"Ciao". Con gli occhi sgranati, sgomenti come colui che si affaccia sull'abisso dell'incomprensibile, ha speso l'ultimo barlume di lucidità e quel poco di fiato che gli restava per salutare mia madre, sua nipote. Emilio, l'ultimo dei Balzaretti, s'è congedato così, sulla soglia dei novant'anni, dopo una vita in principio grama ma poi tutto sommato serena. Gli ultimi giorni sono stati un calvario senza stazioni, con il letto unica fermata, consumandosi poco per volta, ritirandosi in un bozzolo di pelle secca e magra carne attaccata alle ossa. Conciato così non lo era stato neppure all'arrivo dei soldati americani alle porte del campo di lavoro dove si trovava prigioniero dei nazisti, settant'anni fa, in Germania. Allora erano i patimenti di un corpo assetato di vita, ora quella stessa vita che un pezzetto alla volta si staccava, i rari granelli di sabbia rimasti ancora nella clessidra.
Domani, sabato, accompagneremo Emilio nell'ultimo viaggio su questa terra, ma non è un pensiero triste quello che mi ronza nella testa. Se oltre non esiste nulla ha finito almeno di patire, mentre se la morte è un misterioso seme di rinascita sono contento perché
finalmente è tornato a sorridere, come ormai più non riusciva. A parte questo e mille altre ricordi che mi legano a lui, voglio appuntare qui traccia del regalo più bello che mi ha lasciato in questi giorni, per interposta persona.
Si chiama Silvia, fa l'infermiera, abita nello stesso paese dello zio e in queste settimane, in questi mesi, gli è stata vicina, prendendosene cura, alleviando il fastidio e il dolore delle piaghe piccole e grandi, facendo medicazioni, quando serviva, sia a lui sia a sua moglie Angelina, oppure scambiando qualche semplice parola. E fin qui non c'è nulla di strano, se non fosse per il compenso che ogni volta chiedeva: nulla. Niente, zero, non un euro, al massimo un "grazie" e anche quello bisognava pronunciarlo sottovoce, perché Silvia è buona quanto timida e farla diventare rossa è un attimo, mettendola in un imbarazzo che non merita. Ieri, mentre gli fasciava le gambe insanguinate, sono rimasto esterefatto dalla sapienza e dall'amore di quel gesto, da quella gratuità assoluta, dal donare tempo e competenza senza volere in cambio nulla, trovando gratificazione - credo - semplicemente nel fare una cosa buona, giusta. "Vorrei che i miei figli crescessero così" ho pensato, trovando in lei un modello raro quanto prezioso, mentre tutto attorno il denaro, il compenso materiale è diventato misura e metro in ogni cosa. Perché in ogni ambito, compresi quelli che dovrebbero essere intimamente
lontani dalla logica dello scambio economico (penso all'assistenza
sociale, alla medicina, ma anche all'istruzione, alla politica...) il parametro sono i soldi? Come è possibile che essi si siano presi platealmente la scena, oscurando e addirittura cancellando altre monete che invece hanno valore proprio perché non conoscono prezzo, come la reciprocità, la stima, l'ammirazione, il buon nome, la gratitudine, la riconoscenza, l'amicizia?
Sono mesi che ci rifletto e ringrazio Silvia e indirettamente Emilio per avermi dato un esempio e insieme una risposta concreta: la testimonianza che si può fare, che qualcuno, magari molti lo fanno già, senza clamore, senza appuntarsi medaglie al petto, senza bisogno di liturgie o riti benedicenti, bensì rimboccandosi le maniche, dimostrando una generosità fattiva. E per ringraziare Silvia, visto che non ha mai voluto né vorrà un euro, cerco di imitarla: lei medicando, io scrivendo, lei curando le piaghe di Emilio, io ringraziando suo padre e sua madre che l'hanno cresciuta così e facendo di questa sua virtù buona memoria.