mercoledì 26 agosto 2009

Quel che resta di buono


A settembre saranno vacanze, ma agosto è un ponte a campata lunga, in cui lavoro senza conoscere sabato né domenica. Mi aiuta la varietà del mestiere che faccio e, di contro, mi pesa la stanchezza di non staccare la spina (battuta sentita ieri al The Late Show with David Letterman: "La differenza tra Obama e Bush è che Obama va in vacanza per staccare la spina, Bush invece non l'attaccava mai").
Ieri sera, mentre in poltrona mi godevo il fresco della sera, pensavo al periodo trascorso a Espansione Tv e, come collaboratore, al Corriere di Como e alle cose che, nel bene e nel male, debbo a quei dieci anni che mi hanno cambiato la vita. Avendo un concetto sacro, quasi un culto, della gratitudine, ometto qui le ombre e tento piuttosto un elenco delle cose buone che ho imparato, gli aspetti che hanno trasformato il bravo ragazzo e le buone intenzioni che lo accompagnavano in un giornalista fatto ma non finito.
Dunque, se chiudo gli occhi e ci penso, il primo aspetto che mi viene in mente è una "forma mentis" di approccio al lavoro, al mestiere. Volente o nolente ho imparato ad essere meticoloso, ad essere preciso, ad evitare la superficialità nell'affrontare e sviluppare un argomento, a realizzare un servizio televisivo, così come un articolo di giornale. Ho imparato che la forma è importante quanto la sostanza. Ho imparato a capire cos'è una notizia e a metterla nelle prime righe, in modo chiaro, così che la possa capire anche il lettore o l'ascoltatore. Ho imparato che qualsiasi fatto può diventare una notizia, basta saperlo vedere nella giusta luce o girarlo e rigirarlo finché se ne coglie uno spunto degno di nota. Ho imparato a gestire non soltanto me stesso, ma anche degli uomini, un gruppo. Ho imparato ad obbedire (pur sforzandomi di non esser mai servo e sviluppando una serie di espedienti per esercitare un'obiezione e un punto fermo quando il limite superava la misura) e ho imparato a comandare, a prendere decisioni, ad assumermi responsabilità.
Questo e altro debbo a me stesso, ma soprattutto a chi c'era, sopra di me (Adolfo Caldarini e Mario Rapisarda) e accanto a me (tutti i colleghi, di Etv e Corriere, non necessariamente giornalisti, ma anche grafici, tecnici, impiegati). In ognuno di loro, come in me, pur in proporzioni varie e differenti, c'è del buono e del gramo. Il buono mi è piaciuto ricordarlo qui, il gramo ho sempre cercato riferirlo di persona, di volta in volta, agli interessati. Anche questo è un esercizio che in quei dieci anni ho avuto occasione di affinare e praticare a lungo.
Foto by Leonora

sabato 22 agosto 2009

Un uomo non solo è al comando


Oggi ho da raccontare una buona notizia: Mauro Migliavada è diventato direttore responsabile de L'Ordine. Sono contento per lui, che ha pagato un prezzo alto al suo non piegarsi, al tener la barra dritta, portando alle estreme conseguenze una convinzione e portandone il peso. Sono contento per lui, che s'è ritagliato la sua strada - e sono certo sia solo un inizio - dimostrando quanto vale e meritando la fiducia di un giornalista di razza e spessore, a un fuoriclasse della nostra professione, qual è Sandro Sallusti. Auguro a Mauro la miglior fortuna e anche a Sallusti, che non conosco personalmente, ma giudico dal lavoro che fa, da quello che vedo e che avrà un compito arduo, a fianco di Feltri a Il Giornale, rimanendo anche il direttore editoriale de L'Ordine.

Lo dicevo oggi a qualche collega, in redazione: ancor oggi, ad oltre un anno dal mio primo giorno al giornale, ogni volta che entro a La Provincia rimango stupito dalla libertà che c'è, da quella tradizione giornalistica che tutti lì hanno del "c'è una notizia, si pubblica". Cosa c'è di strano? Molto. Poi c'è la linea editoriale, poi c'è una gerarchia che detta il passo e il confine tra ciò che è degno e ciò che invece merita meno, ma la notizia rimane sempre al centro. Di mio cerco di metterci l'entusiasmo, la passione, nella convinzione che tra un buon e un cattivo giornale il discrimine lo faccia questa domanda: sarei disposto a spendere un euro per comprare questo giornale? Se la risposta è "sì" non è lavoro sprecato.
Foto by Leonora

giovedì 20 agosto 2009

La parte dell'occhio


Il terrazzo è lo stesso di ieri e pure le ombre d'albero, il buio, l'aria fresca. L'umore no, i pensieri nemmeno. Al nero si sono aggiunti i colori e persino la corte in cima alla collina dove viveva mio bisnonno mi sembra più illuminata, suggestiva persino. Peccato che quando verrà giorno perderà ogni magia, tornando ad essere quelle quattro mura male riassettate, mezzo disordine e l'altro mezzo incuria. Da quest'angolo, a quest'ora, pare un borgo di Toscana o d'Umbria e mi chiedo come mai in tante parti di penisola siano riusciti a conservare al meglio cascinali, vecchi fabbricati, paesi interi, mentre qui, nella locomotiva d'Italia la tradizione è stata così spesso spazzata via. Ad essere onesti però, non è che brillassimo per buon gusto e garbo e stile anche prima. L'eleganza del centro storico di Como, la città murata, mi dà l'impressione del retaggio di una civiltà passata e scomparsa da tempo, lasciando quell'unica traccia. Poi penso ai Razionalisti e mi ravvedo. Eccezioni, tuttavia. La maggior parte dei paesi di queste parti non ha nulla di memorabile e il moderno e brutto cemento non ha che sostituito costruzioni raffazzonate, realizzate con autorizzazione edilizia, ma nessuna concessione alla bellezza. Il benessere, la ricchezza, l'opulenza non sono stati sufficienti per supplire a una mancanza radicata, a una deficienza atavica. Torno al chiodo fisso: questione di cultura. Lo scrivo con timore, poiché a far certi discorsi è facile passare per snob, per chi ha la puzza sotto il naso. Questo però è un discorso lungo. Lo farò un'altra volta.
Foto by Leonora

Solo pensieri


C'è solo musica qua. Musica e buio, ombre d'albero e aria fresca, che spezza la calura. Mi sento solo, ma l'assenza di gente non c'entra: ci si può sentire soli anche in mezzo a mille persone, in una piazza affollata, come a casa propria. Penso che ci si attacca alla vita in misura inversamente proporzionale a quella vissuta: i giovani sono quelli che hanno meno paura di perderla, mentre i vecchi ostinatamente vi rimangono aggrappati. Non tutti. Io vorrei esser nella schiera di coloro che si piegano docili al destino, come barca che si stacca dalla riva. Dal terrazzo guardo la corte sulla collina dov'è vissuto Giovanni, mio bisnonno. Era un uomo alto e dritto, con due baffi bianchi e capelli radi in testa. Non abbandonava mai il cappello e, raccontava mio padre, non sopportava il bianco dei cuscini. Quando lo ricoverarono per la prima e anche ultima volta in ospedale, aveva ottant'anni passati (gli ottanta di Nenni, non di Berlusconi) e sulle federe, prima d'appoggiare la testa, volle mettere la giacca, una giacca scura, di panno. Mi torna in mente adesso, che vedo illuminata a giorno la facciata della casa dove abitava. E' arrivato e se n'è andato lui, sono passati i suoi avi, i suoi figli, i vicini di casa, mio padre e un giorno passerò anch'io. Un pensiero che non mi angoscia, che mi consola persino. Spero capiti tardi, soprattutto spero che capiti bene, consapevole di aver percorso degnamente il mio cammino e di essere stato fortunato. Molto fortunato. E sarà per questa sera quieta, senza luna ma con stelle da spettacolo, oppure perché ho un po' il magone dentro, che m'è venuto di pensare alla morte, allo scorrere ineluttabile del tempo. E ora, guarda il caso, alla radio c'è una canzone di Jovanotti, con il ritornello che fa: "Io lo so che non sono solo, anche quando sono solo". Non mi è mai piaciuta, ma stasera sembra scelta a proposito e mi dà lo spunto per spegnere il computer, staccare la spina dei pensieri e andarmene a letto. A differenza di mio bisnonno Giovanni non dovrò neppure mettere la giacca sulla federa del cuscino. L'ho detto che sono fortunato.
Foto by Leonora

martedì 18 agosto 2009

In primo piano


L'altro giorno L'Ordine ha avuto una bella idea: chiedere ai politici di dare un voto ai giornalisti che un paio di giorni prima, su La Provincia, avevano fatto loro le pagelle. Uno di loro (Emanuele Caso, Corriere di Como) ha preso sette, due (Davide Cantoni, Espansione Tv e Mauro Migliavada, L'Ordine) sei e mezzo, una (Gisella Roncoroni, La Provincia) cinque. A parte ciò che penso (sono fiero per Gisella, che lavora nel mio settore, e che si è dimostrata una rompiscatole mal sopportata dai potenti e so quanto avrebbe pagato Mauro, per prendere meno di quel sei e mezzo) è stata una trovata curiosa. Lo stesso devo dire, per tutt'altro argomento, del Corriere di Como, che un mese fa, quando Bossi ha scatenato la battaglia per l'insegnamento del dialetto a scuola, ha proposto ai leghisti un test per valutare se la lingua dei nostri nonni loro la conoscevano davvero. Quel giorno noi a La Provincia avevamo trattato l'argomento, ma senza quel guizzo d'ingegno che al Corriere avevano avuto. Lo scrivo perché non ho la coda di paglia e mi piace ammettere quando gli altri fanno meglio di me: non è una vergogna, bensì uno sprone a migliorare. Oggi poi, proprio sulla scorta di quella mancanza, abbiamo messo in cantiere sullo stesso tempo un'intera pagina sul dialetto, comprensiva di un test, che abbiamo chiamato "test della cadréga", rifacendoci alla scenetta di Aldo, Giovanni e Giacomo in "Tre uomini e una gamba". Sono giorni grami, questi, per chi raccoglie notizie. Grami e fecondi insieme, poiché per fare un buon giornale bisogna aguzzare l'ingegno, trovare spunti, idee, mettere in cantiere approfondimenti: perciò adoro lavorare in agosto. L'obiettivo è sempre lo stesso: dare al giornale locale la qualità - di forma e contenuti - dei migliori quotidiani nazionali. Una cosa è certa: ci impegnamo.
Foto by Leonora

Povero Silvio


L'ho visto in tv, al trofeo che porta il suo cognome. Gli stanno cadendo anche i secondi capelli e m'é sembrato invecchiato. Povero Silvio, direbbe Cornacchione. Un prezzo alla politica lo sta pagando sul serio: intercettazioni, rivelazioni, pettegolezzi da trivio. La vita gli presenta il conto ed è costretto a pagare in una moneta che forse - per superficialità o supponenza - non aveva previsto. Non giudico Berlusconi, non ne faccio un caso morale: so quanti sbagli commetto io, so essere tollerante nei confronti dell'altro, sia santo o demonio. Penso piuttosto ai suoi figli, penso se fosse mio padre: credo che al sangue del proprio sangue si possa perdonare tutto, ma una volta venuti a conoscenza di un privato umiliante e piccolo piccolo non si possa fare finta di nulla e che alla stima subentri un velo di compatimento. Forse per questo non gli tiene più il lifting, che pure fa miracoli, unito alle moderne terapie e al trucco. Ne parlavo l'altro giorno con il mio collega Francesco. "Pensa a Nenni - mi diceva - che all'inizio degli Sessanta avrà avuto più o meno l'età di Berlusconi adesso. Eppure quello pareva un matusalemme, un patriarca biblico, un trisnonno, mentre questo è sempre uguale a sé stesso. Migliora anzi, è il vero ritratto di Dorian Gray". Oggi però non l'ho visto bene, m'è sembrato stanco (ed è scontata, perciò superflua, qualsiasi ironia sulle performance - diciamo così - relazionali che impone a sé stesso). Certo, non lo vedremo con il basco, mentre gioca a bocce in compagnia degli amici del circolo, però l'inesorabile scorrere del tempo comincia a far scorgere qualche cedimento. E non c'è nulla di più faticoso che comportarsi da giovane quand'è giunta l'età in cui si pagherebbe oro per avere una copertina sulle gambe e un brodino.
Foto by Leonora

domenica 16 agosto 2009

Resto senza (altre) parole


Mi piacciono le parole. Per questo scrivo. Mi piacciono le parole: come sono fatte, cosa significano, che origine hanno, il loro suono quando si pronunciano. (Pronunciare, ad esempio. L'ho appena scritto e mi chiedo se è la parola giusta per esprimere ciò che intendevo. "Pronunciare: articolare per mezzo della voce". Credo di sì, era il verbo azzeccato. Avrei potuto scegliere anche "dicono": era più semplice, ma faceva meno scena, credo sia per questo d'istinto ho preferito "pronunciano" a "dicono"). D'accordo, scendo dal lettino dello psicanalista di parole e giungo al nocciolo. Mi piacciono le parole, sia prese singole, sia messe in fila, una a una. Quando scrivo mi piace masticarle, stenderle di getto e poi tornare indietro e rileggerle, cambiarle - s'è il caso - o provare a dare loro un nuovo ordine, una diversa scansione, cancellarle persino. Provo ammirazione per coloro che scrivono di getto, per un talento naturale, per coloro che neppure debbono rileggere ciò che hanno scritto, poiché il pensiero s'è posato già così perfetto che non è stato un parto, bensì uno svelamento, uno srotolarsi preciso e netto, nero su bianco. Provo ammirazione ma non farei mai, con loro, il cambio. Poter tornare indietro, cancellare, aggiungere, aggiustare, affinare... (il "labor limae", come m'ha insegnato Maddalena) è un piacere sublime, oltre che l'unico modo che conosco per esprimere un concetto scritto. L'ho fatta tanto lunga, per riportare una bella parola che ho trovato oggi, ascoltando un passo della lettera di San Paolo (Romani, 11, 1-15), che a sua volta ricorda il profeta Elia. Il Signore d'Israele, al suo profeta che si lamenta di esser lasciato solo, risponde che non è così, che ha riservato per lui settemila uomini: un "resto" li definisce. Un resto. Poteva scegliere cento altre parole, più comuni, più usuali, più - secondo un filo logico - adatte e invece San Paolo (o chi ha scritto per San Paolo o chi ha tradotto chi ha scritto per San Paolo) ha scelto proprio quella. Mi ha così sorpreso quella parola, che continuo a pensarci. Non che non abbia fatto altro, tutto il giorno, ci mancherebbe altro. Però ogni tre per due mi tornava in mente e allora ho voluto appuntarla qui, chiedendo scusa a chi si aspettava chissà che ed è stato trascinato dalla curiosità sin qui, trovando soltanto un finale senza fine o, forse meglio, una fine senza finale.



Foto by Leonora

sabato 15 agosto 2009

Cuore e Testa Calda


Qualche giorno fa lo abbiamo accompagnato al camposanto e ad aspettarlo, a mezza via, proprio sulla strada che porta alla stalla dove ha lavorato una vita, c'era il Landini Testa Calda, che sbuffava come una locomotiva. Meglio, come una persona viva. Felice era affezionato al suo trattore, un reperto ormai d'archeologia, chiamato Testa Calda perché per accenderlo non basta girare un chiave, ma bisogna accendere un fuoco e con esso scaldare la "testa" del motore. Felice è il papà di Isabella e se n'è andato il primo d'agosto, dopo due anni di battaglia contro una malattia che nell'ultimo mese l'ha consumato e spento, come una candela. Non era un uomo di molte parole, badava al sodo delle cose e alla morte fino all'ultimo non s'è rassegnato, corrucciandosi per quello che per lui era più di una sofferenza, più di un dolore: una vera e propria ingiustizia. Di lui mi resteranno le storie che raccontava, gli aneddoti di un'esistenza trascorsa in paese, in campagna, l'essere anello di catena di una tradizione antica. E il pulsare di cuore di quel trattore che lo aspettava a mezza via, di sbieco sulla strada, come un soldato sull'attenti, che rendeva onore a un generale e a un padre insieme.
Foto by Leonora

venerdì 14 agosto 2009

Cosa c'è sotto sotto?


Un mese. Un mese senza scrivere qui. Che pigro sono e di questa pigrizia chiedo scusa alle tante persone che passano ogni tanto da qui, in primis a quei venti che mettono anche un nome e una faccia (non proprio tutti un nome, non proprio tutti una faccia, ma non è il caso di sottilizzare). Scrivo poco, in questi giorni, leggo molto. Benzina indispensabile per il mestiere che faccio e soprattutto piacere a cui non resisto. Mi piacciono molto le interviste che Oriana Fallaci realizzò a inizio anni Settanta ai potenti di allora. Mi piace lo stile asciutto e al tempo stesso partecipato, vivo. Lo appunto qui, collegandolo a un gioco (ma un gioco serio) che abbiamo fatto l'altro giorno su La Provincia e che consisteva nell'attribuire un voto ai componenti la giunta comunale di Como. Al di là della pagella che ognuno di loro ha ricevuto, li passo in rassegna uno a uno e mi domando: "Ma qual è la cultura che hanno, quali idee hanno negli anni approfondito?". Ci sono persone simpatiche, altre oneste, ci mancherebbe altro. Ci sono amministratori preparati nell'agire quotidiano, nello spicchio di competenza nel settore in cui operano. Io però parlo d'altro. Parlo di cultura, di profondità di analisi, di pensiero, di applicazione nello studio, nell'usare la testa non solo come protuberanza che fa da ornamento al corpo. Cosa offre Como? Il giudizio, se sono io a darlo, è impietoso. E lo scrivo senza spocchia, conscio di essere in difetto, di non essere all'altezza io per primo.
Foto by Leonora