Lo spunto me l'ha dato una chiacchierata tra amici, in cui si sosteneva che esistono libri che non si leggono, bensì si rileggono. "Ho appena riletto I Miserabili...", "Quest'estate ho riletto Guerra e Pace...". Un modo per tirarsela insomma. Il tarlo però m'è rimasto: io, pensavo, "Guerra e Pace" non l'ho mai letto. Di più: i russi non li sopportavo proprio. Iniziato qualcuno, finito nessuno. Noiosi. Lunghi. Un po' come le barbe degli stessi autori. De "I fratelli Karamazov" non ho mai oltrepassato le cinquanta pagine, "Guerra e Pace" mi stroncava addirittura prima, con tutte quegli incisi in francese e la cronaca minuziosa di un ricevimento barboso, senza nemmeno la possibilità di capire i protagonisti, in quella selva di nomi da far invidia alla foresta amazzonica, altro che i bei boschi di betulla, con filari ordinati, che pur crescono a casa loro.
Stavolta è stato diverso, a conferma d'una teoria che - dopo anni d'esperienza - considero un assioma assoluto: i libri ti chiamano loro. Puoi iniziarli mille volte ma finché non sei pronto, finché non si realizza quella congiunzione astrale perfetta tra te e loro, rimarranno sempre uno scoglio. "Guerra e Pace" mi ha tenuto compagnia durante tutte le vacanze in Sardegna, quattro volumi che mi hanno appassionato, un intero universo contenuto in mille seicento pagine, in cui Tolstoj riesce a trattare tutti i temi che interessano l'uomo, al di là dello spazio e del tempo. Il risultato è un capolavoro, che costituisce a sua volta la base per opere magnifiche, che come polloni da un albero sono cresciuti sotto le sue fronde, ricavandone linfa e nutrimento. Penso a Mario Rigoni Stern o a Primo Levi, al tema della fuga, ma anche a quello della felicità e infelicità imperfetta. Avrei voluto il computer con me, per appuntare le emozioni, i sentimenti che di giorno in giorno scaturivano dalla pagine lette. Ora è tardi: di quella brezza fresca è rimasto un vento lieve, qualche folata ch'è parente lontana dell'impatto di quei giorni. Pazienza. Ricordo qui solamente due o tre schegge di memoria. La varietà dei personaggi, ad esempio. La capacità di Tolstoj di farceli sentire vicini e lontani ognuno in egual misura, senza mai dividere il cattivo dal buono, come poi è nella vita, in cui ciascuno contiene in sé sia l'angelo sia il demonio. E poi il cambiamento con lo scorrere degli anni: anch'io, esattamente come i protagonisti, sento di essere diverso rispetto al Giorgio che ero e probabilmente a quello che sarò, perché la vita è così e se - generalmente - si banalizza, traendo d'un uomo un tratto caratteristico, in verità sono talmente differenti gli elementi che soltanto un libro così ben scritto può avvicinarsi alla realtà e dire non il finto, bensì il vero. Mi sono sorpreso più volte, man mano che leggevo, nel notare in questo o quel personaggio me stesso, ma anche i miei amici, i conoscenti, i colleghi. E ancor oggi, che pur ho finito di leggerlo da un pezzo, non c'è discorso di famiglia o di lavoro in cui riesce ad evitare di rimandare a questo o quell'episodio del libro. Prima o poi, giuro, dovrò rileggerlo.