domenica 28 marzo 2010

L'altra moneta


Posso permettermi Sky, ho scritto questa mattina. "Permettermi", poiché per me l'abbonamento alla tv satellitare rientra nella categoria del lusso. Vorrei aggiungere qualche altra riga qui, proprio sulla percezione della ricchezza. So di poter apparire frivolo o ridicolo, se non patetico, ma io mi sento ricco da un anno e mezzo a questa parte, cioè da quando entro in libreria e posso scegliere il libro che mi pare, senza badare se è in edizione economica o meno. Per anni non è stato così e per un volume appena uscito e a costo pieno, altri nove me li appuntavo a mente, ripromettendomi di comprarli quando fossero usciti a prezzo scontato. Ora che, grazie a un contratto integrativo posso acquistare un tot di libri all'anno e farmeli rimborsare come aggiornamento professionale, è tutto un mondo ch'è cambiato. Mi riterrò ricchissimo, invece, quando potrò andare al ristorante ogni volta che mi pare, magari senza neppure aver la tentazione di sbirciare il prezzo di quell'antipasto o del vino. Non so se capiterà mai e in ogni caso non me ne faccio un cruccio. Ho la fortuna di accontentarmi di ciò che ho, poco o tanto che sia, e mi ispiro ormai da tempo immemorabile alla filosofia del beato Arlatto, che suggeriva: "Meglio del molto possedere è il poco desiderare". Sono profondamente convinto che considerare la moneta come unico metro della gratificazione sia sciocco, prima ancora che sbagliato. Esistono unità di misura differenti (i sentimenti, le emozioni) e aspetti che il denaro non può comprare. Mi riferisco al rispetto, alla riconoscenza, al buon nome, alla memoria positiva che sopravvive sovente più a lungo delle fortune materiali. L'altra sera guardavo "Good night and good Luck" e pensavo che tutto il potere del senatore Mc Carthy non solo non è servito a nulla, ma gli si è rivoltato contro, consegnando di lui un'immagine negativa, spregevole addirittura. Mi domando cosa capiterebbe se sul piatto della bilancia il buon nome, il rispetto, il senso di riconoscenza, la memoria positiva arrivassero a pesare più del denaro, del potere, del successo. Mi consolo e divento ottimista pensando che dipende soltanto da noi.

Foto by Leonora

Tv all'arrabbiata


Non guardo più la televisione. Quella generalista intendo. Sono fortunato, posso permettermi Sky e guardo prevalentemente sport e film. Trascuro tutto il resto ma non lo faccio per snobismo: so che se viene trasmesso qualcosa di interessante, posso sempre rivedermelo in tempo zero su Internet. Fino a qualche anno fa, se accadeva in tv qualcosa di meritevole e me lo ero perso, dovevo sperare di vederlo in Blob. Ora Blob è diventato ogni momento ed è una rivoluzione di cui ho piena percezione solo ora, che ne scrivo.

Premetto tutto questo per dire che l'altra sera non ho visto "Rai per una notte", l'evento di Santoro e compagnia briscola sulla libertà di informazione. L'ho fatto adesso, in un oretta, grazie agli spezzoni su Youtube. Volevo lasciare qui qualche appunto.

Primo: non credo ai martiri, almeno non a quelli ben pagati e che riescono sempre a trovare un posto al sole, una seggiola, una poltrona. Non sono preoccupato per Santoro, né per Travaglio, Luttazzi e tutti gli altri, che sono una punta di diamante e riusciranno sempre a far sentire la propria voce. Mi preoccupa assai più l'asservimento che gli editori possono imporre alla restante parte dei giornalisti, a quei novantanove su cento che per uno stipendio da impiegato (molti neppure quello) devono fare i conti con lacci e lacciuoli, bavagli e ostacoli. Lo scrivo, anche in questo caso, ritenendomi più che fortunato: lavoro in un posto dove scrivo ciò che voglio e proprio per questo ne ho sacro rispetto, avendo premura che questa condizione prosegua a lungo.

Secondo: la libertà d'informazione in Italia non è in pericolo. Non lo è nel mondo, credo, ma in Italia soprattutto, poiché come scriveva bene quel genio di Gramellini, siamo un paese troppo poco serio per mettere in atto qualcosa di drastico, censura compresa (prendiamo Santoro stesso: la Rai gli vieta di andare in onda, lui si organizza una manifestazione in proprio e la trasmette non soltanto Raisat News ma pure il sito internet del Tg3). Le nuove tecnologie sono uno strumento efficacissimo: se voglio dire qualcosa, posso dirlo. Magari devo stare attento (un mio ex collega era stato licenziato, per questo) ma posso e non è poco.

Terzo: il tempo regala soddisfazioni, insegnandomi che dovrei coltivare di più la virtù della pazienza. Prendiamo Espansione Tv, dove ho lavorato per oltre dieci anni e a cui debbo molto, quasi tutto, ma che in fatto di libertà di pensiero è tuttora terzo mondo (voglio spiegarmi bene, su questo punto, perché so che è facile essere etichettati per ingrati mentre non credo di esserlo: Espansione Tv ha un editore padrone, Maurizio Giunco, che comanda da monarca assoluto e non concepisce dissenso al suo pensiero. Non dico che tutto ciò che viene trasmesso corrisponda a ciò che pensa Giunco, ma certo non va nulla in onda che sia anche soltanto a lui sgradito). Espansione Tv l'altra sera ha trasmesso la serata in diretta di Santoro e - per il sottoscritto - è come se avessero detto che Moggi è il nuovo designatore arbitrale. Eppure è successo (Santoro e Luttazzi e Travaglio su Espansione, non Moggi alla Federcalcio). Se è successo certo Giunco lo ha voluto (non so come mai ma da esterno, quale sono ora, ho un'ipotesi: essendo presidente della Frt, la federazione delle tv locali, che hanno un contenzioso con l'attuale governo su fondi tagliati proprio alle piccole tv, ha voluto dare un segnale a Berlusconi) ma immagino l'imbarazzo dello stesso Giunco, per i contenuti forti che sono andati in onda e a cui la sua tv, volente o nolente, è stata associata. Così come immagino l'imbarazzo di Alessio Butti (senatore Pdl e membro della commissione di vigilanza sulla Rai), che a Etv è legato e che ha contribuito attivamente a mettere il bavaglio sulla stessa Rai a Santoro.
L'ho già fatta troppo lunga. Concludo citando ciò che di quella trasmissione mi è piaciuto di più (insieme al monologo di Cornacchione): l'intervento della giornalista italiana che lavora in Inghilterra, Barbara Serra: "Alla Bbc il primo giorno mi hanno detto: se vuoi fare la giornalista devi fare arrabbiare ogni giorno qualcuno".

Foto by Leonora

mercoledì 24 marzo 2010

La legge della vita


Da mesi, forse da anni non mi sentivo tanto sereno, lindo. Aspetto la primavera, chiuso e compatto come i germogli del piccolo acero che l'anno scorso ho piantato in giardino. Il faggio è più lento, dorme ancora d'un sonno profondo, mentre l'ulivo è spoglio: provato dal gelo dell'inverno, aveva perso buona parte delle foglie, così ho preso le cesoie e l'ho potato d'un taglio drastico, badando a dargli forma, anche se ora pare l'albero dell'impiccato. Ho appena terminato di leggere un bel libro di Kader Abdolah, "Scrittura cuneiforme", romanzo sul legame spezzato e riannodato filo per filo tra padre e figlio.
Non voglio aggiungere altro, se non le parole di Mohammade Mogtari, poeta che prende vita nel libro. Dice così: "Perdere non è la fine di tutto, ma la fine di un certo modo di pensare. Chi cade in un punto, in un altro si rialza. Questa è la legge della vita".

Foto by Leonora

martedì 16 marzo 2010

Milano può attendere


Non sono mai stato così a due dimensioni: casa e lavoro, lavoro e casa. Nient'altro. Lo scrivo anche per le persone che mi conoscono: non sono sparito, solo in apnea. E' un periodo così, ricarico le pile. Oggi sono stato a pranzo con un amico, una persona a cui voglio bene e a cui debbo molto, perché mi ha aiutato a crescere (nonostante sia più piccolo di me) e mi ha insegnato molte delle cose che so, principalmente l'autorevolezza che deve avere un capo e l'importanza delle regole. Nessuno dei due è tipo da molte parole, confidenze men che meno, ma quando ho avuto bisogno lui c'è sempre stato e spero che lui possa dire lo stesso di me. Quando ci siamo salutati, mi ha detto che andrà a votare. Io ho ribadito ciò che pubblicamente ho scritto sul giornale: no, quest'anno non andrò. Sarà la prima volta in ventisei anni di diritto acquisito. Altre volte sono stato tentato di astenermi, senza però rinunciare a quello che considero un rito fondamentale, cioè la partecipazione civica. La misura però è colma, almeno per come la vedo io. La maggioranza in Lombardia (la foto di Leonora, che vedete qua sopra, è stata scattata dal trentanovesimo piano del nuovo palazzo regionale) governa da vent'anni e in nessuna società libera è cosa buona e giusta. Se pure il capo è buono, in vent'anni si forma una corte, una combriccola di leccapiedi e maneggioni, che neppure con il cambio della guardia al vertice è possibile spazzare via: figuriamoci se manca l'alternanza, ch'è principio fondante di qualsiasi democrazia. D'altro lato, l'opposizione nulla ha fatto in questi anni per costruire un'alternativa valida. Il voto a favore concesso loro in altre occasioni elettorali non è stato percepito come uno sprone a far meglio, bensì un sentirsi arrivati, un "va bene così". Ma così non va bene per niente. Ho in mente il secondo governo Prodi, con i suoi centodue tra ministri e sottosegretari e i soliti franchi tiratori che, dopo pochi mesi, l'hanno mandato a casa. Io a casa desiderei mandare sia la destra arrogante sia la sinistra confusa e pasticciona, ma - non potendolo fare - sono anche stanco di turarmi il naso. E' una vita che ce l'ho turato, non vorrei che alla fine a puzzare fossi io. Se Corvo rosso non avrà il mio scalpo, né Formigoni né Penati avranno il mio voto e Pezzotta men che meno: non sono qualunquista, solo stufo e un bel pò sconfortato: passo la mano, sto fermo un turno.
Foto by Leonora

giovedì 11 marzo 2010

L'umaca


Michele Serra. Mi fa ridere ogni volta che lo leggo e "L'amaca", le sue venti righe fisse di rubrica, sono un appuntamento fisso quando sfoglio Repubblica. Lo scrivo per tutti coloro che passano di qui e non mi conoscono di persona e leggendo gli ultimi post si sono fatti l'idea di un tipo che legge solo Milan Kundera e ascolta Tiziano Ferro. Giuro che non sono così, nonostante la foto qui a fianco "da finto intellettuale" (come la definisce il mio collega Ferrari, uno che mi fa ridere parecchio) e le prosa da simil poeta estinto, di quelli che passano anche le vacanze al mare all'ombra, su uno scoglio, a meditare e declamare versi endacasillabi. E' vero, ogni tanto m'intristisco e mi sento solo, ma basta poco - assai meno di molte altre persone, credo - e mi passa. Anche in questo sono fortunato, ho un buon carattere, generalmente un cuor contento. Perciò mi trovo bene ovunque, compreso al lavoro, dove trovo gente non banale e un ambiente di comicità varia, dal distratto spontaneo al sarcastico. Rido spesso anche a casa e altrettante volte faccio ridere, non di rado senza volerlo, combinando qualche guaio o essendo goffo. Il libro che più mi ha divertito è "Il più grande uomo scimmia del pleistocene", mentre i film sono troppo numerosi per elencarli tutti, anche se per quelli demenziali (da "Una pallottola spuntata" a "Top secret", passando per "Frankestein Junior") ho una predilezione: quando me li ritrovo in tv, non riesco a cambiare canale e ogni volta li rivedo.
Precisato ciò, vengo al punto. Oggi ho scoperto che esiste una Giornata della lentezza. Anche se non ho ancora capito bene di cosa si tratta, la notizia mi ha messo di buonumore. Appena approfondisco la questione e comprendo meglio, prometto di scriverne qui. Senza fretta.

Foto by Leonora

mercoledì 10 marzo 2010

Il seme sotto la neve


Guardo dalla finestra. Cielo grigio, distese bianche, alberi dritti e spogli, fittissimi fiocchi di neve, fini come chicchi di riso: sembra una pagina di Tolstoj. Non ho mai amato gli scrittori russi, i paesaggi sì. Specialmente se scrutati da un vetro, seduti al caldo, su un divano, mentre in cucina bolle l'acqua per il e ho tra le mani un libro. Sono pigro, viaggio poco, se non nei mondi di carta, che hanno il vantaggio di spostarti nello spazio, ma anche nel tempo. Ieri l'altro leggevo della rivoluzione culturale cinese, delle privazioni a cui molti giovani furono costretti e si costrinsero. Ho sottolineato tre righe, in cui si descriveva la fame patita e una condizione ben peggiore di quella dei padri e delle madri che li avevano messi al mondo. Ci sono ovvietà di cui mi rendo conto soltanto nell'istante in cui mi balzano agli occhi, pur avendole sempre avute sotto il naso. Una di queste è l'inesattezza del principio di linea retta, secondo cui i figli siano destinati a vivere meglio dei genitori o che, più in generale, una generazione non stia mai peggio di quelle che l'hanno preceduta. Appartengo a una famiglia i cui nonni hanno affrontato la miseria della guerra e padre e madre sono cresciuti con poco grasso, insegnando anche a me il valore del risparmio, dell'essere parsimoniosi, senza farsi mancare nulla di sostanziale, ma badando a tenere da conto, senza sciupare o dilapidare ciò che alle braccia e alla fronte è costato sudore, sacrificio. Ai miei figli non manca nulla, hanno ben più di quanto fosse concesso a me stesso da piccolo e, per quanto mi sforzi di insegnare loro le stesse cose che ho imparato io, mi rendo conto ch'è come svuotare il mare con un cucchiaino. Spero che il destino non riservi una discesa, ma al tempo stesso so che non posso far nulla per impedirlo del tutto. Confido nella buona sorte e più ancora nello spirito di adattamento dell'essere umano, che - come ho già scritto - nell'abbondanza non sa godere appieno della felicità ma per lo stesso motivo non conosce tristezza assoluta quand'è nello stento. Le ristrettezze, anzi, possono a volte essere un beneficio. Credo sia l'ultima delle tre regole di lavoro di Einstein: "Nel pieno delle difficoltà esiste l'occasione favorevole". Quante volte me lo sono ripetuto, quando il mio posto m'era stretto o avevo un peso greve che mi spezzava il fiato. Anche allora le parole altrui mi tenevano compagnia: non sarò mai ad esse abbastanza grato.

mercoledì 3 marzo 2010

Fuoco, fiamme e fornelli


Due spunti. Uno fisionomico, l'altro conviviale e gastronomico.
Il primo. Con il passare degli anni finiamo sempre più con l'assomigliare ai nostri genitori, ai nostri nonni. Parlo di alcuni vezzi, di certi gesti, ma anche dell'espressione del volto, dei tratti del viso. Oggi ne ho avuto conferma, incontrando un paio di persone che non vedevo da tempo e che sembrano un calco di chi le ha precedute.
Il secondo. Ieri, curiosando in libreria, l'occhio m'è caduto su una bella copertina. Siccome non m'era mai arrivato all'orecchio né il nome dell'autrice e né il titolo, prima di acquistarlo ho fatto ciò che faccio sempre quando si tratta di scegliere un libro: ho letto l'incipit, l'inizio. Ho impiegato un istante per decidere che sarebbe stato mio. Lo riporto qui:
"Gli allievi mi chiedono: come si raggiungono le vette dell’arte culinaria? Con gli ingredienti più freschi, i sapori più ricchi? Con i piatti rustici o quelli raffinati? Con niente del genere. La vetta non si raggiunge mangiando, ne cucinando, ma solo offrendo e condividendo il cibo. Le pietanze migliori non dovrebbero mai essere consumate in solitudine. Che piacere può provare un uomo nel cucinare, se poi non invita i sui amici più cari, e non conta i giorni che mancano al banchetto, e non compone una poesia che accompagni la lettera di invito?.
Liang Wei, L'ultimo chef cinese, 1925"

Il titolo del libro che ho comprato è proprio "L'ultimo chef cinese" di Nicole Mones, edizioni Neri Pozza. L'ho iniziato oggi. Mi pare molto femminile e molto americano. Mi piace. Comunque lo cito perché di questi tempi sto apprezzando molto la cucina, pur non avendo mai cotto nulla che non siano le costolette o gli spiedini o le ali di pollo sul barbecue. Aspiro a farlo più compiutamente, passando dall'astratto, dal teorico, al pratico. Chissà, magari potrei stupire e cimentarmi: non è mai troppo tardi e quarant'anni cosa sono, al cospetto dell'eterno. E poi i miei amici già lo fanno. Angelo, che ho citato già nel post precedente e che mi stupisce ogni volta che sono invitato a casa sua, per cena o per pranzo. E Raffaele, ch'è stato - tra noi vecchi amici - , il primo a darsi da fare in cucina e rimane tutt'ora il guru delle specialità valtellinesi. Ma mi sono divertito a leggere anche un post del blog di Andrea, che tra l'altro m'ha fatto pensare, confessando che sua mamma gli ha mai fatto cuocere neppure un uovo. Eppure se la cava benissimo, alla faccia "dei teorici dell'educazione appresa facendo". E non potrei scordare Massimiliano, amico di David e mio, con il sopracciglio sollevato quando Isabella mise la moca sul fornello alla massima potenza e lui ci gelò, spiegando che il caffé buono esigeva tempo e fuoco lento. Persino Mauro Migliavada, l'unica volta che sono stato ospite per cena a casa sua, m'ha deliziato con un arrosto morbido e saporito. Della cucina mi affascina il gusto al palato e la cultura ch'è sottesa al cibo. E stasera avevo urgenza di scriverlo, anche a costo di far arrabbiare Isabella, con questo computer acceso. Sarà che siamo stati con i bambini da Mc Donald's e, come al solito, m'è piaciuto un sacco.
Foto by Leonora

lunedì 1 marzo 2010

Il volo dell'ippopotamo


Io sto come gli ippopotami: immerso, completamente immerso nell'acqua, con fuori, all'aria, soltanto narici, occhi e orecchie che mi sforzo di muovere, per captare ciò che accade attorno e che m'è estraneo, quasi avvenisse a migliaia di chilometri di distanza e non a un pollice dal naso. Sommerso dalle cose da fare, dai riti da compiere, dalle pratiche pubbliche e private da sbrigare, alterno giorni in cui ritaglio scampoli di libertà, in cui riprendere fiato, ad altri d'apnea totale. Mi sento legato alla ruota delle abitudini, che gira senza posa, e continuo a rimandare scatti di originalità, eccezioni alla regola: una cena a due, il cinema da solo, una gita coi bambini, un viaggio a Edimburgo o in Normandia o a Berlino, Istanbul, Dublino. Penso a Paolo, che ha accettato di lavorare diciotto mesi a New York e s'è portato appresso sua moglie Viviana e il piccolo Giacomo. E ad Armando, cugino di Isabella, che s'è fatto trasferire ad Abu Dhabi per stare vicino alla fidanzata. Oppure ad Angelo, il mio miglior amico, che ad aprile e maggio farà carte e fagotto, lasciando Brunella e i loro quattro ragazzi a casa, per andarsene ad Harvard e frequentare un master che costa quanto un'auto di lusso e che gli sarà utile nel lavoro "ma anche per la crescita personale", come mi ha detto, sorridendo senza darsi eccessiva importanza, con quell'espressione buona negli occhi, che gli conosco fin da quand'era bambino. Io, a loro confronto, sono un bullone avvitato alla piastra, un masso conficcato nel terreno: cresciuto senza avvertire radici, quando le ho scoperte era troppo tardi e avevo smesso di immaginare di muovermi, di lasciare tutto. Non me ne pento, ognuno segue il solco che egli stesso s'è tracciato, anche se insiste a chiamarlo destino. E poi la vita non finisce domani (toccando ferro, almeno) e nessuno sa cosa gli riserva il futuro. Non ci sono ippopotami che hanno imparato a volare, ma qualcuno che esce dal fiume sì. Almeno per un paio d'ore, per una cena a due o una serata al cinema o una gita coi bimbi o tre giorni a Dublino.

P.S. Sono grato a chi passa da questo blog, ai molti che leggono con sguardo non severo e a coloro che lasciano un pensiero. Talvolta scopro qualcuno nuovo e ne sono lieto. Alcuni sono interlocutori fedeli, con i quali posso ricambiare il piacere di leggere il diario di bordo che anch'essi tengono e pure i sostenitori pubblici, qui a fianco, sono già trenta e li sento accanto anche adesso, mentre scrivo.
Foto by Leonora