Sono nato a metà degli anni Sessanta del secolo scorso e ho sempre considerato una sciagura il Sessantotto, associato a sentimenti e ad immagini che turbavano il bambino che ero e che tuttora, per molti aspetti, rimango: le manifestazioni, lo scontro generazionale, gli studenti in piazza, la violenza con la polizia, i manganelli, le molotov, le occupazioni di scuole e fabbriche, il sei politico, gli esami di gruppo, le assemblee infinite, il rifiuto dell'ordine costituito... Un sentimento misto di stupore e disincanto, anche perché poi molti dei protagonisti di quella stagione me li sono trovati davanti, a cavallo del nuovo millennio, cinici e spietati, ammaliati più dal potere e dal denaro che dagli ideali che professavano. Un'evoluzione che ha confermato il giudizio sommario dato a suo tempo, aggravata pure da un'altra tipologia di sopravvissuto, quella dei radical chic, che hanno mantenuto di quella rivoluzione l'involucro esterno, trasformandolo però in freddo simulacro.
Faccio un salto in avanti. Oggi. Con davanti la boa dei cinquant'anni, uomo, padre, marito.
Viaggio in auto con accanto mio figlio, maggiorenne tra poco. Non dice nulla, guarda la strada, mi domando cosa possa pensare ma non glielo chiedo: ho imparato a mio tempo che è inutile forzare lo scrigno e provo rispetto per il suo silenzio, per quello smarcarsi da me, da sua madre, persino dal ragazzo che è, per diventare un adulto.
Lui un Sessantotto alle spalle non ce l'ha avuto. In teoria è ancora in tempo per farne uno, ma non so se capiterà. Non sono un indovino e non ho le competenze né la saggezza necessaria per leggere i segni dei tempi, per capire se un tale fenomeno o qualcosa di simile potrebbe ripetersi.
Imnmaginarlo, fino a un paio di mesi fa, mi avrebbe scosso, avrei incrociato le dita o scacciato il pensiero, come avviene per evitare qualcosa di brutto.
Ora non so. A volte ho l'impressione di aver gettato con l'acqua sporca pure il bambino. C'erano sì le manifestazioni, le occupazioni, gli scontri, i figli che rinnegavano i padri, però era anche un tempo di ideali alti, di principi forti, di personaggi che hanno segnato, nel bene, la mia formazione, il modello culturale di riferimento. Non è un caso che i grandi discorsi, quelli memorabili, siano riconducibili a quegli anni. Martin Luther King, John Fitzgerald e Robert Kennedy, il Mahatma Gandhi, papa Giovanni XXIII, don Milani... Nel mio pantheon, come lo chiamerebbe David, ci sono ancora loro e fatico a trovare, nei decenni successivi, qualcun altro degno di essere associato.
Il viaggio è terminato, la meta raggiunta, parcheggio l'auto, saluto mio figlio, che prende la borsa della squadra di calcio e scende. Lo osservo camminare, grande e grosso, sorrido di sollievo pensando che è un ragazzo sensibile, a cui piace confrontarsi, capire, discutere, e mi scopro a pensare che di rivoluzione si può morire o vivere male, ma senza ideali, senza sogni, senza aspirazioni per cambiare in meglio questo nostro mondo, rendendolo più bello, più giusto, vivere alla fine è triste, noioso.
Forse ho fatto male ad archiviare il Sessantotto e più in genarale quel periodo, gettandogli sopra una colata di cemento. Forse è tempo di separare il grano dal loglio e di pensare agli ideali, a qualcosa di straordinario, a una rivoluzione non violenta, o almeno a un'evoluzione non banale, di nuovo.