"Chi me lo fa fare?". Se lo chiede Fuma, nei commenti al post precedente sul tenere un blog. Di fatica, delusioni, frustrazione parla anche Toto, autore di uno dei miei blog preferiti, che da scienziato qual è m'inquieta, sollevando il dubbio che tra cent'anni queste lettere possano rimanere impresse oppure disperdersi, granelli di sabbia che avevo scambiato per granito. Ricaccio i timori e mi concentro sul presente, scoprendo ogni giorno una sorpresa. Il blog di Andrea, ad esempio, che trasforma un amico di vista in compagno di strada. Lo abbino alle molte informazioni dei contatti in Facebook, che nella mia personalissima dimensione digitale ha affiancato il blog, senza sostituirlo. Nei social network (Facebook, ma anche Twitter, che "non mi finisce ancora di piacere", ma che Alessandro e Elena mi consigliano da un pezzo) trovo una dimensione più orizzontale, più relazionale, mentre qui prevale la profondità. La tiro lunga, andando a zonzo, perché sento il desiderio di scrivere ma non so bene che cosa. Perciò mi faccio guidare dall'impulso, dallo scoccare di una scintilla, ignorando se produrrà fuoco oppure non resterà che fumo. Spesso è così, anche nella vita: abbiamo il mito del progetto, ma quasi sempre è il destino, il caso a condurci per mano, a farci conoscere persone, a combinare situazioni, a far sbocciare occasioni. Pensavo ieri che da piccolo, dalle elementari fino alla scuole medie, diciamo, volevo fare il veterinario. Un desiderio nato non per caso: m'era morto il gatto (non per modo di dire, sul serio: una femmina di gatto, nera, elegantissima, ch'è durata poco più di un anno, finché era caduta nella bocca del cane del vicino) e nessuno era riuscito a curarla, perché a quel tempo di veterinari ce n'erano pochi e curavano per di più vacche da latte o maiali da riproduzione e di gatti e di cani ce n'erano un sacco e se non stavano bene li si toglieva di mezzo, portandone a casa un altro. Perciò volevo fare il veterinario, perché adoravo il libri di James Herriot e quando doveva nascere un vitello, nella stalla del Giovanni Bassi, mi chiamavano per legare i piedi del nascituro e tirarlo fuori, aiutando la mucca a sgravare, come da millenni fa l'uomo. Non ricordo l'esatto momento in cui compresi che non sarebbe stato il mio lavoro, che non avrei studiato per quello, fu un distacco graduale ma netto. Meglio così, non sarei stato gran che. E anche adesso, che pure potrei permettermelo, non ho animali, se non i due cagnolini (Ibis e Anubi) che mi ha lasciato in eredità mio padre e Silvio, il canarino che ha il privilegio di restare in casa, di notte, in inverno. Forse però un giorno ricorderò quand'ero bambino e tornerò magari quel Giorgio che sono stato, che ha pianto per le bestie che ha perduto e a cui era affezionato. Forse un giorno, quando smetterò di correre e troverò tempo per accudire per bene il prato e l'orto e il giardino, mi regalerò un bel cane, un pointer, mi piacerebbe, a pelo raso, da tenere sulle ginocchia e accarezzargli la testa e le orecchie, sentendolo respirare affettuoso.
Foto by Leonora
2 commenti:
...grazie per l'amico di vista e ancor più per il compagno di strada (che detto così potremmo anche sembrare due barboni da stazione Centrale, con tutto il rispetto, s'intende!)tanto inattesi quanto piacevoli. Incasso il tuo sostegno al mio blog un po' come il nobel per Obama (chiedo venia per l'improbabile paragone!):un sostegno sulla fiducia più che sui poveri contenuti. grazie ancora.
andrea
Si, probabilmente lo e
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