Se c'è un cruccio, tra i molti, che mi è spina nel fianco, è quello di non vivere e godere appieno dei contemporanei meritevoli che questo tempo mi ha messo accanto. Giorgio Luraschi, il professor Giorgio Luraschi, è uno di questi. Ho avuto la fortuna di conoscerlo molti anni fa, comprendendo a pelle che avevo di fronte un personaggio fuori dal comune. Da allora mi sono sempre ripromesso di tornare a incontrarlo, di assistere più spesso agli incontri che lo vedono protagonista. Un desiderio che non ho mai soddisfatto, se non in saltuarie occasioni, in cui ogni volta sono rimasto affascinato dal suo eloquio, dal modo di porsi, dal piacere quasi fisico che si ricava ascoltandolo, senza poi andare a cercarlo con maggiore frequenza e più impegno. Suo è anche il libro ("Storia di Como antica") che ho sempre voluto leggere, ma che non ho mai comprato, accampando mille scuse (tra cui il costo, visto che quand'è uscito mi pare avesse un prezzo di settantamila lire, che per me, con i guadagni di allora erano uno sproposito). E anche adesso, che potrei permettermelo, l'obiettivo, l'idea di comprarlo è diventata quasi più interessante del libro stesso.
L'intervista che riporto qui sotto, molto ampliata rispetto a quella che uscì sul Corriere di Como, la feci il 14 maggio del 1998. Passammo insieme un intero pomeriggio, nella sua casa, e mi confidò cose come fa un padre a un figlio, anche se prima ci eravamo incrociati soltanto di sfuggita, ma leggeva le mi interviste e sapeva di potersi fidare del ragazzo che ero. Mi colpì un discorso sulla vita, sul figlio che gli era morto piccolissimo, sul rapporto duro e dolce insieme con la moglie, dopo quel lutto. Conoscevo già Licia, la figlia che ebbero subito dopo e che contribuì a rimettere sui binari un convoglio famigliare che rischiava di schiantarsi o rimanere impantanato. Da allora sono capitate un sacco di cose. Luraschi s'è ammalato, ha rischiato di lasciarci la pelle, ancora oggi lotta strenuamente contro il male subdolo, ha una nuova, giovanissima compagna, da cui ha avuto un figlio, maschio, a cui ha dato due nomi, non uno. Di lui tutto si può pensare, ma resta un personaggio unico.
Che parli di Cornelio Nepote o di Alberto Botta, poco importa. Che tratti di Publio Virgilio Marone o di Paolo Maggi, non fa differenza. Giorgio Luraschi racconta la storia con il ritmo della cronaca e la cronaca con il rigore della storia. Per questo non annoia.
È vero che “ne plurimum valeant plurimi”, il numero non conta, come ammette lui stesso, prendendo a prestito le parole di Cicerone. Tuttavia, se l’aula in cui insegna è sempre colma, un motivo ragionevole ci sarà pure. Egli sa trasmettere entusiasmo. E quando si accorge che la “mancipatio e in iure cessio” o qualsiasi altra chincaglieria di diritto romano comincia a provocare tra gli universitari un’inesorabile sonnolenza, non ci pensa due volte a raccontare cosa gli sia accaduto domenica l’altra per strada o allo stadio. Qualche studente non apprezza. Qualcun altro gli scrive persino bigliettini di disapprovazione. Lui incassa, non lascia e rilancia. Invece che dirottare il messaggio nel cestino, lo legge ad alta voce. “La pianti di divagare” c’è scritto, ma le restanti centinaia di studenti comincia ad applaudire e ad augurarsi che Luraschi torni ad essere ciò che è: un uomo apparentemente grigio e polveroso come certi ragionieri, ma in realtà vivace e colorato come solo i giullari sanno essere.
“Lo considero un complimento. Il giullare, il buffone, coloro che salvano la pelle senza tralasciare di criticare il padrone, mi hanno sempre affascinato”.
Comasco, nato cinquantasei anni fa a Genova, dove il padre era militare, Giorgio Luraschi non vanta natali illustri o patrimoni ingenti. La sua infanzia la trascorre nel quartiere popolare di san Giuseppe. “Sono una persona che si è fatta da sola, seguendo una vocazione che altri hanno scoperto in me”. Gli altri sono gli insegnanti che via via lo hanno accompagnato. Il maestro Duvia alle elementari. Il professor Ercolani, che in prima media gli mette in mano “Civiltà sepolte”, il primo libro di archeologia divulgativa (“Fu una folgorazione”). Paolo Maggi al liceo. All’università sceglie giurisprudenza, come compromesso tra la facoltà di medicina, suggerita dal padre, e la passione per l’archeologia che coltiva da sé. La vita, come a tutti, impone mediazioni, ma che egli abbia le idee chiare e sia cocciuto al punto da arrivare sempre dove vuole è un dato di fatto. Alla prima lezione, il professor Gaetano Scherillo tratta delle origini di Roma. Luraschi, alunno novello, ascolta incantato e al termine dell’ora chiede al docente di essere relatore della tesi. Scherillo crede sia uno scherzo, ride, chiama divertito gli assistenti, poi capisce che quel ragazzo ancora in odor di latte fa sul serio, cerca di dissuaderlo, ma alla fine acconsente.
“Ottenuta la laurea, mi offrirono la possibilità di collaborare come ricercatore, ma accontentai i miei genitori e intrapresi la professione forense. In mattinata seguivo le cause. Nel pomeriggio mi precipitavo in università a Milano, all’insaputa di mio padre. Quando cinque anni dopo morì, io mi sentii affrancato dalla promessa fatta, lasciai la toga, vinsi una borsa di studio e nel 1971 diventai assistente ordinario all’università di Pavia. All’insegnamento ho dato tutto”.
Giorgio Luraschi, come tutte le persone che sanno di valere, non è modesto, senza però esagerazioni. “Ho scritto un libro” dice quasi di sfuggita, ma negli schedari della biblioteca di cartellini coi titoli e i dati delle sue opere, se ne trovano almeno una trentina. “La “Storia di Como antica” – dice sommesso - è l’ultima mia opera. Troppa fatica. Non ho più tempo per studiare”. Evidentemente del tempo deve averne dedicato in misura abbondante in passato, poiché di pagine ne ha scritte a manciate. Con vari e opinabili interessi. Dagli “Aspetti giuridici della romanizzazione del Bruzio” a “Il Castellum nella costituzione politica dei ligures comenses”. Passando per l’illustre “La lex vatinia de colonia Comum deducenda” o per l’imprescindibile “Il praefectus classis cum curis civitatis nel quadro politico e amministrativo del basso impero”.
Da quattro anni, più che alla ricerca deve dedicarsi all’organizzazione e all’amministrazione della facoltà di giurisprudenza con sede in Como. Un’opportunità irripetibile, ottenuta con insistenza e ostinazione, contro l’ostilità di molti e l’indifferenza dei più.
“L’università a Como non piace a tutti coloro che apprezzano solo quello che è immediatamente utile e produttivo. Nessuno pensa all’incremento culturale, bibliografico, economico che può avere la nostra città. Como ha perso un sacco di treni, non possiamo permetterci di lasciar passare anche questo. Siamo su un crinale: o si fa una scelta coraggiosa che permetta di continuare un ciclo virtuoso oppure si chiude baracca e burattini. Se gli studenti devono mangiare sulle scale, se non possono andare a studiare in biblioteca, se devono stare in piedi durante le lezioni, non c’è futuro. Il chiostro di Sant’Abbondio, non chiediamo altro”.
Giorgio Luraschi ha fatto dell’università non solo una scelta, bensì una vera e propria missione, a cui si dedica con piglio, zelo e caparbietà. Dal fervore con cui la difende, per essa Luraschi sembrerebbe disposto a tutto. Quasi a tutto. Perché il professor può ingoiare rospi, incassare critiche, affrontare ostacoli degni dei titani, ma su una cosa non transige. “Non ditemi di andare a tenere lezioni in un cinema, perché se così fosse io me ne tornerei a Milano o a Pavia. Io sono comasco, ma a tutto c’è un limite. Il cinema equivale a una resa”.
Victor Hugo scrisse che: “Ogni qualità sfocia in un difetto…ci son nelle virtù altrettanti vizi quanti buchi nel mantello di Diogene”.
“Gli uomini sono esseri contraddittori. I comaschi lo sono di più. L’individualismo, ad esempio, che è un nostro pregio perché non permette mai di trasformarci in gregge, può facilmente diventare egoismo, chiusura a riccio”.
Vizi e virtù sono scritti nella storia delle popolazioni. Qual è la nostra?
“I primi che si insediarono da queste parti furono i liguri, da cui ci deriva la tenacia, la laboriosità. Gli etruschi in seguito portarono la fantasia e l’intraprendenza commerciale. I celti, infine, compresero la superiorità della civiltà romana e la recepirono a tal punto che nel primo secolo avanti Cristo il meglio della cultura latina era data da celti romanizzati. Livio nasce a Padova, Virgilio a Mantova, Catullo a Verona. Per questo Cicerone chiama l’Italia settentrionale “flos Italiae”, fiore d’Italia. Come visse un’età dell’oro. Era una città di marmo, con splendidi monumenti, governata bene, con molti ricchi e nessun povero poiché gli indigenti erano mantenuti quotidianamente da elargizioni di frumento, di soldi. Plinio stesso inaugurò un sistema di sovvenzione per i poveri, copiata poi dall’imperatore Traiano.
Roma portò il diritto, fondamentale per evitare la litigiosità, l’architettura, con i ponti, gli archi, le strade, le terme. Prendersela con Roma vuol dire non capire noi stessi. Conoscere la storia vuol dire non subirla. E farla. Ecco perché la insegno”.
Giorgio Bardaglio
Qualche appunto che avevo preso, ma nell’edizione breve sul giornale è finito scartato e che dunque ad oggi risulta inedito.
Egli di interessare l’interlocutore non si accontenta. Pur di convincerlo delle proprie ragioni è disposto ad avvinghiarlo fino a persuaderlo. E se la prosa scorrevole e limpida non basta, aggiunge dell’altro, arrivando persino a dare spettacolo con battute, frizzi e lazzi. In questo senso, il professor Giorgio Luraschi è un autentico istrione.
Cosa può fare Como per l’università?
“Darci lo spazio che vogliamo, il chiostro di Sant’Abbondio. La delibera c’è. Mancano i soldi e soprattutto l’accordo degli enti pubblici. Tuttavia se tardiamo un po’ troppo, se non compare una gru, tutto si perde”.
Qual è il suo timore maggiore?
“Di perdere anche questa motrice che conta 1800 studenti, di cui solo un terzo provenienti dalla città. Tutti comunque potenziali utenti di servizi dovrebbe loro offrire, quali mense, biblioteche, librerie, fotocopisterie. Cosa c’è attorno a Viale Cavallotti di tutto questo? E sono quattro anni che siamo lì. Abbiamo trovato un gran ostilità e parecchia indifferenza”.
A chi deve dire grazie?
“Al sindaco Alberto Botta, che è una persona disponibile. Giurisprudenza c’è per merito suo, che come primo atto dopo la sua elezione convocò me e il preside di Milano e disse: si parte. Senza sede, strutture. Ora che noi elemosiniamo spazi, ci rinfacciano di aver dovuto iniziare solo quando tutto fosse stato pronto”.
Ci parli del suo ultimo libro.
“Nell’ultimo libro, ho raccolto metà dei miei scritti che riguardano Como. Uscirà il secondo volume. Ho detto: “diamo ai comaschi una visione scientifica della nostra storia, perché circolano idee, date, nomi, istituti fantasiosi. Quest’opera anche laddove è leggera e divulgativa è verificata scientificamente”.
C’è un personaggio da cui Como deve trarre lezione ed esempio?
“Più che individui, fenomeni collettivi. Ad esempio, i magistri cumacini. A Como qualcosa funziona bene quando ci sono queste coralità. Il Duomo l’hanno voluto tutti, anche se poi c’erano i Rodari. O il razionalismo. La facciata della Casa del Fascio sembra riprodurre in quella scacchiera di finestroni l’impianto della città romana vista dall’alto. Sono le geometrie semplici, lineari del romanico. Ogni volta che lo dico gli architetti ridono, ma io insisto. Tra le individualità la più grande è a mio parere il Volta, ma ci sono stati anche i due Plini, che hanno dato alla città una notorietà infinita e fatto vivere a Como il periodo migliore della sua storia”.
E Roma ladrona?
“Cesare, fondatore di Como nel 59 a.c., che Bossi porta a paladino era un romano, alle spalle non aveva i celti con le corna e i bragoni, ma la civiltà romana. Cesare è la quintessenza della romanità”.
Come nacque la ricchezza di Como?
“Vi si insediò una flotta e divenne base per il vettovagliamento. Così fiorirono monumenti preziosi, come la Porta Pretoria, che si trova sotto la media Parini”.
Immigrazione è solo il nome che diamo a un fenomeno che è sempre esistito.
“Cesare portò cinquemila coloni, più cinquecento siciliani. Mano d’opera qualificata, che portò la navigazione sul Lario e l’ulivo”.
Cos’è la cultura?
“Mi dicono: sono i libri. Io ne ho settemila, ma non è quello. Leggerli dà semmai informazione. La cultura è entusiasmo, professionalità, consapevolezza. Amore per il proprio mestiere. Una certa umiltà per poter imparare. Gli intellettuali oggi non sono colti, sono solo informati. Sanno tutto di tutti. Non leggo un romanzo da trent’anni. Chi ha entusiasmo ha in mano il mondo. Cosa facciamo noi per dargli entusiasmo? Con l’esempio ci riusciamo”.
Quale altre passioni ha?
“Il Genoa. Mio nonno, mio padre ed io siamo nato tutti a tre a Genova. Per caso, ma un caso che fa pensare. La partita in curva è una cosa di cui non ha idea. Dieci anni fa, eravamo primi con Scoglio in B ed io non andavo allo stadio. Mia figlia mi sentì gridare una volta, poi una seconda finché mi disse: papà mi devi portare. È fatta, pensai! Accesi un cero a Santa Rita e la domenica successiva andammo a Monza. Ora siamo abbonati, siamo andati a Liverpool, andiamo ai ritiri. È una passione. Fa parte del mio essere. È un complemento, uno sfogo alla dura vita quotidiana. Poi viaggio, sono stato recentemente in Persia, andrò in Tunisia. La sindone, grande passione. Lo sci, ormai sempre più con calma. Non sono un tuttologo. Preferisce coltivare i suoi interessi. Uno che non sa divulgare, nemmeno sa”.
Dov’è cresciuto?
“Ho vissuto nelle case popolari di San Giuseppe, tra la gente più umile, che mi ha insegnato molto. Mio padre era ragioniere alla previdenza sociale”.
Torniamo sulla sua scelta di insegnare.
“A me è sempre interessata la storia. Ebbi la fortuna di assistere la prima lezione di Gaetano Scherillo, che trattava dell’origine di Roma. Alla fine dell’ora io scesi da quell’esimio professore e gli chiesi la tesi. Lui rise, chiamò i suoi assistenti, cercò di dissuadermi ma alla fine si convinse che facevo sul serio. Riuscii a completare l’iter della facoltà grazie alla tesi. Facevo gli esami ogni tanto e preparavo la tesi. Oltre a Scherillo, l’altro grande maestro che ebbi fu Gabrio Lombardi, che mi disse: Giorgio, il tuo destino è questo, se vuoi ti aiuto, ma devi smettere di fare l’avvocato. Il fato volle che mio padre morisse proprio in quei tempi e io, sentendomi affrancato dalla promessa che gli avevo fatto, comunicai ai miei amici che l’indomani non sarei andato allo studio. Passai, nel 1969, da uno stipendio di 500.000 ad uno di 25.000 lire al mise. Fu una scelta non compromissoria. Vinsi una borsa di studio e l’anno dopo, nel 1971, diventai assistente ordinario a Pavia, dove sono rimasto ventiquattro anni”.
Le sue lezioni sono sempre seguitissime. Qual è il segreto?
“Riesco ad interessare i giovani perché vivo con una mentalità giovanile”
3 commenti:
... con permesso ... il Professore ha due splendidi gemelli ... ovviamente genoani, e con nomi "romani" importanti ...
la MOGLIE specifica che il nome dei cucciolotti di nove mesi sono: Giulio Cesare e Lucio Pio
Ho conosciuto luraschi da studentessa,e la figlia licia ..uomo carismatico
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