goduti meno di Giacomo, ma ricordo la brillantezza degli occhi quando te ne sei preso cura, quell'elettricità a bassa tensione che ti percorreva, l'emozione senza teatralità, sperimentata nel profondo. Nelle azioni cerco di imitarti, lasciando loro la cima lunga e lassa che tu hai usato per me, mettendoti mai davanti, sempre accanto. Nelle intenzioni invece sono tentato ogni giorno di accorciar loro le strade, di eliminare ogni inciampo. Proietto su essi un’aspettativa egoistica: vorrei fossero felici tanto e subito, così non da non aver preoccupazioni e campare sereno.  Credo sia umano. Forse però è anche uno dei mali del nostro tempo, questo iper protezionismo che dimostriamo, prediligendo la sicurezza a scapito della libertà, preferendo la tranquillità al vento di tramontana che l’incertezza sempre comporta.

sabato 9 agosto 2025

Il tempo colmato (Sopravvivere oltre)

Il mare ha questo di suo: dimentica. Dà orizzonte e pare immutevole, ma è un eterno rimescolio e onda su onda cancella le impronte.

È un riassunto delle puntate precedenti quello che vorrei mandarti, per aggiornarti del molto ch'è capitato da quando per vederti devo chiudere gli occhi. In fondo, da qualche parte del cuore, confido tu lo conosca già, che dove sei andato non esistano misteri o segreti, perciò dovrei esser sincero e confessare che lo faccio per me, per il bisogno di riordinare, di dare forma (fermo) allo scorrere della vita in perenne movimento.
Lo farò, se riesco, nei prossimi giorni, che son di festa pur essendo feriali: è la feria d'agosto.
Comincio da qui, dal verbo «scrivere», tempo presente, prima persona singolare: da quando lavoro di nuovo per un giornale è tornata attività principale. Ogni giorno curo una pagina, quella delle «Lettere al direttore», rispondendo di volta in volta. Lo facevo già a Monza e mi piace molto, per tre motivi: è un darsi una disciplina e nel contempo confrontarsi continuamente, godendo di quella risorsa inesauribile ch'è la varietà. Specialmente a Brescia, città che mi ospita e di cui mi piacerebbe parlarti - lo farò, promesso - apprezzandone la cultura, ampia e profonda insieme.
In più, di scritto, ci sono i messaggi personali, che stimolano sempre, anche se rispetto a quando c'eri tu ha fatto capolino una nuova forma di comunicazione: i "vocali". Dicono stiano scalzando la forma scritta, nel mio caso hanno più sostituito le telefonate. O, meglio, è come un telefonare, ma puntiforme, senza accavallamenti e sovrapposizioni: prima parlo io, poi ascolto, poi rispondo, poi sento la replica...
Non sono certo ti sarebbero piaciuti, ma nonostante la tendenza a giudicare severamente tutto ciò che è nuovo, in dosi omeopatiche hanno una loro positività, giuro (con una regola però: mai più lunghi di sessanta secondi, un minuto).
Infine scrivo su questo blog, che tengo alimentato con rigore asburgico, almeno una volta a settimana, mantenendo la traiettoria che per esso ho via via disegnato, di rappresentare un lascito, qualcosa che parla di me, di noi. La pretesa labile, eppure confortante, di battere così la morte. O almeno pareggiare.

P.S. La verità è che, sulla pretesa di sopravvivere "oltre", ho raggiunto una disillusione «calma, senza sgomento». Niente angoscia, prostrazione, scoraggiamento, semmai serenità consapevole. Se ci penso, infatti, ho interesse che resti qualcosa non per me, bensì di me, ma soltanto per chi conosco, per i miei figli soprattutto, affinché sia mitigato loro il dolore del distacco, che ho provato a mia volta e so quanto sia lacerante, esplosivo. Degli altri mi importa meno. Se avessi ambizione di aspirare alla posterità, peccherei di vanità, dimenticando il Qoelet, nel miraggio che qualche idea, qualche concetto, possa ritenersi universale e giudicato in futuro interessante da perfetti sconosciuti. Ciò però non mi tocca, non essendo in mio potere, non dipendendo da me, appartenendo, come ogni dettaglio dell'esistenza, al destino. Per cui, nella certezza che il treno continuerà a correre, preferisco imitare un ben altro Giorgio, Caproni, chiosando senza infingimento: «Scendo. Buon proseguimento».

sabato 2 agosto 2025

Ma se verrai (Il cuore in pace)

Tranne forse un paio, il resto dei peccati li ho commessi tutti. A dispetto o forse a conferma delle apparenze.
C'è tuttavia un appiglio al quale appendo il puntiglio della mia indulgenza: ritenere di aver cercato sempre il bene. Che per me consiste in questo: ciò che unisce e non quel che divide.
Amore, amare, lo declino così: un'azione prima che un sentimento.
Un manuale d'uso applicabile ad ogni contesto, nel grande come nel piccolo. Non mi spaventa infatti il vuoto, la distanza o il conflitto, bensì la decisione consapevole di rinunciare a un punto di incontro.

P.S. Qualche sera fa m'è capitato tra le mani un libro e, sfogliandolo, vi ho trovato un biglietto, appuntato chissà dove, chissà quando. C'era scritto così:
«A me farà piacere se verrai, stasera. Molto.
Ma se verrai senza aver compreso a fondo quanto accaduto, allora non venire.
Ma se non avrai il cuore in pace e non sarai serena con tutti, allora non venire.
Ma se la delusione (anche giustificata), il dispiacere (anche comprensibile), la rabbia (anche motivata) sono più forti della capacità di perdonare e di fare tu il primo passo e di tendere la mano, allora non venire.
E se non credi a me o ritieni le mie soltanto belle parole, non scordare che "se giudichi le persone non avrai tempo per amarle"».