Al momento opportuno m'è mancato l'ardire per rivolgere loro una parola, per interrompere il pianto affranto di lei e lo sgomento imbarazzato di lui, che la guardava con occhi disorientati e tristi, senza sapere cosa fare, cosa dire, se sedersi accanto o cingerla in un abbraccio.
Loro erano due ragazzi tra i diciassette e i vent'anni, appartati sui gradini di una scaletta ai margini del piazzale della stazione, lei capelli neri, lunghi fino alle spalle, occhiali, calzoncini corti, lui bermuda chiari, capelli ricci, una faccia da adolescente rimasto dentro ancora bambino, una maglietta verde acido con sulla schiena la scritta in maiuscolo: "Animatore".
Non so cosa avessero. Lei parlava concitata, con momenti di vera disperazione e lacrime abbondanti, come chi ha nel cuore una pena enorme e le sta cadendo il mondo addosso; lui ascoltava attonito e impacciato, quasi volesse rassicurarla, dirle "Ci penso io", ma senza ruscirci perché di pensarci lui non sembrava affatto pronto.
Mi sono imbattuto in quella scena per caso, camminando fin lì perché ero al telefono e volevo evitare il rumore della gente, il frastuono del traffico. Dopo averli notati, continuando la conversazione, sono passato innanzi un paio di volte, senza che nessuno dei due vi facesse caso, e la terza volta, dopo aver salutato chi stava parlando con me, sono stato tentato di fermarmi, di rivolgere loro una parola, svestendo i panni dello sconosciuto e indossando quelli del padre, del ragazzo più grande, di colui che anche se non richiesto può dare una mano.
Non l'ho fatto. Il timore di essere invadente, insolente, mi ha fatto tirare dritto, salvo poi pentirmene, con il dubbio che i piedi non mi avessero portato lì per caso, che magari avevo un compito e non l'ho assolto (dimostrando così che la distanza tra il tirare dritto e l'interessarsi è esigua ma pur distingue il pavido dal coraggioso).
Non so cosa avessero, dicevo. Nella mia limitata fantasia ho ipotizzato che lei fosse stata bocciata oppure che lui volesse lasciarla oppure, se dovessi scommetterci un centesimo, che fosse rimasta incinta o temesse di esserlo.
Non so cosa avessero e non lo saprò mai, ma so cosa avrei dovuto dire io e non ho detto, cioè di non temere, di non preoccuparsi, di non considerarla una tragedia, qualsiasi cosa fosse, perché nella vita tutto passa, tutto si sistema, tutto si aggiusta.
"Non piangete" sono state le parole che non ho detto. "Non piangete e qualsiasi spina abbiate tornate a casa dai vostri genitori, specialmente tu ragazzina, sapendo che nessun problema, nessuno sbaglio è più grande del bene che ti vogliono".
Queste parole mi sono mancate e non me lo perdono, perciò le scrivo qua, perché se a quei due ragazzini non possono arrivare, almeno giungano alle persone che passano di qua, oltre a rimanere come pro memoria per me stesso: per quanto grande, nessuna disperazione dura in eterno e dopo ogni tempesta esce sempre il sereno.
P.S. Con l'augurio che se mai uno dei miei figli si trovasse in una situazione simile possa trovare un essere umano più coraggioso di me, trasformandosi occasionalmente in quell'angelo custode che non ho saputo essere io.