domenica 30 gennaio 2011

Lo spirito dei comaschi (una storia)


Non è mia abitudine, di questi tempi, mischiare ciò che scrivo qui con ciò che si può leggere sul giornale. Faccio un'eccezione, poiché la storia che ho raccontato oggi, nella rubrica che tengo ogni sette giorni, credo meriti considerazione. E' la vicenda di un ragazzino arrivato negli anni Sessanta a Como dalla Sicilia. Suo padre laggiù era un imprenditore. Si ammalò e per curarsi, per avere una speranza di vita abbandonò tutto, portandosi appresso la famiglia. Di soldi non ce n’erano e nonostante avesse voglia e talento per studiare, quel cucciolo d’uomo si ritrovò in tintoria. «Il primo giorno - ricorda ora - fu terribile. C’era vapore dappertutto, gli anziani mi diedero un secchio di colore con dentro un mattone, dicendomi che era sapone e che dovevo scioglierlo, di non smettere assolutamente, per nessun motivo. Io sudavo e sudavo e dopo un’ora, non vedendo nessuno, cominciai a urlare: "Non si scioglie! Non si scioglie!". Le risate per lo scherzo seguirono i rimbrotti e i "Ma va là, terùn". Furono però quegli stessi uomini, settimane dopo, a parlare con il padrone della tintoria, a dire che avevo dovuto interrompere gli studi di geometra, che mio padre era malato, che meritavo un’opportunità. Così mi fece chiamare e mi disse: "Tu da domani al mattino vai a scuola e vieni a lavorare al pomeriggio. La sera, se hai bisogno di studiare, invece che alle nove finisci prima, non c’è problema. Ma se sei bocciato, il patto è rotto e ricominci a lavorare come tutti gli altri". Lo feci. Al mattino ero tra i banchi, già con nella cartella il panino da mangiare al volo per pranzo, per essere subito dopo in fabbrica. Non solo a volte uscivo prima, ma mi ritrovavo spesso anche soldi in più, in busta. Così sono potuto andare all’università. E se voglio bene a questa città, è per quelle persone dure, coriacee, che ti facevano fare la gavetta ma poi andavano dal padrone a perorare la tua causa. Per quel padrone che guardava la lira eppure sapeva dare valore a chi lo meritava».
Quel padrone di cognome faceva Cavallasca, la tintoria era la Voltiana di via Giulini, in centro città, e quel ragazzo si chiama Beppe, è un padre di famiglia, un professionista capace e un uomo stimato, per primo da me. Lo ringrazio, perché senza fronzoli ha saputo spiegarmi meglio di tutti gli altri lo spirito dei comaschi. Uno spirito da non dimenticare, specie ora, che pare ridotto a un lumicino.


Foto by Leonora

venerdì 28 gennaio 2011

Il pollo non si crede nessuno


Nel paese c'è una casa. La mia. E nella casa c'è una cucina e nella cucina una cappa d'aspirazione e sulla cappa d'aspirazione decine di piccole calamite dalle forme strane e mille colori. Quella che c'è più in alto, a sinistra, è un quadrato di plexiglass, cinque centimetri per cinque, con dentro una scritta e una fotografia. Nella fotografie due maialini, con le orecchie tese, la teste e le zampette che sbucano da sopra una staccionata. Sotto, una dozzina di parole e un punto esclamativo: "L'animale è il miglior amico dell'uomo: non fa domande e non critica!". Su quella frase m'è caduto l'occhio per la prima volta stamattina. Ho pensato ch'è la più grande stupidaggine ma sono contento che qualcuno l'abbia messa lì, perché per reazione mi ha fatto riflettere, ponendo luce su un'ovvietà geniale, altrimenti destinata a rimanere in ombra. Questa: il fare domande è proprio ciò che distingue l'uomo da tutti gli esseri viventi che conosciamo. Le risposte le possono trovare tutti, dal cane all'aquila reale, dal delfino al ratto, dal rinoceronte al pollo. La loro esistenza è una continua risposta alle domande di cibo, acqua, riproduzione, riparo... Noi a tutto ciò aggiungiamo proprio il fare domande, il porsi interrogativi, scintilla di un circolo virtuso che porta a fornire ulteriori risposte che generano a loro volta altre domande e così via. Lo stesso vale per la critica, ch'è uno sprone a migliorare, a separare il buono dal gramo, a salire un gradino. Ecco perché non sposterò la calamita, perchè quei due maialini dalla faccia simpatica mi ricordano come mai non sono un asino o un pollo io. Forse.



Foto by Leonora

mercoledì 26 gennaio 2011

ComoBlog (liberate il lurker ch'è in voi)


Come la prima sera, di ormai tre anni fa, con gli amici del Comoblog, a scoprire attorno al tavolo un mondo intero. Questa volta siamo stati al birrificio e dei reduci della prima ora c'eravamo solo io, Elena, Giovanni, Gaspar, Andrea e Luca, ch'è arrivato a pasto ormai concluso, ma quando entrava in scena il meglio, cioè il parlare di ciò che ognuno di noi è e di come vede il futuro. Non starò ad elencare i contenuti, limitandomi a precisare che ho avuto più spunti di riflessioni in mezz'ora di dialogo fitto fitto che in duemila ore di sguardo fisso al video. Qui vorrei piuttosto ribadire stima che ho per quelle persone che percorrono strade diverse, per molti aspetti parallele alla mia e che dunque mai di persona s'incontrano, se non appunto in queste circostanze. Ma non è ritrovo di sconosciuti, perchè grazie a questi accidenti di apparecchi il virtuale diventa reale ogni giorno e i nostri sono fili intrecciati a lungo, spesso all'insaputa l'uno dell'altro. Sentire Andrea che parla delle gare di sci è stato naturale, avendolo seguito in questi anni dai resoconti sul suo sito. Lo stesso per Luca e per Elena e per Giovanni e per Gaspar, con cui rimango sempre in contatto, attraverso la traccia che di loro tracciano. Ho imparato una parola nuova (nuova per me) l'altro giorno: "lurker". Colui o colei che segue un forum, un blog o una comunità virtuale e ne legge con grande attenzione i messaggi, ma non ne scrive o ne invia di propri. Io sono così. Seguo i miei amici su Internet, tramite i blog o anche Facebook, ed è raro che lasci un commento, ma li accompagno lo stesso passo passo e quando penso di poter essere utile mi faccio vivo oppure, quando l'incontro, come questa sera, da virtuale diventa in carne e ossa e tutto il resto, non comincio mai da capo, poiché è come se - spesso senza saperlo - ci fossimo tenuti per mano per un sacco di tempo.

P.S. Stasera poi è venuta anche Frida, che ho scoperto essere la responsabile per l'Italia di Wikimedia. Non la conoscevo ma l'avevo già vista, qualche giorno fa, tra le foto della mitica Leonora (ne pubblico qui una). Anche in questo caso dunque, grazie ai blog, non partivo da zero.

martedì 25 gennaio 2011

Il pensiero lungo


Oggi niente discorsi, ricordi, rimorsi. Solo un pensiero su questo fiato corto che abbiamo, che ho, aspettando ogni sera il mattino e il mattino che sia sera, per tornare a casa e sbarrare la casella su un altro giorno passato indenne, da sopravvissuto. Non costruiamo più cattedrali perché ce ne manca il tempo, perché viviamo nell'era del cotto e mangiato, del piatto pronto, possibilmente al microonde, che non devo neanche sporcare pentole e fornello. Abbiamo scordato, ho scordato che il passo dopo passo non è fine a se stesso, ma strumento per raggiungere la meta, il traguardo, un obiettivo altro, alto. Ora neanche lo fissiamo, lo fisso. Preferisco ignorarlo, confidando che il quadro verrà da sé, colpo di pennello dopo colpo di pennello, senza idea né canovaccio. Chi sarò nel 2020, chi voglio essere? Non ci bado, confondendo la saggezza della vita accolta e accettata come dono con la stoltezza di colui che mette in naftalina la testa, arrabattandosi con le briciole del pane quotidiano. Abbondiamo di tattica, è la strategia che fa difetto. L'occhio vigile e il microscopio puntato sul dettaglio, ci consegnano ciechi quando si tratta di mettere a fuoco il generale (che in greco, inteso come il capo dell'esercito, guarda caso è lo "strateghòs").

Non è una riflessione che ho fatto per caso. L'ho pensato oggi, terminata una riunione di lavoro, in cui si parlava tra l'altro di futuro. Mi ronzano in testa concetti letti chissà dove, chissà quando. Una potrebbe essere questa: "Alla fine vincerà chi ora sta ragionando sul lungo periodo, al mondo tra dieci anni almeno". Vorrei finire questo post come quello che ho scritto cinque giorni fa: "Io mi sto preparando, è questa la novità".

P.S. Domani parlerò anche di questo con gli amici del ComoBlog, nella cena conviviale organizzata al birrificio.


Foto by Leonora

lunedì 24 gennaio 2011

Tutto è vanità


Lunga è la notte e anche quest'inverno non si toglie di mezzo. Nato a novembre, non disdegno nebbia e grigio, ma queste giornate fredde, corte, questi colori pallidi e il buio, presto, cominciano a opprimermi. Guardo il prato, la brina che nei coni d'ombra resiste fino a metà pomeriggio, e fatico persino a immaginare lo smeraldo e i rigoglìo di vita che c'è nei mesi più belli dell'anno. Proprio oggi, mentre avevo brividi di freddo - avendo lasciato la giacca in auto - e raggiungevo di corsa la porta di casa, pensavo a quei giorni solitamente di giugno, in cui il primo caldo soffocante, l'afa, non concedono tregua che qualche ora di notte, lasciando spalancate le imposte e scoperto il letto. Sembra così distante, così ampio l'arco di ponte che ci separa da quel sole a picco. Lo aspetto. E prima ancora aprile, maggio, le settimane che odorano di erba tagliata, di fieno. Oggi è il compleanno di Elisa, dopodomani di David, a inizio febbraio toccherà a Elena e a molte persone che hanno per me un affetto sincero, che ricambio. Anche chi passa da qui, da questo blog, diventa ogni giorno più numeroso. Rosa, Laura, Mario, Felipegonzales, Maria, Caterina... tanto per nominare i più recenti, che non sono stati in silenzio, che hanno fatto un cenno, anche solo con la mano, per dire: ti seguo, ci sono. Si aggiungono agli amici storici, ai primi sostenitori di questi post, che non hanno bisogno di certificati di esistenza in vita e so che mi sostengono idealmente con curiosità e cuore buono. Sono presenze discrete, gentili a tal punto da perdonarmi quando scrivo qualcosa che stride o è noioso. E' per rispetto verso loro, specialmente verso chi non conosco, che cerco di essere sempre sincero, di offrire ciò che ho di più caro: me stesso. A volte il risultato è un pomeriggio d'estate, con brezza e bevande fresche da bere in giardino, altre volte un mattino di febbraio, pozzanghere gelate e fumo basso, che affanna il respiro. Il complimento più bello, in questi giorni, me lo ha fatto Jenny, che dandomi del lei mi ha scritto: "Mi piace il suo punto di vista: amo chi induce alla riflessione, più che imporre la direzione verso la propria opinione". Non so s'è davvero così: ne sarei lusingato. Di più, sarebbe un vanto.



Foto by Leonora

domenica 23 gennaio 2011

Accompagnato per mano


Giacomo se n'è già andato a letto ed è imbronciato: s'è ammalato proprio oggi, nel giorno del suo quattordicesimo compleanno. Raffreddore e febbre devono essere il suo modo inconsapevole di santificare le feste, visto che a parte quest'ultimo, i tre Natali precedenti li aveva passati a prova di termometro. Anche se a lui stasera non pare (persino il pur saggio profeta Giona s'indispettì gravemente quando gli si seccò la pianta di ricino che lo metteva dal sole al riparo) è un ragazzino fortunato. Ma fortunato sono anch'io, nato in una famiglia che mi ha fatto sentire innanzi tutto accolto, amato, insegnandomi il bene con l'esempio. Quando mio padre tornava la sera, non voleva essere disturbato, specialmente al momento del telegiornale, che per lui era una sorta di vangelo laico. "Shhh, silenzio" era il suo mantra, anche quando nessuna aveva aperto bocca: lo intimava a scopo preventivo. Poi però trovava il tempo di chiacchierare con me, di ascoltarmi, di discutere, proprio come se fossi un adulto e non un bimbo di sette o otto anni. Non ho mai ricevuto dalle sue mani un regalo di compleanno (era mia madre che ci pensava, con più frequenza quand'ero adolescente, perché prima c'era da costruire la casa e in quei tempi per noi era già un lusso non risparmiare su ciò che mettevamo in pentola e poi nel piatto: per i regali non c'era testa, tranne che a Natale, che infatti era assai più atteso che adesso). Dalle mani di mio padre non ho mai ricevuto un regalo, dicevo, ma il regalo più bello me lo faceva ogni giorno. C'è una frase che prendo a prestito da ciò che mi ha scritto oggi un'amica, di cui per rispetto conservo l'anonimato, e che parlando dei suoi, di genitori, ha detto: "Erano troppo impegnati a creare per noi un futuro, scordandosi di accompagnarci per mano". Con le debite proporzioni ed eccezioni, potrebbe essere il manifesto di un'intera generazione di figli, i cui padri e madri sono cresciuti negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta col poco, nel gramo, e hanno creduto fosse sufficiente garantire i beni materiali che loro non avevano avuto per esaurire appieno il compito. Non escludo la loro buona fede, ci mancherebbe altro, né considero giusto sputare nel piatto dove per anni s'è mangiato. Mi limito a constatare che se questa bella casa dove vivo e gli studi che mi sono potuto permettere, grazie ai sacrifici e alle rinunce loro, non fossero state abbinate a quella capacità di ascolto, di confronto, di cui parlavo prima, sarei ugualmente ricco ma probabilmente infelice. Ecco perché spero di essere per Giacomo e per Giorgia e per Giovanni lo stesso di ciò che Anna e Gino sono stati per me: persone sagge, due genitori d'oro.


Foto by Leonora

giovedì 20 gennaio 2011

Passerà


'Ia fa. Ce la fa. Ancora. Sono pronto a scommetterlo. Ha un bel dire il mio amico Mauro che questa volta no, non la sfanga, che ha visto le carte, che il codice parla chiaro, che ormai è spacciato: me lo aveva detto anche tre mesi fa e un anno addietro, sempre la stessa storia, sempre il medesimo epilogo. Berlusconi non giungerà al capolinea per un'azione dei giudici, essendo di fatto in vigore ciò che il lodo Alfano nella forma non è riuscito a promulgare: l'impunità del leader, il riconoscergli uno status e dunque, più di un diritto, un privilegio. Nella rigida divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu, è possibile che quello esecutivo prenda il sopravvento (si chiama dittatura) oppure che prevalga sugli altri quello legislativo (capita in quelli che la vulgata corrente definisce "ribaltoni" ma anche in momenti in cui - ed è questo il nostro caso - non viene a mancare il consenso della maggioranza del popolo e il parlamento garantisce la fiducia al premier). Non ricordo invece un'occasione in cui siano stati i magistrati ad avere il sopravvento. Anche Tangentopoli, che un occhio distratto potrebbe catalogare in questa ipotesi, fu dovuta più alla latitanza della politica, all'implosione di quella classe amministrativa, che all'azione dei giudici. Bastò infatti che nuovi leader (Bossi e lo stesso Berlusconi) comparissero all'orizzonte, per archiviare in un quasi nulla di fatto il terremoto. Ecco perché dico: 'ia fa, ce la fa. Non saranno le truppe cammellate (le SS, da Signorini alla Santanché, in ordine sparso) a salvarlo, bensì il vasto gregge che lo riconosce leader e ch'è acritico nei confronti di tutto ciò che può fare, semplicemente perché non lo ha mai ritenuto un santo, bensì uno capace, uno che sa il fatto da suo. Ciò che per mezzo paese è vergogna, ignominia, scandalo, biasimo, per il restante mezzo è trascurabile vizio, se non addirittura fonte di ammirazione, indice di merito. Finché non si romperà questo equilibrio Berlusconi troverà sempre coloro che lo sorreggono e poco importa che saranno proprio loro i primi ad abbandonarlo, quando si accorgeranno che il vento è cambiato: licaoni e iene sono di regola i primi a fiutare l'odore del morto. Per ora però resta politicamente vivo e vegeto e gli giova anche il deserto totale, il più completo sbaraglio in cui si trova il campo avversario.

E io, dove sto? Campo. Cerco di difendermi, chiudendomi a riccio, non riconoscendomi in nessuno e cercando con tutte le mie forze di resistere, di non diventare come loro, di imparare a farne a meno, di ragionare con la mia testa e non per partito preso. Nel canglore di tamburi, gran casse e cannoni, cerco di distinguere i suoni più tenui, quelli che assomigliano più al convivio tra amici attorno a un tavolo e meno ai talk show in televisione. Mi sento molto Lucio Dalla nel suo "Anno che verrà" e che presto passerà e che io mi sto preparando ed è questa la novità.


Foto by Leonora

mercoledì 19 gennaio 2011

Rialzati e cammina


Nel nome ho la G dolce, ma adoro le parole con la consonante dura. Agra, grama sono due aggettivi che associo alla vita. Non la mia, ch'è stato un nascere con la camicia e anche con giacca e cravatta, pur se sono figlio d'operai, gente che ha avuto testa alta sulle spalle perché abituata a guadagnarsi il pane a forza di braccia e piegando la schiena. E' in virtù dei loro sacrifici che io posso permettermi questa vita, ch'è serena appunto perché ho imparato l'altro versante della montagna, quello in salita. Se c'è una cosa che temo per i miei figli e per la generazione ch'è loro compagna, è proprio il crescere nella bambagia, questa esistenza ovattata in cui manca soltanto il latte di gallina. Leggo un articolo dello scrittore tedesco Hans Magnus Enzenberger, che celebra i suoi fiaschi, chiosando: "Dai successi non s'impara nulla". Peggio. Spesso il successo inganna. Se guardo a me stesso, è proprio alle cadute che devo ciò che ho di buono, è nella fatica di rialzarsi che ho imparato ad avere stima di me, a non temere il buio e a godere il tempo propizio. C'è una frase che ho scritto, ormai anni fa, su questo stesso blog: è solo grazie agli scogli che l'onda riesce ad arrivare tanto in alto. Lo penso tuttora, essendone ogni giorno più convinto. Steva Jobs ha annunciato ieri di doversi ritirare a vita privata, per la necessità di curarsi dal male che lo assedia da tempo. Del suo motto per eccellenza ("Stay hungry, stay foolish") mi piace soprattutto la prima parte. Siate affamati. Anche se è la seconda che merita uno scrupolo e insieme uno sforzo di traduzione. Per me quel "foolish" sta per folli, ma mi piace tradurlo con "visionari", anche se è interessante considerare quella letterale: "sciocco, fesso, dissennato". Un'originalità che richiama comunque una distinzione dalla massa, la pecora che esce dal gregge, l'abbandono del sentiero certo. Per questo però ci vuole coraggio. Con la g dolce.


Foto by Leonora

martedì 18 gennaio 2011

Noi e loro


Non sono i bambini a far perdere la pazienza, siamo noi che non l'abbiamo con loro. Li vorremmo sempre piccoli ma li consideriamo come se fossero già fatti e finiti, maturi, adulti nonostante il calzone corto (che ora neppure si porta più, glieli mettiamo già lunghi nella culla e tranne che un paio di settimane d'estate o su un campo di calcio, ci assomigliano pure nell'abbigliamento). Usiamo lo stesso metro di misura nostro, diamo per scontato che - come per noi - ciò che è dato oggi, domani sarà altrettanto scontato, mentre per loro è diverso. Basta che ritardino di qualche settimana a fare i primi passi o a esprimere parole di senso compiuto per farci temere che non siano normali, che abbiamo qualcosa che non va e già li immaginiamo ritardati, tagliati fuori dal mondo. Esagero, ma neanche tanto. Esco dalla comodità lievemente populista della prima persona plurale, per fare qualche esempio: il mio. Domenica ho portato Giovanni alla gara di "tennis dolce", una prova del Csi in cui ti danno una racchetta di plastica e una pallina di gommapiuma e, in un campo disegnato con del nastro adesivo e non più grande di un locale di casa propria, devi fare punto, arrivando al sette prima dell'avversario. Giacomo, tanto per dire, alla sua prima gara, aveva sbaragliato la concorrenza di centocinquanta coetanei, vincendo niente meno che il torneo. Ricordo che eravamo in una piccola palestra di Guanzate e mi sentivo il padre di Lendl, di Borg, di Connors. Ieri l'altro invece sapevo che non sarebbe stato lo stesso. "Giovanni non è portato per lo sport come Giacomo" mi ripetevo, memore anche delle prestazioni non eccelse in altre discipline. In più, a differenza dei compagni, per una serie di problemi, non aveva neanche fatto uno straccio di prova, tanto che per un istante ho temuto che impugnasse la racchetta come fosse una scacciamosche o il battipanni che teniamo nel ripostiglio. L'impugnatura invece era giusta, ha comunque perso le prime due partite e siamo tornati a casa subito, lui all'inizio un po' imbronciato, ma in due minuti tornato contento di poter andare sulla macchina rossa con suo padre, che lo faceva ridere e che per quella mattina non doveva dividere con nessun altro. "Vedi Giorgio - pensavo dentro di me poi, nel pomeriggio, con quell'ostentata sicurezza smascherata soltanto dal fatto di parlare di sé in seconda persona singolare - Giovanni da bambino assomiglia a te quando avevi la sua età, più capriccioso, più scostante, meno maturo di Giacomo. Giovanni è meno portato per lo sport". Cavolate. Ci ho pensato poi, andando a letto, riflettendo appunto sull'impazienza che spesso abbiamo nei confronti dei bambini e sul considerarli già fatti e finiti alla stregua dell'adulto. E' lì, rigirandomi tra le lenzuola e inseguendo un pensiero sensato, che ho deciso di scrivere questo post. Perché l'atteggiamento non riguarda solo Giovanni, ma lo stesso Giacomo. Per lui il tallone di Achille è la matematica, anche se non saprei dire fino a che punto è un limite vero oppure una profezia che si auto avvera, avendogli ripetuto fin da quando andava alle elementari: "La matematica non è mai stata il nostro forte". Ma il nostro forte di chi? Il mio forte. Anzi, il mio debole. Magari lui sarebbe stato un genio, se non l'avessi convinto di una pseudo tara genetica che è più nella mia convinzione che nelle sue corde. Infatti Giovanni in matematica va benissimo. Vale per la testa, per il carattere, come per il fisico. Sono bastati tre chili in più messi dallo stesso Giovanni per farmelo vedere già fiacco e ciccione a trent'anni, mentre con buona probabilità tra un paio d'anni si "asciugherà" così com'è successo a Giacomo. Oppure diventerà uno stecchino quando di anni ne avrà sedici e sarà nel pieno dell'età dello sviluppo. O forse sarà ancora più enorme di come io lo immagino negli incubi peggiori. Chi può dirlo? Già, chi può dirlo è il punto. I bambini sono boccioli che pur fornendo qualche indicazione sui fiori che diventeranno, non sono compiuti e rispetto a noi adulti hanno una eccezionale capacità di adattamento, di cambiare in corsa, di trasformarsi. Le gambe storte di Giacomo, che quando univa i piedi se un cane di medie dimensioni avesse tentato di passargli attraverso lo avrebbe fatto senza nemmeno sfiorargli un ginocchio, sono diventate lunghe e dritte come un fuso. Ed è solo un esempio, per introdurre la morale finale: lasciamo che il tempo faccia il suo corso, non arriviamo alle conclusioni a tragitto appena iniziato. Se il buon giorno si vede dal mattino, prima di giudicarlo lasciamo almeno che sia arrivato mezzogiorno.


Foto by Leonora

domenica 16 gennaio 2011

Giorno inFausto


In una settimana che s'è portata appresso lutti e morti, quando ormai ero deciso a scrollarmi i cattivi pensieri, ecco un fulmine a ciel sereno, che mi ha lasciato addolorato e più ancora sorpreso. Stamane è precipitato in un dirupo Fausto Bossetti, direttore operativo dell'azienda editoriale per cui lavoro, un uomo di cinquant'anni, sempre elegante, non tanto alto, asciutto come tutti coloro che hanno passione per gli sport di fatica e un po' per costituzione, un po' per sacrificio, non gli resta attaccato un grammo di grasso. Dico sorpreso più che addolorato, perché non ero in confidenza da considerarlo amico o anche per creare le basi di un rapporto più profondo di quello che si genera scambiando qualche battuta o frase di cortesia, in una delle riunioni più o meno mensili in cui lo incontravo oppure incrociandolo semplicemente, nel corridoio. L'ultima volta che ci ho parlato per più di cinque minuti di fila, è stato prima di Natale, ma pensare che fino a ieri fosse così vitale e ora giace freddo, in attesa di esser portato al camposanto, lascia anche me di ghiaccio. La posizione che aveva, il carattere scevro da smancerie, il distacco aureo con cui trattava i vari argomenti, come se nessuna cosa lo toccasse mai, cascasse il mondo, lo rendevano per me immune da qualsiasi disgrazia che invece per i comuni mortali si mette in conto. La sua morte mi ha spiazzato. E con essa, come accade alle persone che si conoscono poco eppure ci si convince scioccamente di sapere di loro tutto, scopro aspetti che neppure immaginavo. Che avesse tre figli, ad esempio, e più ancora che il minore di essi fosse precipitato da una finestra, morendo anch'esso, quando aveva appena quindici anni, per cui il signore di mezza età che io reputavo camminare a un palmo da terra, convinto che tutto gli scivolasse via, in realtà era un uomo con un cruccio e una croce enorme, appesa al collo.

Ecco, lo sapevo, ero partito per raccontare di Giovanni, mio figlio, che oggi ho portato a una gara di "tennis dolce" e che mi ha fatto riflettere sulla fretta che noi abbiamo nei confronti dei bambini, e sono finito ancora a parlare di un fatto triste. Non ne sono dispiaciuto. Per Giovanni ci sarà un altro post, il prossimo. Per Bossetti invece il capolinea è stato oggi e voltare pagina senza in qualche modo salutarlo non mi pareva giusto, alla faccia dei pudori del caso.


Foto by Leonora

giovedì 13 gennaio 2011

Non è tutto un magna magna


Sono giorni meno limpidi di quelli appena passati, a immagine e somiglianza più del glicine ritorto che al fusto di vite o ai pioppi che fanno da sentinella al viale. Vivo in un microcosmo in cui dei fatti italiani e mondiali mi giunge unicamente l'eco. Sfoglio distrattamente i giornali nazionali, non guardo più i tg. Saranno mesi che non mi capita una bella discussione di politica. Prosegue l'opera di reciproco distacco: continuano a farsi gli affari loro e io mi convinco sempre più che senza politicanti possiamo stare davvero. Da Pantelleria a Ponte Chiasso mi pare siamo giunti al capolinea di un'epoca: quella seconda Repubblica da cui Berlusconi è incontrastato vincitore. Quando egli se ne andrà, finirà anch'essa, seppellendo pure gli dei minori che ora reggendogli il mantello oppure cercando di fargli lo sgambetto, nel bene o nel male campano di suo riflesso. Se avessi vent'anni confiderei nel ritorno della bella politica, quella per intenderci che invoca Obama quando dopo la sparatoria in Arizona in cui sono state uccise diverse persone e ferita un'eletta alla Camera dei deputati, invita l'America a ritrovare se stessa, i valori di tolleranza, di democrazia, di dialogo che l'hanno resa grande, più di qualsiasi guerra. Di anni però ne ho più di quaranta e non ci credo più. Anche se a rifletterci bene, un filo di speranza rimane ed è dovuta a questo semplice pensiero: è vero che l'ipocrisia va a braccetto della prepotenza, è vero che la brama di potere è maggiore della saggezza, è vero che il furbo fa più strada del buono, ma nonostante questa constatazione, io per primo rimango fedele agli "ideali perdenti", ma che hanno un valore assoluto, eterno. E se vale per me, certo lo sarà per qualcun altro. E tra quei "qualcun altro" magari ce ne sarà uno o due o tre che non solo condivideranno quest'idea, ma a differenza mia avranno anche la forza, l'ostinazione, la costanza di non arrendersi, di passare all'azione, impegnandosi per primi, senza paura di dannarsi o di sporcarsi le mani o del fallimento. Ora non li vedo, perché il tempo è buio, o forse perché sono io che non ho la pazienza, l'interesse di cercarli, di controllare se esistono. E questa, a pensarci bene, è la vittoria del lato oscuro della forza: farci credere che tutti uguali sono, che non essendoci speranza di cambiamento tanto vale tenerci il marcio (o il "lievemente guasto" del politicamente corretto) che abbiamo. Invece no. Scrivendolo me ne rendo conto: si resiste non smettendo di distinguere il buono dal gramo, il valore da tutto ciò che ha soltanto un prezzo.


Foto by Leonora

martedì 11 gennaio 2011

Il mare calmo


"Sei diventato cinico". Così, proprio così mi ha detto, davanti a tutti, il primo giorno dell'anno, mia madre. "Da quando non c'è più papà sei cinico". L'ho messa sul ridere, ho fatto un po' l'offeso, ci ho scherzato sopra, insieme agli altri, tutti i parenti riuniti, e anche con lei, che dopo essersi tolto quel peso (era una settimana che mi teneva il muso) ha sviato il discorso. O forse sono stato io a sviarlo, bimbo con le dita nel vaso della marmellata, ladro in flagrante, maldestro avventore che ha ridotto in cocci il vaso. E' vero, lo sono diventato. Cinico per scelta, cinico per necessità, cinico ma non spietato. Non appartengo alla schiera degli arrabbiati con i vivi, tutt'altro. Conoscere la morte, tenerla per mano, averla attesa a lungo, quand'è arrivata mi ha fatto mettere corazza e al tempo stesso liberato. Non per sempre, lo so. Il terrore tornerà ad abitare i miei pensieri, il mio corpo. Accadrà quando sarà giunta la mia ora o quella dei miei figli, se sarò così sfortunato da sopravvivere loro. Per intanto provo compassione ma la compassione non fa velo alla quiete, alla speranza, alla scommessa che ci sia un senso e un dopo. Sono più forte e insieme più fragile: certi film in cui il finale triste è scontato e che prima guardavo senza problemi ora non riesco, cambio canale, spengo. Il segno che sotto la calma piatta il mare resta agitato.

Scrivo tutto questo perché la notte scorsa è morto Vittorio, quarant'anni, coetaneo e amico del mio collega Stefano. E' stato lui a parlarmene, oggi, in un modo diretto e delicato. Non conoscevo Vittorio, ma conosco suo padre Enzo e suo fratello Andrea, il marito di Valentina, due tra le persone più belle che ho incontrato grazie a questo blog. A loro, alla moglie Veronica e alla figlia Camilla sono vicino. La vicinanza di un cinico.


Questa foto non è di Leonora. Questa foto è di Vittorio. Questa foto è Vittorio

lunedì 10 gennaio 2011

Lo stilista di Voghera


Mi rendo conto di essere più impaziente del solito, irritabile persino. Strano. Non mi manca nulla eppure in certi istanti friggo. Mi domando anch'io il motivo. L'esperienza dice che è sempre così quando accade un salto di qualità, uno scatto, un gradino per cui occorre prender la rincorsa chiudendosi a riccio. Vedremo. Oggi è un giorno particolare, che ricordo nonostante la difficoltà a far memoria delle date. Tre anni fa, poco prima delle otto del mattino, chiudeva gli occhi mio padre. Non aggiungo altro perché ne ho parlato altre volte e nulla paga più dazio all'inflazione delle emozioni. Sto scrivendo con un occhio al computer e l'altro che sbircia il televisore. Guardo "Valentino: the last empereor", un film documentario sullo stilista che, scopro, è nato a Voghera, proprio come la casalinga. C'è un aspetto che mi entusiasma e un altro che mi inquieta. Il primo è la passione per quello che fa (faceva). Il secondo è il modo grottesco con cui si ostina a voler apparire giovane. Non solo lui: tutti quelli di quell'ambiente. Abbronzature esagerate, lifting, mai un capello fuori posto. Resta per me un mistero come uomini e donne che hanno fatto del bello un culto non sappiano distinguerlo nella rugosità di un viso che però si trasforma sereno, senza voler restare aggrappati a un'idea della giovinezza che il trucco restituisce in brutta copia, una caricatura che non solo non porta traccia di ciò che è stato, ma addirittura cancella il ricordo del bello che c'era, immortalando un fantoccio. Non so perché mi sono impelagato in questo discorso. Forse perché volevo evitare di cadere nel ricordo personale e guardare loro è stato meglio, per una sera, che guardare me allo specchio.


Foto by Leonora

domenica 9 gennaio 2011

La bella figura


C'è stato un tempo in cui sapevo già leggere eppure dei fumetti guardavo solo le figure. Avrò avuto sette anni, di tanto in tanto compravano Topolino, mi divertivo un sacco ed erano storie bellissime. Ricordo che le sfogliavo a occhi spalancati e poi le risfogliavo, senza leggerle. Semmai il titolo. "Zio Paperone e l'iceberg d'oro" lo ricordo ancora adesso poichè la pronuncia era tale e quale alla scrittura: icebérg al posto di aisberg (mi succedeva anche con Shakespeare, per me Sachespeàre). Ero un bambino che le insegnanti definivano "introverso". In cucina, quando la tv si accendeva soltanto per aspettare Carosello, giocavo con i Lego o copiavo e ricopiavo i personaggi della Disney con precisione certosina. Avevo un mondo tutto mio e passavo ore nella mia stanza. Non so che fine ha fatto tutto quell'universo, non ho memoria neppure di che materia fosse composto, quali figure lo popolassero. Quel che ne resta è un'eco, un'ombra cinese sfuocata, sul muro. Però c'è stato, è da quel brodo primordiale che alla vita matura sono stato partorito. Quando penso alla vecchiaia ho la speranza di tornare all'innocenza incosciente di un tempo. "Poverino, non c'è più con la testa" diranno. Magari invece ci sarò, più beato di prima (pannolone a parte). Nell'attesa, forse potrei tornare a fidarmi più delle "figure" e meno della lettura. Comprendere a fondo i meccanismi che sottendono a un avvenimento non sempre garantisce di cogliere l'essenza delle cose, dei fatti che accompagnano l'esistenza. All'esame di teologia alla Cattolica, mi diedero da studiare un libro di Jean Claude Tresmontant. Sottolineai una frase: "Molto ragionamento e poca osservazione portano all'errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità". Non solo nei fumetti.


Foto by Leonora

sabato 8 gennaio 2011

Gli elefanti e il barometro


Il regalo più bello è stata la settimana a cavallo tra Natale e San Silvestro. Anche quelle prima e dopo, ma in quei giorni mi sono goduto la vita e la famiglia appieno. Un sacco di film visti insieme, ore di sonno infinite, a letto la sera tardi e sveglia poco prima di mezzogiorno, senza impegni, zero orologio. Qualche cosa di utile, un paio d'ore nel pomeriggio, giusto come vaccino ai sensi di colpa, il resto "otium". Poi la routine è ripresa, sette giorni consecutivi al lavoro, voglia di cominciare bene l'anno, pochi colleghi in redazione e qualche collaboratore nuovo. Per Luca un ritorno. Scriveva su La Provincia quando ero a Espansione tv. Ha scelto strade diverse, mai in discesa, cominciando spesso da capo. Altri che hanno iniziato a scrivere con lui hanno smesso, alcuni hanno preferito fare altro, per pochi fortunati è diventato un mestiere. Una storia che si ripete, quella del collo d'imbuto e della schiera che s'assottiglia per cento motivi, per mille casi del destino. Ci sono stati degli anni in cui le porte si sono aperte e bastava restare in fila qualche mese, al massimo un paio d'anni, perché il miracolo fosse compiuto. In effetti i miracolati nei giornali sono molti: una volta messo il fondoschiena al caldo sono rimasti seduti e non si spostano d'un passo, cadesse il cielo. Quando ero io l'escluso, guardavo coloro che mi sembravano aver vinto al lotto e a volte, la sera, quando andavo a letto mi chiedevo: perché non a me, cosa mi manca per non essere lì, dove devo migliorare? Ho scoperto poi, quando è arrivata, che l'unico fattore che mi faceva difetto era una botta di fortuna e se ho avuto un merito è quello di crederci sempre, anche quando non c'erano luci ma soltanto buio. Oggi è ancora peggio. Trovare un posto fisso è arduo, specie con la crisi che ha portato i giornali in passivo. E' in questo modo che, stanchi di restare alla finestra mentre tanti altri mangiano, anche i più resistenti faticano a restare aggrappati a un desiderio. Dario è solo l'ultimo della lista, uno di quelli validi, che avrebbe meritato una possibilità ma arrivato a un passo dal traguardo ha preferito mettersi per conto proprio. Gli auguro tutto il bene del mondo e che trovi il modo di realizzarsi, di inventarsi una professione da sé, aprendo magari una via che altri imboccheranno. Nel mio piccolo, per continuare a guardare con ottimismo al futuro, ho scelto un punto cardinale, una sorta anzi di barometro. Si chiama Michele ed è il collaboratore di gran lunga migliore che abbiamo. E' serio, preparato, metodico, preciso (celebre la definizione di Ferrari, quando deve "passare" un suo pezzo: "Si mette in pagina come un calzino quand'è nuovo"), eclettico, scrupoloso. L'unico tarlo che potrebbe essergli d'ostacolo è quello di tutti i giornalisti giovani e bravi, cioè il credersi arrivato, non ritenere di poter e soprattutto dover imparare ogni giorno, cominciare ad aver la puzza sotto il naso, dire "questo lo faccio ma non quello". Proprio perch'é un tipo in gamba, so che terrà a bada anche quest'insidia comune a tutti noi e che solo i grandi superano. Michele, dicevo, è il mio personale barometro per l'avvenire della professione e anche dell'azienda in cui lavoro. Se riuscirà a farcela, se troverà spazio, se sarà prima o poi assunto, allora avremo un futuro. Se invece a un certo punto lascerà perdere, se staccherà il piede dall'acceleratore preferendo dedicarsi ad altro, vorrà dire che il giornalismo è morto e professionalmente noi siamo soltanto elefanti incamminati verso il cimitero.


Foto by Leonora

lunedì 3 gennaio 2011

Le stelle non stanno a guardare


Sarà il nome di battesimo, ma George Clooney è proprio affascinante. L'ho visto stasera in una commedia curiosa, "Tra le nuvole". Capisco ci siano ragazze che preferiscono una bellezza più fresca, pulita, tipo Brad Pitt, Johnny Deep o Robert Pattinson, il tenebroso di Twilight, però George ha un sorriso, uno stile, un'eleganza che lo rendono intrigante, unico. Parentesi chiusa sull'attore (ad uso e consumo delle lettrici e dei lettori d'incerto sesso), aperta invece sui contenuti del film: la precarietà del lavoro e le cose che davvero nella vita contano. C'è una scena in cui il "tagliatore di teste" chiede a colui che ha appena licenziato: "Quanto ti hanno pagato il primo stipendio, qui, per rinunciare ai tuoi sogni?". A volte le certezze sono un macigno, una zavorra che imprigiona e impedisce di volare. Di provarci almeno. Ripenso a quel giorno in cui Giunco, il proprietario della tv dove lavoravo da dieci anni, mi chiamò infuriato nel suo ufficio e per un "delitto di lesa maestà" disse quello che pensava in quel momento, cioé che ero un buono a nulla, che non sarei mai andato via da lì perché non mi avrebbe voluto nessuno, che neanche si degnava di cacciarmi, ma che per lui ero morto. Per lui lo sono tuttora, credo. Non me me faccio un cruccio e neppure gli porto rancore. Allora sì, lui si sentiva pugnalato da me e io maciullato da lui, da un'azienda per cui sono certo di avere dato molto (ricevendo altrettanto in cambio, lo riconosco). Era anche una fase particolare della mia vita: dopo poche ore sarebbe morto mio padre e quello era il momento peggiore, quando sei certo della fine a non del modo in cui essa avverrà e questa incertezza è tremenda più del dolore per il distacco. Oggi è diverso, guardo a quell'episodio con gratitudine, per due aspetti almeno. Primo: è stato un recidere un cordone ombelicale a cui altrimenti sarei rimasto attaccato a lungo, senza possibilità di prendere il volo e nemmeno di esprimermi al meglio, parcheggiato in una sorta di limbo. Secondo: pungolò il mio orgoglio e mi fece orientare tutte le risorse di cui disponevo per trovare un nuovo posto. Sono stato fortunato: ho trovato una persona che ha creduto in me, che non mi doveva nulla né mi conosceva bene, ma si è fidato di quello che vedeva e mi ha presentato agli unici referenti che potevano portarmi dove ora felicemente sono.

Lo scrivo perché nei loro confronti ho un senso di gratitudine sconfinato. Ciò non significa che non ragioni con la mia testa, che offra obbedienza cieca, astenendomi da decisioni autonome e giudizio critico: "Preferirei di no" sono tre parole che porto ovunque con me, sempre pronto a metterle in pratica, s'é il caso. Ma perché sono arrivato a raccontare tutto questo? Ah, già, per il film che ho visto. E perché a volte temo di aver perso quella voglia di riscatto, di rivincita, che spinge a migliorarsi sempre, a non sedersi sull'alloro. L'ho scritto già in uno dei quattrocento post che precedono questo: chi ha tutto non si muove. Per limitarsi a guardare le stelle c'è sempre tempo.


Foto by Leonora