Se ne sono andati in molti, con alcuni sono stato anni fianco a fianco, per lavoro.
Antonio Marino, Marcello Dubini, gli ultimi in ordine di tempo, uno a La Provincia, l’altro al Corriere di Como.
Due persone diverse, unite dallo stesso mestiere, il mio.
Se non ne ho scritto prima non è per distrazione o indifferenza, bensì per evitare il rischio che parlando di loro mi mettessi al centro della scena io.
Un pericolo che - non conoscendolo - non corro con il terzo degli “strappati da casa”, Roberto Pelucchi, cinquantenne, bergamasco.
Di lui parecchi hanno raccontato, in troppi con un punto comune: il rimpianto.
Un rammarico di volta in volta e da persona a persona diverso, ciascuno però egualmente intenso: il dispiacere di essersi negli anni allontanati, l’aver lasciato che una sciocchezza dividesse, il rimandare troppo a lungo una telefonata, un messaggio, un degno congedo.
A loro, a tutti loro, il peso d’una sentenza.
Per noi, per tutti noi, la possibilità di essere ancora in tempo, sfruttando magari le feste imminenti per l’occasione che sono, che offrono, che rappresentano, di riannodare i fili, archiviare i malintesi, scrivere, parlarsi, riaprire una porta, chiudere un cerchio.
P.S. Sul rischio dei memoriali ho già detto.
Esistono però le eccezioni, chi - pur parlando inevitabilmente di sé - riesce a trasmettere qualcosa di universale, di buono, di vero. Come ha fatto Mattia (Feltri), scrivendo a Cesare (Zapperi), ricordando Roberto.
Caro Cesare,
vengo qui per ringraziarti dei tuoi ricordi di Roberto, Pelù, come lo chiamavano alla Gazzetta, o Pel, come lo chiamavamo noi a Bergamo Oggi, e per ringraziare Paolo Marabini e gli altri che ne hanno scritto, magari pubblicando quella magnifica foto di gruppo in bianco e nero che credo stia sulle scrivanie di ognuno di noi, e che denuncia gli anni dalle facce di quelli che non ci sono più, il nostro caro Ennio Arengi, e ora Roberto, che era il più piccolo di tutti noi, e quel volto bambino che ha conservato nei decenni, quel sorriso esplosivo sono ormai una coltellata.
Ti vorrei consegnare, caro Cesare, la mia piccola testimonianza di quegli anni con Roberto, che arrivò da noi non ricordo più come, ma tutti lo adottammo – noi lì dentro fummo tutti adottati e tutti adottammo – e per la nostra parte lo prendemmo in cura Alessandro Dell’Orto e io. Come sai, Alessandro e io facevamo coppia fissa, ci eravamo conosciuti al ginnasio nel 1982 e ci eravamo ritrovati nella stessa redazione. Quel faccino di ragazzo transitato dal liceo al giornalismo – allora succedeva ancora – ci aveva, noi poco più che ventenni, come consegnato una dimensione di maturità, ce l’eravamo consegnata da soli, e prendemmo Pelucchi e ce lo portammo con noi nelle nostre lunghe serate fra pizzerie, birrerie, discoteche.
Sempre in giro in tre, con Roberto che si prende la prima sbronza, fuma la prima (e credo ultima) sigaretta, una specie di esordio nel mondo degli adulti, e oggi qui potrei impilarti una serie di aneddoti strepitosi, come la volta in cui, era la festa della donna, e noi non lo sapevamo, ci ritrovammo in un ristorante, in un tavolo di centro di una sala occupata soltanto da compagnie di donne, e tutte si alzarono e ci portarono rametti di mimosa, una celebrazione al contrario, e Roberto nel tagliare la pizza fece pressione sul piatto malriposto, e la pizza gli si rovesciò sulla camicia, procurandogli un tondo di pomodoro che si portò addosso per tutta la sera.
Potrei, ripeto, raccontartene mille: partivamo alla sera dopo il lavoro, e giravamo in lungo e in largo, in quei percorsi di provincia dove incontri sempre qualcuno che conosci, e rincasavamo non prima delle tre o delle quattro, ogni notte, per poi tornare al lavoro alle otto di mattina, perlomeno io che facevo la giudiziaria. Nel 1992, Roberto, Alessandro e io andammo a Londra. Treno a Bergamo, Tgv a Milano, una notte a Parigi (scendemmo alla Gare de Lyon e prendemmo un taxi per Place de la Bastille, ignorando che distasse cinquecento metri, e il tassista impazzì, cominciò a ripetere a raffica “Dieummerde, dieummerde”, e andò a rifarsi un parafango su una barriera di cemento), la mattina dopo treno per Calais, traghetto per Dover, treno per Londra, metropolitana per Highbury and Islington, dove eravamo ospiti di un amico che aveva affittato casa da un ex fidanzato di Holly Johnson, il grande frontman dei Frankie Goes to Hollywood.
Una volta si viaggiava così. Non so se fosse meglio o peggio, ma per noi fu una irripetibile e fantastica festa mobile, e sarei un farabutto se negassi che Alessandro e io facemmo a Roberto scherzi di ogni tipo. Sul Tgv lo convincemmo a dire “cochon” alla hostess, spiegandogli che significava tramezzino al prosciutto, e quella si trattenne a stento dallo schiaffeggiarlo. O quando a Londra prendemmo degli hamburger, credo a Covent Garden, e siccome lui lo voleva senza cipolle gli dicemmo che doveva dire “with onions”, e più quella gli metteva cipolle più lui gridava “with onions”, e infine si arrese e arrivò al tavolo con mezzo chilo di cipolle nel suo panino.
Se devo pensare ai dieci giorni della mia giovinezza, sono quei dieci giorni londinesi, che sacralizzarono la nostra amicizia.
Andò avanti così per qualche anno, in una frenesia, in un’ansia assurda di vita, finché Roberto non decise che era tutto finito. Scrisse una lettera ad Alessandro e a me, una lettera magnifica che mi maledico di non trovare più. Scrisse che quella fra noi tre era stata un’avventura straordinaria, ed era felice d’averla attraversata, ma per lui era chiusa lì. Troppo piena, troppo tambureggiante, e con noi due, con Alessandro e me, che eravamo e continuiamo a essere fratelli, si sentiva sempre un po’ troppo ai nostri margini o sempre un po’ troppo nel nostro fuoco. Doveva riprendere fiato.
Ormai ci si vedeva solo al lavoro, e si rideva e si cazzeggiava come sempre, ma una stagione era scivolata via. Il giornale chiuse. Io sono andato prima a Milano, poi a Roma, e non ho mai più rivisto Roberto. Mai più. Ho pensato a lui tante volte, e ogni volta ho rinviato.
Una settimana fa, proprio mercoledì scorso, sono venuto a Milano per lavoro e a una cena sono stato avvicinato da una collega di Roberto alla Gazzetta. Mi ha spiegato tutto, mi ha detto che era ricoverato, che l’operazione era andata bene, che se gli avessi mandato un messaggio ne sarebbe stato felice. Ho aspettato qualche giorno, ma qualche giorno di troppo. Un’altra volta.
C’è un’espressione banale che adesso mi sembra avere una forza dirompente: con Roberto se ne va un pezzetto di me. Ma sono stati anni grandiosi, Robertino. E queste poche righe sono quanto resta di noi.