venerdì 22 maggio 2009

La pazienza delle piante


Alcune parole mi piacciono più di altre. Battigia è una di queste. Ci penso, mentre la percorro a piedi, in lunghe passeggiate senza meta, se non quella di mettere un piede dopo l’altro nella sabbia, dove l’acqua del mare lambisce la spiaggia. Penso alla pazienza delle piante, che non si possono spostare di un metro e sono ancorate lì, in balìa delle condizioni atmosferiche, degli animali, dell’uomo, del tempo. Se cadono fulmini non cercano riparo, né scappano quando il fumo annuncia l’incendio, né si ritirano alla furia del vento. Prese una a una sono indifese, ma insieme conquistano terreno, poco a poco, e non cedono, neppure dove il salmastro corrode tutto. Aspettano e non vanno da nessuna parte, non si spostano. L’unica azione di movimento lo affidano al seme, che a volte, come per le palme da cocco, viaggia migliaia di chilometri prima di approdare a un lido, mentre un altro cresce vicino al fusto che l’ha generato e un giorno ne prenderà il posto, continuando la vita da cui è nato. Penso alla pazienza delle piante, una pazienza di cui non possono fare a meno, dovendo affidare al destino la sopravvivenza della specie e quella loro. E penso all’uomo, che come la natura può compiere imprese titaniche, d’un colpo, ma più spesso lo fa piano piano, un passo dopo l’altro, come me sulla spiaggia, o quando lavoro nell’orto, e vango e in principio quel fazzoletto di terra zeppo di sterpaglie mi pare sterminato, ma quando viene sera, le zolle umide lavorate dal rastrello formano un quadrato perfetto, ordinato, diviso in linee ben tracciate e pronto per essere seminato. Penso alla vita, che a volte mi sembra sfuggire di mano, senza un senso, e che forse, alla fine sarà come quell’orto, spoglio di tutto, ma - spero - finalmente ordinato e pronto a dare nuovamente frutto. Vorrei avere la pazienza delle piante, per arrivare senza vacillare, a quel giorno, senza sospettare di aver sbagliato tutto.

Foto by Leonora

domenica 10 maggio 2009

Ciccio e Silvio


Una maglia blu elettrico lunga lunga, calzettoni gialli abbassati, alla Sivori, due gambe da merlo e un fisico da Nino che non ha paura di tirare un calcio di rigore, che non è da questi particolari che si giudica un giocatore.
Oggi Giovanni, sei anni, era in campo con la divisa lustra dell'oratorio San Luigi e io sugli spalti, a osservarlo mentre rincorreva quella palla troppo grande e ogni tanto si fermava, pensieroso, serio, ed ero certo di sapere cosa gli passasse per la mente: "Ma perché sono qui, a sudare, senza i miei Gormiti, senza neanche un mattoncino dei Lego?".

Tra i vantaggi di avere più d'un figlio c'è la possibilità di apprezzarne le differenze: Giacomo vivrebbe a pane e pallone, ha talento da vendere e tira con entrambi i piedi, ma è lento e teme i contrasti; Giovanni è troppo piccolo per essere giudicato, però si capisce che non ha alcuna propensione naturale, corre alla rinfusa, assesta calci sia agli avversari sia ai compagni, ma non ha paura di nulla e potrebbe persino diventare un "Ringhio" Gattuso biondino, con i capelli a caschetto. Mi divertiva anche vederlo in panchina, con il suo amico Filippo, che al contrario di Giovanni è tanto diligente nel rispettare le indicazioni dell'allenatore da rasentare l'eroismo tragico: oggi gli hanno detto di stare largo sulla fascia e mai una volta che Filippo abbia sgarrato d'un metro. Sembrava incollato ad un binario. E dopo cinque minuti ch'era iniziata la partita e lui andava su e giù senza vedere palla, ligio all'ordine che gli era stato impartito, invece di adeguarsi a quel gioco d'istinto e buttarsi nella mischia, s'è girato verso l'allenatore e scuro scuro in volto, allargando platealmente le braccia, gli ha detto: "Ciccio! Non mi passano mai la palla!".

Ciccio non è solo l'allenatore: è l'amico, il padre, il prete, il nonno della squadra. Una persona buona, una chioccia che sa crescere uomini perché sa capire i bambini. Rimango affascinato a guardarlo, mentre fa il suo lavoro e ha una parola di sprone e d'incoraggiamento per tutti. La sua non è una squadra: è una filiale dell'Onu. Al confronto, anche l'Inter dei mille stranieri impallidisce. Marocchini, algerini, tunisini, senegalesi... Chi più ne ha, più ne metta. E sorridevo, nel pomeriggio, mentre leggevo le dichiarazioni di Berlusconi sul fatto che la sua idea non è quella di un'Italia multietnica. Qualcuno lo avverta, perché all'Oratorio San Luigi, in quel di Lurate, dove pur il settanta per cento degli abitanti vota orgogliosamente Lega e Pdl, l'Italia multietnica c'è già. E gioca a pallone e ride e scherza e diventa grande insieme, benissimo.

Foto by Leonora

giovedì 7 maggio 2009

I dubbi del sedano


D'una giornata, a volte, si butterebbe tutto. Un bel fagotto, senza andare per il sottile, muoia Sansone con tutti i Filistei. Ai Filistei io però ci sono affezionato, perché anche tra i Filistei c'erano i bambini e padri e madri e così, pure nelle giornate storte, se si ha pazienza e cuore di cercare, di momenti se ne salva almeno uno. Due. Una decina, almeno. Proprio a stare stretti stretti. Prendiamo oggi: tra correre, preoccuparsi, tribolare, pare essere rimasto nulla o poco. Invece no. Scelgo un momento, da riportare qua: quattro chiacchiere scambiate a metà mattina, con Alessandro, che è meticoloso e saggio e vicino a casa mia coltiva l'orto. "Vedi Giorgio - mi ha detto, mentre piantava il sedano - tutto questo lavoro e poi qualcuno dice che è inutile, che lo vendono già bello e pronto, al supermercato. E allora me lo domando anch'io se è giusto, che si vive una volta sola e che si prendono impegni e a volte non si riesci a dire di no e si rimane inguaiati, sempre a fare e disfare". Ascoltavo le sue parole e pensavo a me, alla carriola che avevo tra le mani, al muro di cemento armato che nei giorni in cui non sono in redazione mi ostino a distruggere senza l'aiuto di nessuno, alle ore che il martello pneumatico sottrae alla lettura, allo svago. "Beh, credo che conti la soddisfazione che viene dal lavoro" ho risposto, sorridendo, ma d'un sorriso incerto. "E' vero - mi ha risposto Alessandro - ma forse oggi era soddisfatto anche quel tipo che si è alzato e visto che era giovedì e giovedì a Lurate c'è il mercato, ha passato lì tutta la mattina, a curiosare e chiacchierare, e poi, prima di mezzogiorno è andato al bar e ha letto il giornale e poi s'è messo a discutere di politica e di calcio e ha bevuto un aperitivo e poi è tornato a casa dalla moglie, in tempo per dire: ma come? non è ancora pronto da mangiare?"
Mi ha fatto uno strano effetto sentirlo parlare così. Ero irrequieto e sollevato insieme. Irrequieto poiché Alessandro è uomo tutto d'un pezzo e, se vacilla lui, tremo anch'io; sollevato perché se vacilla un uomo tutto d'un pezzo significa che i miei dubbi, che sono gli stessi suoi, sul senso della vita e su ciò che è giusto o sbagliato fare, non sono frutto d'una mente volubile e fragile.
Poi abbiamo parlato anche d'altro (del fatto, ad esempio, che a fare festa si abituano facilmente tutti, anche i gran lavoratori, mentre assai più arduo è il contrario; e della scarsa propensione che abbiamo noi contemporanei ad accontentarci di poco) e ci siamo salutati, tornando ognuno al proprio lavoro. Io ho continuato a erodere il muro di cemento armato, centimetro dopo centimetro, lui a piantare il sedano e a tirare fili, a mettere reti anti grandine...
Per concludere, non ho avuto risposte oggi, ma mi è piaciuto pormi e lasciarmi porre domande. A differenza del sedano, certi momenti non si possono comprare già belli e pronti, al supermercato.
Foto by Leonora

mercoledì 6 maggio 2009

Vizi privati e pubbliche virtù


Ieri l'altro ho ricevuto una lettera, di quelle che non si scrivono più, a mano, armati solo di foglio bianco e biro. Ringrazio Beatrice, per la sorpresa che mi ha fatto e per la fiducia che mi ha accordato: ha avuto un pensiero gentile, con l'unica controindicazione che ha alimentato la mia già ingombrante vanità.

Prima di prendere il volo, come un qualsiasi pallone gonfiato, vorrei mettere un appunto qui, parlando di privacy. Dice giustamente il direttore del mio giornale che è un po' come la rucola: la si mette dappertutto. Non c'è giorno, in redazione, in cui qualcuno manchi di appellarsi alla privacy per chiedere che non venga pubblicato un articolo o siano omessi dettagli o elementi sostanziali. Tanto per dirne una, l'ex coordinatore di Forza Italia, Giorgio Pozzi, lunedì ha detto alla mia collega Gisella quanto paga d'affitto il suo partito per la sede in centro città, concludendo con la frase: "Però non lo scriva, c'è la privacy". Oggi, sempre su La Provincia, pubblichiamo un'intera pagina con le motivazioni per cui il garante proprio per la privacy respinge il ricorso del socio di Bruni, avvocato Galasso, che non aveva gradito l'inchiesta su politica e affari. L'elenco potrebbe essere lunghissimo. Qui mi limito a un'osservazione: siamo sicuri che la privacy sia sempre cosa buona e giusta?
Se i miei vicini (con cui per altro vado d'accordissimo) fossero stati meno riservati, i ladri non sarebbero entrati a casa mia, un paio di settimane fa. Ed è un eccesso di privacy che causa quelli che chiamiamo un po' retoricamente i "drammi della solitudine" (anziani o persone con problemi, trovate morte nelle loro abitazioni, giorni e giorni dopo il decesso). Senza esser così drammatici, dietro il velo della privacy si vorrebbero sovente coprire azioni non propriamente limpide. Non è un caso che "farsi gli affari propri" abbia il doppio significato di non impicciarsi ("Sai perché mio n0nno è campato cent'anni? Perché si faceva i cavoli suoi!" E non erano cavoli...), ma anche di brigare a proprio vantaggio.
Io credo che le esigenze di riservatezza privata e di pubblica trasparenza debbano sempre restare in equilibrio. Perché è giusto ci sia un limite all'invadenza (anche della stampa), ma parimenti la privacy non può essere l'unico metro di giudizio.

P.S. A pensarci bene, in nessun altro paese la privacy era tutelata più che nell'Unione Sovietica di Breznev o nell'Argentina di Videla: infatti la gente spariva e nessuno sapeva niente...
Foto by Leonora