Non sono mai andato volentieri a scuola. All'asilo sì e anche all'università (giorni d'esame esclusi). Alle elementari, alle medie e al liceo no. Ricordo che mi pesava tutto, in particolare alzarmi presto, studiare al pomeriggio e l'essere messo alla prova ogni giorno, con interrogazioni e compiti in classe che mi mettevano angoscia da quando mi svegliavo fino a che m'addormentavo, a letto.
Ho avuto qualche insegnante carogna, qualche altro impreparato e cialtrone, la maggior parte bravi uomini e donne, con qualcuno veramente in gamba, che mi ha trasmesso insieme alle conoscenze pure il carburante per la mia curiosità innata.
Ora quei giorni rimossi li ripercorro per interposta persona. Persone, plurale: i miei figli. Soprattutto Giacomo, giovane liceale alle prese con il salto triplo carpiato dalle medie alle superiori, a cui non posso imputare un cattivo impegno. Potrebbe fare di più, è ovvio, ma nel complesso si applica assai più di quanto facessi io. Peccato che nel frattempo la scuola sia diventata più esigente, specialmente la sua, ch'è anche la mia, ma cambiata parecchio.
A volte, lo ammetto, rimprovero a me stesso di aver lasciato che il caso decidesse tutto. Per me non c'è mai stata alternativa al servizio pubblico e non me ne sono mai pentito. Fino a qualche giorno fa, tirando le somme del primo quadrimestre e intravedendo le nubi scure del secondo. "Forse alle medie o anche alle elementari potevo scegliere per lui un percorso diverso, forse lo avrebbero seguito di più, forse avrebbe fatto meno fatica adesso...". Pensieri che mi arrovellano e anche se non esistono controprove - o forse proprio perché controprove non esistono - il tarlo del dubbio scava profondo.
L'altro giorno, tornando da un doppio colloquio, dopo aver parlato con due professoresse brave ma inflessibili, mi sono sorpreso a maledire le insegnanti che alle elementari e alle medie potevano essere più dure, severe, preparandolo meglio. Un pensiero ch'è durato tutto il tragitto da scuola al lavoro e poi nel resto del giorno, fino a che ho ripreso la macchina per tornarmene a casa ch'era già tardi, con tutt'attorno fanali e buio. E' lì che ho ripensato a Giacomo e a quanto egli sia orgoglioso ma pure sorridente, sereno.
Sì, è vero, forse le maestre non lo hanno bacchettato a dovere quando scriveva a zampa di gallina e si fa fatica a leggere ciò che scrive ancora adesso... Sì, è vero, forse qualche professoressa delle medie è stata troppo buona e non l'ha tirato grande come si fa con i cipressi ingabbiati dai pali di legno: dritto come un fuso. Forse sì, è vero anche questo, persino le insegnanti più arcigne non lo sono state abbastanza... Però... Però Giacomo è una ragazzo solare, limpido, un cuor contento. Al diavolo tutti i cattivi pensieri e le angosce del genitore premuroso che sono, opposto esatto (e anche un po' vigliacco) dello studente lavativo che ero. Voglio che lui riesca negli studi, ma non a scapito di ciò che nella vita conta davvero. E se ha bisogno di tempo per maturare, quel tempo glielo concederò, anche perché non scordo di averlo ricevuto per primo io.
Foto by Leonora
Venti righe. Indro Montanelli sosteneva che in venti righe si può raccontare tutto. Bastano tre parole invece per spiegare le ragioni di questo blog: comunicare, in libertà. Per il resto, vale per me ciò che scrisse Jorge Luis Borges, "I miei limiti personali e la mia curiosità lasciano qui la loro testimonianza".
martedì 28 febbraio 2012
sabato 25 febbraio 2012
Madrid, città indecisa che sbadiglia
Una rondine non fa primavera, ma venti gradi, sole e cielo limpido sì. Mi godo questo sabato metà dentro casa (a mandare mail e riordinare le idee per la settimana che verrà) e metà fuori, a veder Giacomo che gioca e sistemando il prato, disperdendo la terra sollevata a mucchi dalle talpe e strappando i ceppi di erba spinosa, che in questa stagione di sbadigli è l'unica che cresce florida.
Una settimana fa ero alla vigilia della partenza per Madrid, che si sarebbe rivelata non la città incantevole che avevo visitato una quindicina di anni fa, però fa ancora la sua bella figura. Allora a renderla magica contribuivano le luci di Natale e un'atmosfera di attesa, essendoci andato a inizio dicembre. Ma non era solo quello. Madrid e la Spagna parevano un fiore che sbocciava, un prato rigoglioso che per molti anni aveva atteso la primavera e finalmente era arrivata. "Arriba Espana" sembrava di leggere sui muri, tra le case, nelle piazze, nei locali affollati di gente che beveva "tinto" e assaggiava "tapas". Oggi quell'effervescenza, quel rigoglìo sembra non esserci più. La città è ancora ricca, potente, ordinata, pulita, eppure grigia, come sospesa tra una spinta che non c'è più e il timore di tornare ciò che per decenni è stata: una bella addormentata, indolente e pigra. Forse però il mio punto di vista è parziale, falsato dal periodo troppo breve e da una prospettiva sfuggente.
Foto by Leonora
Una settimana fa ero alla vigilia della partenza per Madrid, che si sarebbe rivelata non la città incantevole che avevo visitato una quindicina di anni fa, però fa ancora la sua bella figura. Allora a renderla magica contribuivano le luci di Natale e un'atmosfera di attesa, essendoci andato a inizio dicembre. Ma non era solo quello. Madrid e la Spagna parevano un fiore che sbocciava, un prato rigoglioso che per molti anni aveva atteso la primavera e finalmente era arrivata. "Arriba Espana" sembrava di leggere sui muri, tra le case, nelle piazze, nei locali affollati di gente che beveva "tinto" e assaggiava "tapas". Oggi quell'effervescenza, quel rigoglìo sembra non esserci più. La città è ancora ricca, potente, ordinata, pulita, eppure grigia, come sospesa tra una spinta che non c'è più e il timore di tornare ciò che per decenni è stata: una bella addormentata, indolente e pigra. Forse però il mio punto di vista è parziale, falsato dal periodo troppo breve e da una prospettiva sfuggente.
Foto by Leonora
venerdì 24 febbraio 2012
San Tommaso (d'Aquino) sul metrò
Nel vagone della metro guardo una famiglia, padre madre e due figli piccoli, fratello e sorella. I bambini si assomigliano tantissimo. Non soltanto loro. I bambini si assomigliano tutti, meno anni hanno e più sono simili. Ci si differenzia con l'età. Trovare un adulto identico all'altro è arduo, mentre superato un certo limite il processo è inverso: da anziani i caratteri somatici tornano a uniformarsi.
Ci avete mai pensato?
Forse non è un caso. Immaginiamo l'esistenza sempre in rettilineo, dal meno al più e dal più al meno, mentre potrebbe essere una parabola o un cerchio in cui i due opposti coincidono e la distanza maggiore è quella che sta nel mezzo.
Non so perchè riflettessi su queste cose mentre i vagoni sfrecciavano in quell'incavo di terra puzzolente e caldo. Credo stessi cercando un punto a cui appoggiarmi per non cadere nell'illusione che attorno a noi sia tutto vuoto, che non esista un senso al nascere e al morire e al companatico tra queste due fette di pane tostato.
Che per un istante tutto mi sia stato chiaro, almeno lì, in metropolitana, è un dato di fatto. Anche se adesso è difficile mettere nero su bianco emozioni che si comprendono prima con il cuore e solo poi, se si è fortunati, con l'intelletto.
Cosa c'è dopo? Cosa ci aspetta al termine dei nostri giorni, oltre questa terra tonda che trottola e schizza via nell'universo? Non se lo chiede solo Celentano e credo che la risposta non spetti soltanto ai preti, che pur sono tra i pochi - forse gli unici - che ne parlano. La risposta al mistero più grande è scritta dentro noi, pur se non la vediamo. O forse la vediamo, nei volti simili di un bimbo o di un nonno, ma non sappiamo coglierla, abituati come siamo ad andare di fretta, avanti e indietro, senza fermarci nemmeno su una carrozza del metrò, mentre una sola immagine ci dice più che l'opera omnia del dotto San Tommaso (e non Sant'Agostino, come avevo scritto in principio) e delle sue cinque prove circa l'esistenza di Dio.
Foto by Leonora
Ci avete mai pensato?
Forse non è un caso. Immaginiamo l'esistenza sempre in rettilineo, dal meno al più e dal più al meno, mentre potrebbe essere una parabola o un cerchio in cui i due opposti coincidono e la distanza maggiore è quella che sta nel mezzo.
Non so perchè riflettessi su queste cose mentre i vagoni sfrecciavano in quell'incavo di terra puzzolente e caldo. Credo stessi cercando un punto a cui appoggiarmi per non cadere nell'illusione che attorno a noi sia tutto vuoto, che non esista un senso al nascere e al morire e al companatico tra queste due fette di pane tostato.
Che per un istante tutto mi sia stato chiaro, almeno lì, in metropolitana, è un dato di fatto. Anche se adesso è difficile mettere nero su bianco emozioni che si comprendono prima con il cuore e solo poi, se si è fortunati, con l'intelletto.
Cosa c'è dopo? Cosa ci aspetta al termine dei nostri giorni, oltre questa terra tonda che trottola e schizza via nell'universo? Non se lo chiede solo Celentano e credo che la risposta non spetti soltanto ai preti, che pur sono tra i pochi - forse gli unici - che ne parlano. La risposta al mistero più grande è scritta dentro noi, pur se non la vediamo. O forse la vediamo, nei volti simili di un bimbo o di un nonno, ma non sappiamo coglierla, abituati come siamo ad andare di fretta, avanti e indietro, senza fermarci nemmeno su una carrozza del metrò, mentre una sola immagine ci dice più che l'opera omnia del dotto San Tommaso (e non Sant'Agostino, come avevo scritto in principio) e delle sue cinque prove circa l'esistenza di Dio.
Foto by Leonora
mercoledì 22 febbraio 2012
Father and son
Due giorni a Madrid con Giacomo, un regalo di Natale goduto a febbraio. Padre e figlio insieme, poche chiacchiere per un'intimità sazia di sguardi più che di parole; l'essenza delle cose si coglie anche in silenzio, mentre si cammina, si guardano i negozi, si viaggia in metropolitana, si mangia. Tendenzialmente da McDonald.
Siamo stati bene, senza ansie, senza recite, senza fretta, venendoci incontro con reciproco riguardo, non facendo pesare all'altro nulla. Si è stupito per il Santiago Bernabeu, per la vista dall'aereo, per la mole del rinoceronte allo zoo, per il corteo di almeno un milione di persone in cui ci siamo imbattuti appena arrivati, la domenica. Io più di lui, vedendolo alto come me, sulla rampa di lancio della vita.
Siamo stati bene, senza ansie, senza recite, senza fretta, venendoci incontro con reciproco riguardo, non facendo pesare all'altro nulla. Si è stupito per il Santiago Bernabeu, per la vista dall'aereo, per la mole del rinoceronte allo zoo, per il corteo di almeno un milione di persone in cui ci siamo imbattuti appena arrivati, la domenica. Io più di lui, vedendolo alto come me, sulla rampa di lancio della vita.
mercoledì 15 febbraio 2012
La rivoluzione incompiuta (e la pancia piena)
Salto a pié pari San Valentino, anche perché sono stato romantico quanto una scatola di pomodori pelati scaduti da un anno, rovinando quel poco d'atmosfera che c'era. Tu chiamala se vuoi esperienza.
Una boccata d'aria fresca, dopo una giornata di decisioni ardue, l'ho avuta invece questa sera, al birrificio di Como, dove i blogger di Como e dintorni si sono riuniti attorno alla tavola. Era una mensa lunga, forse troppo, con conseguente difficoltà a chiacchierare con tutti. Con Elena, Mauro, Giovanni e Frenz ho parlato a lungo, con gli altri nulla e mi spiace perché sarei stato ad ascoltare tutti, in particolare i due Luca (Zappa e Mascaro), Gaspar e Andrea. Pazienza. Ci rifaremo in qualche altra circostanza, magari prendendo armi e bagagli (tradotto: smart phone, iPad e un trolley, massimo) e andando insieme al prossimo State of the net di Trieste.
Un passaggio però devo farlo, per mettere in paragone il primo Pizzablog comasco, nel novembre di ormai cinque anni fa (qui trovate la prima, la seconda e la terza puntata) con il ritrovo di poco fa. Certo l'affiatamento è maggiore, il contatto iniziale s'è trasformato in amicizia autentica e questo è di per sé un dono immenso, però rispetto ad allora è quasi del tutto scomparso l'incanto del ritrovarsi insieme, con la consapevolezza di vivere un passaggio epocale, unico. Cinque anni fa ci sentivamo avanguardia fortunata di un mondo che cambiava, pionieri indomiti sulla cresta dell'onda. Oggi siamo tutti un po' più seduti, paciosi, sazi persino. Eppure... C'è un eppure che balla. E' quello della rivoluzione incompiuta, di un mondo che corre veloce e della voglia - da rinnovare ogni giorno - di restare in sella, di essere continui protagonisti dei cambiamenti e non di fermarsi al bordo della strada. La prossima volta, perciò, niente tavola imbandita, ma pane, acqua e computer tolto dalla fondina.
Una boccata d'aria fresca, dopo una giornata di decisioni ardue, l'ho avuta invece questa sera, al birrificio di Como, dove i blogger di Como e dintorni si sono riuniti attorno alla tavola. Era una mensa lunga, forse troppo, con conseguente difficoltà a chiacchierare con tutti. Con Elena, Mauro, Giovanni e Frenz ho parlato a lungo, con gli altri nulla e mi spiace perché sarei stato ad ascoltare tutti, in particolare i due Luca (Zappa e Mascaro), Gaspar e Andrea. Pazienza. Ci rifaremo in qualche altra circostanza, magari prendendo armi e bagagli (tradotto: smart phone, iPad e un trolley, massimo) e andando insieme al prossimo State of the net di Trieste.
Un passaggio però devo farlo, per mettere in paragone il primo Pizzablog comasco, nel novembre di ormai cinque anni fa (qui trovate la prima, la seconda e la terza puntata) con il ritrovo di poco fa. Certo l'affiatamento è maggiore, il contatto iniziale s'è trasformato in amicizia autentica e questo è di per sé un dono immenso, però rispetto ad allora è quasi del tutto scomparso l'incanto del ritrovarsi insieme, con la consapevolezza di vivere un passaggio epocale, unico. Cinque anni fa ci sentivamo avanguardia fortunata di un mondo che cambiava, pionieri indomiti sulla cresta dell'onda. Oggi siamo tutti un po' più seduti, paciosi, sazi persino. Eppure... C'è un eppure che balla. E' quello della rivoluzione incompiuta, di un mondo che corre veloce e della voglia - da rinnovare ogni giorno - di restare in sella, di essere continui protagonisti dei cambiamenti e non di fermarsi al bordo della strada. La prossima volta, perciò, niente tavola imbandita, ma pane, acqua e computer tolto dalla fondina.
lunedì 13 febbraio 2012
Carlo il mite
Chi ha parlato con la figlia, Monica, mia bellissima compagna alle scuole medie, ha detto che la notte l'ha passata tranquilla. Carlo Balestrini ci ha lasciati ch'era già giorno e nel mio egocentrismo la prima cosa che ho pensato, quando me l'hanno detto, è stato il sollievo di essere andato a trovarlo, qualche mese fa, insieme a suo nipote Amelio e ad Ambrogio.
Era un giorno già fresco d'autunno e di vento. Dal piano di casa tra le nuvole, nel più alto condominio di tutti i paesi attorno, si vedeva il Monte Rosa e tutto l'arco delle Alpi, in quello spicchio compreso tra il Piemonte e Lecco. Seduto sulla carrozzina - che era diventata un'appendice naturale del suo corpo quando i medici gli avevano dovuto amputare ciò che prima lo faceva camminare mentre poi ha rischiato di portarlo veloce nel baratro - Carlo non aveva perso quel sorriso disarmante e buono, d'una mitezza biblica, direi. Aveva un grande spirito, una capacità di sopportazione che non ho visto in nessun altro. Non poteva più andare a funghi, come faceva fin da ragazzo, né aggiustare auto. Il meccanico era stato il suo lavoro, prima al servizio di un ricco industriale infine per conto proprio, con il figlio Stefano.
A carte invece giocava ancora e leggeva il giornale. Non perdeva nulla di quanto accadeva nel mondo, pur se il suo pianeta era circoscritto a tre locali in croce più bagno. Nessuno però l'ha mai sentito lamentarsi, in quell'agonia ch'è durata anni ma che per lui, come mi ha confidato la volta che sono andato a trovarlo, era una benedizione. "Fin che posso sto qui" mi aveva detto, illuminandosi in un sorriso. Anche quel giorno mai un accenno agli aspetti negativi della vita da infermo. Era una lezione vivente, Carlo. Una lezione di dignità e di accettazione del poco, che stride e insieme ammonisce quanti non sanno accontentarsi neppure del molto.
Era un giorno già fresco d'autunno e di vento. Dal piano di casa tra le nuvole, nel più alto condominio di tutti i paesi attorno, si vedeva il Monte Rosa e tutto l'arco delle Alpi, in quello spicchio compreso tra il Piemonte e Lecco. Seduto sulla carrozzina - che era diventata un'appendice naturale del suo corpo quando i medici gli avevano dovuto amputare ciò che prima lo faceva camminare mentre poi ha rischiato di portarlo veloce nel baratro - Carlo non aveva perso quel sorriso disarmante e buono, d'una mitezza biblica, direi. Aveva un grande spirito, una capacità di sopportazione che non ho visto in nessun altro. Non poteva più andare a funghi, come faceva fin da ragazzo, né aggiustare auto. Il meccanico era stato il suo lavoro, prima al servizio di un ricco industriale infine per conto proprio, con il figlio Stefano.
A carte invece giocava ancora e leggeva il giornale. Non perdeva nulla di quanto accadeva nel mondo, pur se il suo pianeta era circoscritto a tre locali in croce più bagno. Nessuno però l'ha mai sentito lamentarsi, in quell'agonia ch'è durata anni ma che per lui, come mi ha confidato la volta che sono andato a trovarlo, era una benedizione. "Fin che posso sto qui" mi aveva detto, illuminandosi in un sorriso. Anche quel giorno mai un accenno agli aspetti negativi della vita da infermo. Era una lezione vivente, Carlo. Una lezione di dignità e di accettazione del poco, che stride e insieme ammonisce quanti non sanno accontentarsi neppure del molto.
domenica 12 febbraio 2012
Qui riposa Whitney Houston (e il ragazzo posato che ero)
L'hanno trovata morta, in un hotel di Beverly Hills, e l'unica aggiunta allo scarno bollettino iniziale e' che soffriva di depressione. Di Whitney Houston m'ero dimenticato pure io, anche se negli anni Ottanta, quando gli ormoni erano frizzanti quanto spumante appena stappato e sapevo immaginare - immaginare l'universo - quella donna mi affascinava sul serio. Non ero un fanatico, perche' come ho gia' scritto in questo blog, fanatico non lo sono mai stato e credo non lo saro' mai di nessuno. Non compravo ogni suo cd, non sapevo le canzoni a memoria, non sono mai andato a un suo concerto. Pero' mi piaceva, un sacco. La consideravo la donna piu' bella del mondo e segretamente sognavo di incontrarla e che s'innamorasse di me. Poco importa se era piu' improbabile di un meteorite che precipitasse in giardino, anche perche' allora il viaggio piu' lungo lo facevo con il treno delle Nord, andata e ritorno Milano, tre vie, sempre le stesse, da Cadorna a largo Gemelli, in Cattolica, avanti e indietro. A meno che lei salisse in carrozza, un giorno, a Caslino al Piano o Rovello, era impossibile qualsiasi contatto piu' ravvicinato di diecimila chilometri in linea d'aria (tranne la volta memorabile in cui venne come ospite al festival di Sanremo a cantare e bissare a forza di applauso "All at once", credo. Li' i chilometri erano solo duecento). Pero' la speranza c'era e c'e' sempre stata, anche quando il tramonto e' arrivato precoce, insieme alla droga, al disordine, le botte, il corpo gonfiato, distrutto, la risalita, le ricadute. La mente l'aveva rimossa, scordata, il cuore invece e' rimasto aggrappato al sogno di vederla, incontrarla, poterle parlare almeno una volta, per dirle che quel ragazzo era stato innanorato di lei e la considerava la donna piu' affascinante, desiderabile, bella del mondo. Ecco perche' stamattina, quando ho letto ch'era morta, ho avuto una sensazione di inquietudine, di malessere, disagio, come se non avessi fatto qualcosa che dovevo e che ormai fosse troppo tardi, che la mia pigrizia sia stata ancora una volta imperdonabile, davvero. In quei giorni, dopo il treno della Nord, avrei dovuto prendere quello dello Stato, per Sanremo, e andare a dirglielo, di persona, facendo qualcosa di pazzo. E ora che e' morta mi sento in colpa e triste, anche per questo, perche' io qualcosa di pazzo non l'ho mai fatto.
venerdì 10 febbraio 2012
I libri alla rinfusa (guai metterli in gabbia)
Accidenti. Da sabato a venerdì, un solo post: sono stato pigro questa settimana. E anche l'altra non è che sui tasti del computer mi sono spezzato le nocche delle dita (che suona bene, anche se sui tasti sono i polpastrelli e non le nocche ad esser messi a dura prova).
Leggo molto e, eccetto per lavoro, scrivo poco. In queste settimane ho via via ridotto le distrazioni - alcuni delle quali piacevolissime - concentrandomi su poche cose, ciò che a mio parere veramente conta. Vorrei e dovrei disperdere ancor meno energie, però non è bene oltrepassare una sorta di soglia fisiologica che permette di distinguere l'uomo dall'automa. A ben pensarci infatti alcune tra le cose più belle della vita sono arrivate senza che le cercassi, semplicemente trovandole durante il viaggio, senza meta. Un dono più che un progetto insomma. E' la medesima ragione per cui le migliaia di libri che decorano la mia casa non sono catalogati uno ad uno, con efficienza asburgica, bensì giacciono in ordine sparso su mensole, comodini, tavoli, scaffali... Il motivo è semplice e duplice. Primo: messi così, alla rinfusa, sono più belli. Secondo: quando ne cerco uno ne trovo per strada dieci, venti altri, così la curiosità è mai doma e la fortuna può rivelarsi in tutta la sua grazia, travestondosi da casualità mentre in fondo - lo so - sono dei segni della provvidenza.
Foto by Leonora
Leggo molto e, eccetto per lavoro, scrivo poco. In queste settimane ho via via ridotto le distrazioni - alcuni delle quali piacevolissime - concentrandomi su poche cose, ciò che a mio parere veramente conta. Vorrei e dovrei disperdere ancor meno energie, però non è bene oltrepassare una sorta di soglia fisiologica che permette di distinguere l'uomo dall'automa. A ben pensarci infatti alcune tra le cose più belle della vita sono arrivate senza che le cercassi, semplicemente trovandole durante il viaggio, senza meta. Un dono più che un progetto insomma. E' la medesima ragione per cui le migliaia di libri che decorano la mia casa non sono catalogati uno ad uno, con efficienza asburgica, bensì giacciono in ordine sparso su mensole, comodini, tavoli, scaffali... Il motivo è semplice e duplice. Primo: messi così, alla rinfusa, sono più belli. Secondo: quando ne cerco uno ne trovo per strada dieci, venti altri, così la curiosità è mai doma e la fortuna può rivelarsi in tutta la sua grazia, travestondosi da casualità mentre in fondo - lo so - sono dei segni della provvidenza.
Foto by Leonora
sabato 4 febbraio 2012
Il tempo vuoto
La consapevolezza di me. Credo sia questo il frutto di tanti pomeriggi passati da solo, da bambino, annoiandomi fino a provare un disagio fisico, a girare attorno alla casa, occhi a terra, un passo dopo l'altro, guardando le lucertole senza il coraggio di prenderle in mano (Alberto sì, ci riusciva, anche se era più piccolo di me, curioso quanto un entomologo e infatti era espertissimo anche di insetti, specialmente del cervo volante, anch'esso tenuto dal sottoscritto a debita distanza).
Il peggio era d'estate, prima che potessi andare all'oratorio feriale, dove ora vanno anche i bimbi piccoli, mentre negli anni Settanta come minimo di anni ne dovevi aver compiuti otto. Io ne avevo sette e conoscevo pochi o nessuno, abitavo dove sto ora, di case qua non ce n'erano e tutt'attorno soltanto prati, un filare di alberi di gelso e qualcuno di noce, dove si appendeva una corda e si giocava a Tarzan, ma qualche anno dopo. Prima invece il tempo pareva infinito. Lo ricordo ora, che guardo Giovanni "pirlare" da un divano all'altro, con il telecomando in mano. I programmi in tv adesso sono centinaia, mentre quando avevo la sua età ce n'era uno, il Nazionale. Due, se si conta la Svizzera, ma fino alle cinque lo schermo era un monoscopio con sibilo incorporato. Poi iniziava la tv dei ragazzi, al di qua del confine con i documentari sugli animali domestici, al di là con il Gatto Arturo, di cui ho già parlato e che di questo blog rimane il mio post di gran lunga più letto.
Tutta sta tiritera per dire che quella noia insostenibile è stata in realtà assai feconda. Oltre ad obbligarmi ad usare il cervello e a cercare amici ad ogni costo, mi ha dato ciò di cui ho scritto all'inizio, la consapevolezza di me, la realizzazione di essere un essere umano, io, proprio io, soltanto io, unico e specialissimo nell'universo.
Per fortuna Giovanni, anche con cento canali tv, i videogiochi e una schiera di pupazzi e pupazzetti da far impallidire Mangiafuoco, riesce ad annoiarsi lo stesso. Lo vedo dal suo girovagare irrequieto, dagli sbuffi, dal suo tampinarmi per combinare qualcosa insieme. "Da solo mi stanco" mi ha detto poco fa e io ho sorriso: sta diventando grande e un giorno rimpiangerà questo tempo vuoto.
Foto by Leonora
Il peggio era d'estate, prima che potessi andare all'oratorio feriale, dove ora vanno anche i bimbi piccoli, mentre negli anni Settanta come minimo di anni ne dovevi aver compiuti otto. Io ne avevo sette e conoscevo pochi o nessuno, abitavo dove sto ora, di case qua non ce n'erano e tutt'attorno soltanto prati, un filare di alberi di gelso e qualcuno di noce, dove si appendeva una corda e si giocava a Tarzan, ma qualche anno dopo. Prima invece il tempo pareva infinito. Lo ricordo ora, che guardo Giovanni "pirlare" da un divano all'altro, con il telecomando in mano. I programmi in tv adesso sono centinaia, mentre quando avevo la sua età ce n'era uno, il Nazionale. Due, se si conta la Svizzera, ma fino alle cinque lo schermo era un monoscopio con sibilo incorporato. Poi iniziava la tv dei ragazzi, al di qua del confine con i documentari sugli animali domestici, al di là con il Gatto Arturo, di cui ho già parlato e che di questo blog rimane il mio post di gran lunga più letto.
Tutta sta tiritera per dire che quella noia insostenibile è stata in realtà assai feconda. Oltre ad obbligarmi ad usare il cervello e a cercare amici ad ogni costo, mi ha dato ciò di cui ho scritto all'inizio, la consapevolezza di me, la realizzazione di essere un essere umano, io, proprio io, soltanto io, unico e specialissimo nell'universo.
Per fortuna Giovanni, anche con cento canali tv, i videogiochi e una schiera di pupazzi e pupazzetti da far impallidire Mangiafuoco, riesce ad annoiarsi lo stesso. Lo vedo dal suo girovagare irrequieto, dagli sbuffi, dal suo tampinarmi per combinare qualcosa insieme. "Da solo mi stanco" mi ha detto poco fa e io ho sorriso: sta diventando grande e un giorno rimpiangerà questo tempo vuoto.
Foto by Leonora
mercoledì 1 febbraio 2012
M&Mx (Monti a Matrix)
In cinque giorni ci viene reso l'inverno sottratto nei primi due mesi. Li chiamano i giorni della merla e quest'anno rispettano in pieno la tradizione. Alla faccia dell'effetto serra (se ne parla di meno, ha lasciato posto allo spread) e di tante chiacchiere ad uso e consumo delle fobie da piazza. Guardo cadere la neve che risalta alla luce dei lampioni. Restituisce tutta la poesia sottratta nelle ore precedenti, viaggiando a dieci allora in superstrada e impiegando non una bensì tre ore. Le orecchie invece ascoltano il primo ministro Monti, protagonista per una sera a Matrix. La calma e la freddezza è la stessa della neve: ha il piglio e anche le spigolature del professore (uno di quelli bravi, ma che devi studiare altrimenti non ti risparmiano nulla, nemmeno le brutte figure) abbinate a una competenza fuori dal comune. Si capisce che capisce, che sa di cosa parla, che ci ha pensato a lungo, ben più di quest'ultimi quattro mesi. In più sa di essere a tempo, premier a orologeria per scelta e per forza, nel senso che proprio questa scadenza che s'è dato, più ancora che gli hanno dato, è la leva che adopera per sollevare le montagne. Un magnificato Cincinnato, ecco come egli ci appare. Certo non vorremmo trovarci al suo cospetto, per essere interrogati, ma il nostro portafoglio glielo affideremmo volentieri, senza pensarci due volte. Intanto la neve cade...
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