Non uso quasi mai abbreviazioni per chiamare qualcuno. E ho poca simpatia per chi lo fa, con un'eccezione bonaria per Mauro Migliavada, a cui viene spontaneo, quasi una seconda pelle (in redazione a Espansione Tv, se sentivo: "Ciao Cinque", sapevo esser lui che parlava al telefono con l'assessore Cinquesanti). Mi piace poco nella lingua parlata e meno ancora in quella scritta. Quando sul "Foglio" o sul "Giornale" o su "Libero" leggo titoli di questo tenore: "Il Cav. non ne vuole sapere di mollare" o, ancor peggio, "Il Gius e quei ragazzi della Barona", giro volentieri pagina. Nemmeno i soprannomi mi entusiasmano. Ancora ancora quelli di paese, che esprimono una caratteritica, un'appartenenza (il "Gigi gemell" o "l'Ambrogio stràscee", per non parlare del "Arturo Verdùra" o del "Luigi Pùlan, ch'è appena morto). Detestabili, per me almeno, i vezzaggiativi o i nomignoli, che ho sempre associato a famiglie nobili o ricche o aspiranti all'una e all'altra condizione e che abbondano di "Lulli", "Lolli", "Chicca", "Pachi", "Tessi"...
Mi piace ciò che ha scritto da qualche parte Erri De Luca: dare nome alle persone e alle cose è un dono divino ch'è concesso all'uomo. Dice De Luca: dare nome; non ridarlo, cambiarlo, modificarlo.
Scrivo queste cose al buio, mentre ascolto "Scenes of an Italian restaurant" di Billy Joel e Giorgia (lei è un'altra eccezione: ogni tanto la chiamo Giorgina) dorme qui accanto, stringendo l'orso polare di stoffa che le ho regalato sabato scorso. L'ha chiamato Aleph, ch'è la prima lettera dell'alfabeto ebraico e il titolo di una raccolta di racconti di Jorge Luis Borges. Gliel'ho suggerito io ma a lei è subito piaciuto e, per dare un tocco che lo facesse sentire più suo, gli ha messo attorno al collo un foularino molto frou frou, bianco e nero. In questi giorni aggiorno raramente il blog, al lavoro tra malati e ferie da smaltire siamo rimasti in pochi (in cronaca, tre su sette) così i ritagli di tempo libero si assottigliano. So che sabato sera ci sarà un raduno dei blogger di Como. Io sarò di turno al giornale ma spero proprio di riuscire ad aggregarmi almeno per il dolce. Ogni volta che ci sono andato è stato un ricaricare le pile, un sorprendermi nel trovare persone così normali e così straordinarie insieme: incontrarle è dare alla speranza e all'ottimismo un volto, oltre che un nome.
Foto by Leonora