La partita è amichevole, tra ragazzini che hanno compiuto appena tredici anni. I genitori avversari sono ammassati alla rete di protezione e incitano, spronano, commentano, urlano, inveiscono. Colgo spezzoni di frasi qua e là. "Dai, si capiva che rimbalzava male!". "Corri, corri, altrimenti resta a casa a dormire!". "Passala, passala che è libero!". "Ma basta! Possibile che sbagli sempre l'appoggio!".
Ficco la testa nel cappuccio per ripararmi dal vento artico che arriva alle spalle, la bolla che si crea mi permette di assistere alla scena da perfetto spettatore e mi scopro un po' innervosito a pensare: "Perché non ci vai tu in campo? Perché non metti maglietta e calzoncini e prendi il posto di tuo figlio, lì in mezzo a quel terreno gelato, dove le scarpe coi tacchetti fanno un rumore da ballerino di tip tap che anche Maradona avrebbe difficoltà a non scivolare? Cosa facevi di così grande quando avevi la loro età per permetterti ora di giudicare e sbraitare? Hai mai provato a giocarla una partita, con il fiatone, mentre tutti ti corrono incontro e tutto è appiattito, che quando ti arriva la palla tra i piedi è già un miracolo non inciampare?".
Tolgo il cappuccio e con il tepore del sole sul volto la stizza lascia spazio alla comprensione, alla solidarietà tra coetanei, loro gridano meno e io li capisco di più, ammetto a me stesso che anche io - pur pacato - non sono esente da atteggiamenti simili, cerco persino giustificazioni: "Lo fanno per il loro bene. Lo facciamo per il loro bene".
No. Crediamo di fare il loro bene, invece accade esattamente il contrario: stiamo crescendo una generazione che ha caricato sulle spalle tutto il peso dei nostri sogni, delle nostre attese. Non soltanto rispetto all'orizzonte di vita, cioè la famiglia, il lavoro, gli affetti, ma anche e soprattutto in quelle riserve indiane che dovrebbero essere lo sport, il gioco, i passatempi.
Spazi di autonomia nei quali i miei genitori neppure si sognavano di interferire, limitandosi a una regola elementare: "Pensa a studiare oppure vai a lavorare, perché a fare niente di certo nella nostra casa non puoi stare". Punto. Nonostante fossi figlio unico e dunque discretamente coccolato, mio padre non è mai venuto a vedermi giocare, mia madre nemmeno la riteneva tra le possibilità remote, così pure i papà e le mamme dei miei compagni.
Trent'anni dopo è un mondo cambiato radicalmente. Io per primo non mi perdo una partita dei miei figli, figuriamoci un saggio di chitarra o di danza moderna, anche se in quel caso mi annoio maggiormente.
Parlo per me stesso, non vorrei generalizzare, tuttavia ho la sensazione che stiamo crescendo ragazzi a cui abbiamo tolto il desiderio, concedendo loro tutto, e che di rimbalzo rischiamo di schiacciare con il peso delle nostre aspettative.
Mi consolano e sollevano un'intuizione e una constatazione.
La constatazione è che l'essere umano riesce da milioni di anni a cambiare e adattarsi, superando gli ostacoli che di volta in volta ha di fronte: lo faranno anche i ragazzi di questo tempo.
L'intuizione è conseguente al fatto che i miei figli sorridono comunque. Anzi, spesso ridono proprio e dunque sospetto che al di là dell'amore e del rispetto che mi portano, in realtà quando guardano oltre la rete o sulle tribune, io e gli altri genitori dobbiamo sembrargli tanti scimpanzé o bestie curiose, che sbraitano, gesticolano, inveiscono credendosi tanti Maradona, mentre al più hanno vinto una volta a palla avvelenata, quando gli altri erano in bagno.