lunedì 31 dicembre 2018

Se chiudo gli occhi (Grazie per chi c'è stato)


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Se chiudo gli occhi e guardo indietro vedo una distesa di giorni ammucchiati, intricati come quando cascano gli appendini di filo di ferro e non capisci dove inizia uno e finisce l'altro.
Se chiudo gli occhi e mi osservo, allo specchio, trovo un uomo che non conoscevo, diventato adulto senza accorgersene nemmeno, smarrite molte certezze, ma proprio per questo più forte, meno prigioniero, tuttora curioso di conoscere, pur se aggrappato alla zona di conforto, come un naufrago, con le unghie, allo scoglio.
Se chiudo gli occhi e respiro, piano, ritrovo i momenti migliori dell'anno, quegli stessi attimi che rivivo talvolta andando a letto, cercando il sonno, ancorandomi a situazioni piacevoli, trasportandole dal passato al presente, sentendone sotto pelle le sensazioni, il battito del cuore accelerato.
Se chiudo gli occhi incontro lo sguardo delle persone che nei mesi recenti mi hanno accompagnato, chi per un tratto di strada breve, chi a lungo, senza curarsi che fosse un sentiero stretto o largo, nei vicoli di città o in un bosco, con sotto i piedi l'asfalto o polvere o fango.
Se chiudo gli occhi c'è una parola che per prima prende forma e si staglia, nitida, luminosa. Inizia con la medesima consonante del mio nome e conta sei lettere in tutto: "Grazie".
Grazie per tutto ciò che ho avuto, che mi è stato dato, persino che mi è stato tolto. Grazie a ciascuno di voi, che passa di qui, e mi fa sentire mai solo.
In questo incredibile cammino ch'è la vita si guarda meglio al passato tenendo chiusi gli occhi, ma è aprendoli che si accoglie il futuro.

sabato 15 dicembre 2018

Trent'anni (Il sorriso sempre uguale di Stefano)


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Oggi sono trent'anni che ti abbiamo accompagnato al cimitero. L'avevo scordato e me ne sento in imbarazzo, pur se a date e ricorrenze concedo poco peso.
Sono già passati trent'anni e ti debbo molto, compreso il mestiere che faccio e dunque l'uomo che sono diventato, mentre tu sei rimasto un ragazzo e quando chiudo gli occhi non hai una ruga, né un increspatura del volto, un capello bianco e ridi, di quel sorriso limpido che ti ha sempre distinto.
Siamo stati compagni di classe al liceo, amici tra i banchi, nei pomeriggi dopo la scuola, in redazioni grandi tre metri per due, in cui mancava tutto tranne il desiderio e la passione di inventarci un lavoro.
Sono passati trent'anni, che tu non hai vissuto, se non accanto a chi ti voleva bene, mentre noi - i “rimasti” - sovente abbiamo dato nessuna rilevanza al dono ricevuto, correndo senza riflettere, respirando in automatico, dando quasi tutto per scontato e lamentandoci persino, dei piccoli inconvenienti o grandi inciampi trovati lungo il cammino.
Sono passati trent'anni e oggi mi fermo, per dire grazie a te e a Simona, che me lo ha ricordato, ma anche ad Elena, che in questi giorni sta accompagnando la mamma nel reparto di oncologia e "spia con rispetto negli sguardi altrui, cogliendo tutte le paure e le speranze identiche alle sue, sentendo il vibrare della rassegnazione e il tentativo di farsi forza, nonostante tutto".
"Ho immaginato che tu avresti saputo scrivere un post bellissimo - mi ha detto - perché le emozioni le sai raccontare". Eppure è lei che questa volta l'ha fatto, come non avrei saputo fare meglio io.
Lo appunto qui, per espiare un poco della pigrizia, dell'indolenza, dell'assenza di disciplina e perseveranza che mi inducono spesso a privilegiare la comodità all'impegno, alla messa a frutto di un talento.
Oggi sono trent'anni che ti abbiamo salutato, Stefano. Poteva capitare a chiunque di non esserci più, di abbandonare per primo il palcoscenico, è accaduto a te: perdonami se ti ho ricordato così poco.

venerdì 14 dicembre 2018

L'Uomo Ragno (So chi è ma non posso dirlo)


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Sei d'una tenerezza che raramente ho conosciuto, d'un candore che mi avvince e affascina, allo stesso tempo.
"Giorgio - mi hai detto serio serio l'altro giorno, seduto sul sedile posteriore dell'auto, legato con la cintura di sicurezza e dritto, composto come un soldato pronto per affrontare il suo destino - se dovesse per caso pungermi un ragno radioattivo e io diventassi Spiderman e te lo dicessi, tu manterresti il segreto?".
Me lo hai chiesto così, a bruciapelo, ma dovevi averci covato a lungo, convinto che si trattasse di un'ipotesi non soltanto plausibile, ma altamente probabile, mentre assai come più incerta appariva ai tuoi - e ciò la dice lunga sul vuoto che ha necessità di essere colmato - la capacità di esserti fedele, di non tradire la fiducia che riponi in me, negli adulti, in questo tempo iniziale in cui ci sei stato affidato.
Ti ho risposto di sì, serio serio anch'io, che ai supereroi ho smesso di credere da un pezzo, ma per il cuore puro di un bimbo mi commuovo ogni volta che ci penso.
No, non ti tradirò, manterrò i segreti che mi affiderai e sarò degno del patto che il destino ha siglato: te lo prometto.

martedì 6 novembre 2018

Nonni e nipoti (La bussola avuta in dono)


"Gli hai fatto gli auguri?". Me l'ha detto in dialetto, quasi a tempo scaduto, e ho risposto a mia madre di sì, aspettando che gli occhi le diventassero lucidi, come puntualmente è avvenuto.
Ho scritto qui del compleanno di Giovanni un giorno prima e di quello di mio padre uno dopo, oggi, volendo fare da cornice al capriccio del destino che li aveva accomunati nella data di nascita, uno a distanza sessantacinque anni dall'altro.
Il nipote è diventato un virgulto d'uomo, alto quasi quanto me e con gli stessi scatti di carattere, talvolta non mitigati ancora dalle buone maniere che impongono contegno, almeno in pubblico.
Il nonno ci ha lasciati dieci anni fa, ma non se n'è mai andato, essendo vivo tuttora in me, che nei tratti e in alcune espressioni gli sto somigliando come mai avrei creduto.
Molte sono le eredità che ho ricevuto, tanto che ad elencarle tutte impiegherei un pomeriggio.
Ne ritaglio una, che mi pare più attuale di altre e mi fa da stella polare in questo tempo di bussole apparentemente senza magnete: ho imparato da lui ad avere fiducia nel futuro, a considerare i cambiamenti non come accidenti o, peggio, sciagure, bensì come opportunità per fare meglio.
Non che fosse esente dalle seduzioni nostalgiche che sovente riserva il passato, aveva però un approccio sempre pragmatico, positivo, che ai miei occhi lo rendeva giovane pure quando stava diventando vecchio. Perciò lo ricordo non soltanto con amore, ma con rispetto.

domenica 4 novembre 2018

Due Giovanni (e cent'anni di distanza)


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Di sé ha lasciato una foto sbiadita, un fazzoletto di bosco in pendenza, il cognome che portiamo e rare parole, che gli si cavavano a forza dalla bocca, come l'unico dente che si dice abbia perso negli ottant'anni e passa in cui è vissuto, andando in ospedale una sola volta, l'ultima.
Una di quelle frasi era: "U' girà ùl mùnd, mì: Còm, Milàn, Sùndri", aveva "girato il mondo" lui, riferito alla circostanza precisa di aver messo piede a Como, Milano e Sondrio.
In realtà si era spinto più in là, a Sacile, in Friuli, artigliere di campagna, prima guerra mondiale, ma di quel periodo aggiungeva nulla, se non una mano sugli occhi, quando ci ripensava, come a non voler vedere, a sforzarsi di dimenticare, e un'unica annotazione che non riguardava la battaglia, la trincea, bensì: "i dòn e i s'ciat chi ciangìva", le donne e i bambini che piangevano.
Si chiamava Giovanni, come te, e se te ne scrivo oggi, alla vigilia del tuo sedicesimo compleanno, è per una coincidenza e insieme un'urgenza: cent'anni esatti fa, come oggi, finiva la Grande Guerra e farne memoria è il minimo dovuto a intere generazioni che in quel conflitto hanno speso e in molti casi spento il lume della loro giovinezza.
Non voglio aggiungere altro, dilungarmi in riflessioni che odorerebbero di retorica. Tu e i tuoi fratelli siate consapevoli di quanto siete fortunati a vivere in un tempo di prosperità quale nessuno ha conosciuto prima e spendetevi sempre per mantenere la pace, per costruirla. Perché la pace è sì un dono che si riceve, ma pure un impegno che si deve prendere, ogni giorno, scegliendo ciò che unisce invece di ciò che divide, immaginando ponti e non muri, dialogando sempre, senza mai chiudere o sbattere la porta.
Ricordalo, Giovanni, che non sei venuto dal nulla, che sei la cima di una tradizione senza enfasi, ma solida, antica, di cui porti il nome, il cognome e la responsabilità di manternerla viva.

lunedì 1 ottobre 2018

In Media stat virtus (Due punti e una retta tendente all'infinito)


Ho memoria intermittente: ricordo particolari apparentemente insignificanti e per lo più inutili, scordo le date, i compleanni, gli anniversari.
Mi spiace, poiché tutte le ricorrenze sono occasioni buone per rompere l'indifferenza, uscire dalla pigrizia, mandare un cenno, compiere un gesto.
Oggi, ad esempio, scopro che è un giorno speciale, legando a filo doppio due eventi che riguardano un inizio.
Undici anni fa inauguravo questo blog, valvola di sfogo per il professionista che cercava un orizzonte nuovo e diventato man mano un compagno fedele di viaggio, "ciò che più somiglia all'uomo che vorrei essere e che sono stato, la parte migliore di me, l'eredità più bella che lascio".
Oggi, a Brescia, ha preso il via il secondo Media Center, gemello di quello creato un anno fa a Bergamo e anch'esso dedicato all'informazione e alla formazione dei ragazzi, affinché acquisiscano quelle "competenze trasversali" che saranno utili loro per vivere un mondo migliore e non soltanto trovarsi un lavoro.
Per me, che credo convintamente nel destino, sono due punti cardinali attraverso i quali passa una retta tendente all'infinito e devo fare i complimenti a Paolo Ferrari e a quanti lo hanno immaginato, a coloro che lo ha creato, a chi ci ha creduto per primo.
Me lo appunto qui, senza enfasi né retorica, confidando che metterlo per iscritto metta al riparo dalla memoria corta e dalla disattenzione cronica da cui sono afflitto.

P.S. Lo so, vi ho fatto ridere e in qualche caso anche scuotere il capo, sgomenti per l'ignoranza dimostrata dal sottoscritto, quando ho scritto di Mc Donald's e della App che tutti mostrano sul telefonino, per ottenere panini e patatine a prezzo scontato. Per voi, velisti del futuro, ho una nuova, prodigiosa scoperta, che per i quattro gatti vetusti quanto me condivido: la Lista Broadcast di WhatsApp, cioè il modo di mandare lo stesso identico messaggio ma senza farlo sapere anche agli altri, come invece avviene allorché si crea un "Gruppo". E sì, anche questo me l'ha insegnato Giorgia, di cui mai scorderò lo sguardo quando l'ho guardata e mostrando autentica sorpresa ho commentato: "Ma dai! E' strabello!" (anche se dentro me mi sentivo più "Get Down", come Epifanio).

venerdì 31 agosto 2018

Sono io (La vita, il McDonald's e lo specchio)


Sono io quel volto scavato dentro lo specchio, gli occhiali e la barba sempre più bianca e i capelli anche, quelli che restano. Sono io quelle rughe, lo sguardo severo, che si osserva, stupito, sorpreso, non trovando traccia del bambino che cerco, del ragazzo che sono stato e che tuttora mi sento.
Vorrei avere la perseveranza insistente del glicine o del gelsomino, che protraggono incessanti le fronde in cerca di appiglio, di un punto di appoggio per espandersi, per allargarsi più che possono, all'infinito. Constato in essi la vita che avanza incalzante, senza mai fine, neppure quando cade un ponte o c'è un terremoto e pure se dovesse cadere un meteorite dal cosmo.
Sono io che mi fermo, è la natura del singolo che ha passo breve e fiato corto.
Lo accetto, ma non mi rassegno: continuo a guardare quegli occhi che mi osservano dentro lo specchio, la pupilla che a differenza del resto del corpo non muta, rimane identica nel bimbo come nel vecchio.
E' in quel nocciolo che cerco riparo e pure il segreto di ciò che rimane senza età, eterno.
Lo capirai e lo cercherai anche tu, figlio mio, ne sono certo, quando avrai i miei anni e continuerai a percepirti diverso da come sei diventato, fermo a un tempo indefinito, a una gioventù superata soltanto quando ci si fa caso, davanti allo specchio.

P.S. Ad essere onesto, ci ho fatto caso anche in un altro preciso momento: in fila, al McDonald's, che mi ostino a chiamare così mentre per te, per tutti i tuoi coetanei è semplicemente il Mac, il Mèc, anzi, che si fa prima a dirlo. E' successo ieri: me ne stavo quieto quanto un bradipo con il naso all'insù, cercando di capire il gelato da ordinare, venendo superato bellamente dalla massa di ragazzi dai quali ero circondato e che con la rapidità del Velociraptor si palesavano alla cassa, ordinando in un nanosecondo vassoi stracolmi di cibi e bevande, mostrando semplicemente lo schermo del telefonino. Ecco, in quell'istante mi sono sentito come Troisi e Benigni in "Non ci resta che piangere", ma al contrario: ero io quello restato indietro, nel tempo. Così ho mandato un messaggio (scritto) a tua sorella, che lesta me ne ha mandato un altro (vocale) per dirmi che "quelle sono le offerte del Mèc" e che "se tipo usi la loro app risparmi" (ha detto proprio così, "se tipo usi la loro app"), "invece di un menù a sette euro te lo fanno pagare tipo tre euro" (ha detto proprio così, "tipo tre euro") e che "tipo a Natale ne fanno un sacco ed è bellissimo" (ha detto proprio così, "tipo a Natale" ed "è bellissimo"). Le ho risposto con un vocale anch'io, per sentirmi meno superato: "Grazie Giorgia, è bellissimo, tipo bellissimo, tipo davvero".


sabato 25 agosto 2018

Ottocentottantotto (Caro amico ti scrivo)


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Non hai volto e ne hai mille, insieme. E sia che conosca il tuo nome o che mi sia sconosciuto è per te (e per me) che metto queste parole in fila, cercando ogni volta di cavarne qualcosa che meriti di restare nero su bianco, ignorando le inesorabili leggi del cosmo ("tutto ciò che c'è di importante è già stato scritto e comunque tutto, ma proprio tutto, finisce per essere dimenticato") e aggrappandomi a quel bisogno innato nell'essere umano, di comunicare, di entrare in relazione l'uno con l'altro.
Tre otto. Un numero che a pronunciarlo riempie la bocca, costringendo la lingua a battere a mitraglia tra denti e palato: ottocentottantotto.
Ottocentottantotto, i post che finora qui ho pubblicato, tanti da far invidia a un Diderot o a un Tolstoj, senza averne per fortuna l'ambizione e il talento.
Scrivere è stata la scintilla, la molla a scatto per farmi diventare ciò che sono: un lettore onnivoro, accanito.
C'è stato un tempo in cui per mestiere e per diletto scrivevo un sacco. La vena non si è inaridita, basta uno spazio bianco, vuoi di fronte a un computer, vuoi sul display del telefonino, affinché le sillabe si compongano da sé, lasciando alla ragione e all'orecchio l'attività di cesello.
Alla scrittura e alla lettura debbo molto, principalmente la capacità di ragionare con la mia testa, di formarmi un pensiero proprio, coltivando le virtù alle quali sono più affezionato: l'apertura mentale, l'insistenza del dubbio, la tolleranza nei confronti di chi è differente da me, il desiderio di conoscere, la capacità sintesi e di approfondimento, l'indispensabilità del dialogo.
Perciò continuo a leggere molto (nelle ultime settimane "Il Conte di Montecristo", "Paolo VI, una biografia", "Il lupo della steppa", "Un eroe borghese") e a scrivere, non più per mestiere, soltanto per il piacere di creare un filo rosso e di tesserlo, intrecciandolo con le storie di chi passa di qua e butta un occhio.
Se procedo a ritroso e lo osservo dall'alto noto gli argomenti variegati, gli stili diversi che compongono questo blog, che in quasi undici anni mi accompagna fedele, senza pretendere troppo. Ultimamente la forma che preferisco, direi l'unica che non stride con un certo cinismo o disinganno che si è andato formando, è quella dell'epistola, della scritto indirizzato a qualcuno.
L'ho già fatto nei mesi recenti e vorrei continuare, nel futuro prossimo, con maggior costanza e senza tentennamento, inviando lettere senza spedirle, omettendo talvolta il nome, mai il volto - almeno nella mia testa - a cui sono indirizzate.
"Caro amico ti scrivo", insomma, così non mi distraggo, neanche un po', e la persona rimane saldamente al centro, senza che l'idea prescinda da tutto, prendendo ottusamente il volo.

domenica 5 agosto 2018

A come Agosto (e come vAccanza, con due c)


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C'è chi si accontenta di poco, io di moltissimo.
Due giorni a casa da solo, un fine settimana regalato dalle persone che mi vogliono più bene e che sanno quanto apprezzo l'abitazione di famiglia, l'ombra del sottotetto, i refoli di aria che lieve o forte da nord soffia sempre, le comodità dell'elettronica, le parole da leggere, le compagnie improvvisate e occasionali e soprattutto il tempo davanti senza ostacoli, gabbie o impedimento.
E' un bell'agosto, che dà modo di sentirmi appieno umano e invita a dire grazie per ciò che ha valore grande, nonostante sia in apparenza piccolo.

Cinque esempi.
  • Le discussioni davanti a un aperitivo o a cena, attorno a un tavolo, parlando del più e del meno, condividendo, confrontandoci, cambiando idea o rafforzandola, se è il caso.
  • Le chiese aperte a mezzogiorno (sono sempre meno e mi spiace, anzi, credo dovremmo rifletterci, invitare a un cambiamento, poiché non è possibile che sia nei paesi sia in città in pausa pranzo si possa fare di tutto, tranne entrare e sostare nei luoghi dedicati allo spirito).
  • I messaggi inviati senza uno scopo preciso, soltanto per dire: "Ciao, mi sei venuto in mente, volevo salutarti e dirti che mi ricordo di te e che per qualsiasi cosa ci sono".
  • I libri, attraverso i quali viaggio ovunque, nello spazio e pure nel tempo (da una settimana faccio compagnia al Conte di Montecristo, capace di sorprendermi in ciascuna delle mille e trecento pagine che mi porto appresso)
  • La frutta e la verdura di stagione, nell'orto e ancor meglio nel piatto.
P.S. Giorni così a casa nostra li chiamiamo "vaccanza", con due c, per sottolineare come l'unica regola sia fare ciò che più aggrada, senza altro limite che rispettare la libertà altrui di trascorrere a loro volta momenti simili.

martedì 10 luglio 2018

Qua la zampa (Complimenti per la maturità)


“È andata bene”. Tre parole, due righe in cronaca, per farmi sapere che anche l’orale della maturità l’hai superato e che da oggi è festa, senza pensieri, uno stacco che hai meritato.
Per cinque anni ti ho vista studiare e impegnarti come io al liceo non ho mai fatto, a volte andare a letto tardi e alzarti prestissimo, ripetendo la lezione con i libri di fronte e il cellulare in mano (per cinque anni il cellulare è stato il tuo vero compagno, ammettiamolo).
Per cinque anni ti ho osservata sorridere, concentrarti, piangere persino, andare in crisi, ridere con le tue amiche del cuore, affezionarti a qualche insegnante, detestarne altri, mandare messaggi, riceverne (con quel modo buffo, ora, per ascoltare i messaggi vocali, con il telefono attaccato all’orecchio dalla parte in cui di solito io parlo).
Per cinque anni ti sono stato accanto pure senza esserti fisicamente vicino, sapendo che non avevi problemi di rendimento, più preoccupato che crescessi serena, poiché la scuola è molto ma non è tutto.
Preoccupato lo ero anche stamani, non per il risultato finale, bensì perché l’esame è una prova per i nervi più che per la mente e i nervi non sempre rispondono a comando.
Mi dicono che a parte un tremolio iniziale della voce e un lungo sospiro tra un capoverso della tesina e l’altro te la sia cavata egregiamente, tenendo la tensione nel recinto.
Sono orgoglioso di te, come dei tuoi fratelli, per come vi state comportando.
Voi siete il mio punto più debole, quello che istintivamente proteggo, come fanno i cani quando si sentono attaccati e si accucciano ritirando e nascondendo più che possono le zampe, rispondendo ad un richiamo atavico, che li porta a preservare ciò che hanno di più delicato e insieme prezioso.

P.S. Le zampe. Non l'addome, la coda, il muso. Le zampe sono ciò che tutti gli animali che ne sono provvisti istintivamente proteggono. Le zampe perché attraverso esse ci si può procurare il cibo, si può attaccare, soprattutto ci si può difendere nel modo più efficace in natura conosciuto: scappando. Non è un caso che, per i cani, porgere la zampa è un gesto di fiducia assoluta, di "amicizia". A volte, Giorgina, vorrei essere come loro, che senza parole sanno esprimere quanto provano. "Qua la zampa" allora. E complimenti di nuovo.

domenica 8 luglio 2018

Tu non avere paura (E mantieniti saldo)


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Se si procede spediti gli ostacoli si avvertono meno. L'ho constatato stamattina, mentre correvo e tu con la bicicletta mi pedalavi accanto.
Il sentiero nel bosco era irto di pietre e man mano che procedevi rischiavi di perdere l'equilibrio. "L'equilibrio - ti ho detto - è più facile da trovare se si va veloci".
"Ci sono i sassi" hai replicato, eppure anche per i sassi vale lo stesso: andare svelti è un trucco per sentirli meno, per superarli di slancio. "Per farlo occorre innanzi tutto coraggio, non temere di incespicare, di ruzzolare a terra, importante è concentrarsi, mantenere la tensione nelle braccia, tenendo saldo il manubrio".
Mi hai ascoltato, anche se non ti ho affatto convinto. Un secondo dopo, lo sguardo serio serio, con i tuoi dieci anni asciutti asciutti e le gambe da merlo, hai stretto le manopole fino a farti diventare bianche le nocche e guardando dritto sei partito a razzo, pronto a dimostrare che paura non ne avevi e anche se l'avevi non volevi ammetterlo.
Per un chilometro e mezzo non hai proferito verbo, poi quando la campagna è finita e le ruote hanno toccato l'asfalto liscio ti sei illuminato e nonostante i venti metri che ci separavano ti ho sentito esclamare contento: "Oh, qui sì che è bello".
Già. Quando tutto fila liscio è bello, eppure non ce ne accorgeremmo senza affrontare e superare gli ostacoli che troviamo lungo il cammino. Grazie per avermelo ricordato.

giovedì 5 luglio 2018

Radici profonde e ali spiegate (Benvenuto K)


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Sei arrivato tra noi, asciutto di fisico e con un carico di cui intuiamo la dimensione, non la portata piena, che certe storie sono scritte a fuoco sotto pelle e si apprendono con pazienza, nel tempo.
Ti abbiamo conosciuto quel tanto che basta per aprire la porta e lasciare entrare insieme a te pure un destino, che ci legherà a prescindere da ciò che accadrà in futuro, comprendendo che tu sei per noi soprattutto questo: un dono.
Hai radici prodonde, anche se per buona parte della vita ti sentirai uno sradicato. Una sensazione comprensibile, che tuttavia non dovrà farti da intralcio: la vita con te ha messo le cose in chiaro da subito, puoi rifiutarlo ripiegandoti su te stesso oppurte accettarlo e spiegare le ali, sfruttando la scia dei tuoi numerosi talenti e cercando pace, gioia, serenità nel buono che saprai trovare, guardando al bicchiere che è pieno sempre, almeno mezzo.
"Tu sei destinato a fare da ponte" ti ho detto l'altra domenica, mentre osservamo gente differente, che di uguale ha soltanto il colore del sangue e un cuore che batte, nel petto.
Tu sei destinato da fare da ponte e lo stai già facendo, poiché grazie a te abbiamo incontrato persone che non conoscevamo, creando relazioni e legami. Ecco perché sei per noi un dono, ecco perché dico grazie a chi ha permesso che i nostri cammini si incrociassero, sperando di essere per te trampolino di lancio e non palla al piede, che di pesi e zavorre è già pieno il mondo.

lunedì 2 luglio 2018

Il palombaro di ritorno (scriviamoci e incontriamoci di più)


Nell'attuale società liquida informazioni e relazioni sono fitte, eppure restano quasi sempre in superficie.
Ed io, che pur in questo mare navigo a mio agio, avverto sempre più spesso il desiderio di tornare ad essere il palombaro che ero da ragazzo: più solo, ma anche più capace di "nuotare profondo".
Che poi, ridotto in spiccioli, si potrebbe tradurre in qualche desiderio.
Vorrei tornare a scrivere delle lettere, ad esempio. Lettere, non messaggi, nessun epigramma, niente faccine che piangono o sorridono. Fogli di carta bianca, vergati a mano, possibilmente con penna a stilo. Al più, delle mail, indirizzate agli amici e alle persone che stimo.
Vorrei tornare soprattutto a "incontrarmi", quei momenti comuni di discussione, di confronto, di dialogo, che quando ero ragazzo non passavano due sere di fila senza che ce ne fosse uno. Politica, scuola, religione... Ogni spunto era buono. In quella fucina sono stato forgiato, ho imparato attraverso gli altri a formarmi una coscienza, che poi diventava patrimonio comune, condiviso. In quelle serate dicevo la mia, ascoltavo parecchio, cambiavo idea pure quando la mantenevo, nel senso che non era raro si rafforzasse, anche soltanto per doverla affinare con l'obiettivo di esporla o di puntellarla affinché assorbisse l'urto avversario.
Mi mancano quei momenti, lo ammetto. Credo che nell'attuale scorrere dei giorni, connessi in ogni istante come siamo, ciascuno con gli occhi puntati sul proprio telefonino, sia sempre più urgente la necessità di "riunirsi", di luoghi anche fisici di scambio.
Se è vero infatti che in un certo periodo storico ne abbiamo abusato (mi viene in mente il post Sessantotto e certe tendenze all'assemblearismo), oggi rischiamo l'esatto contrario, cioè l'assenza, l'autoreferenzialità, il vuoto, ciascuno che va avanti con il proprio paraocchi, vince chi urla di più e non importa se capisce di meno.


lunedì 25 giugno 2018

Lo so (Chi chiude la porta è perduto)


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Sì, lo so. Lo so che tra noi sei colui che più ci va di mezzo, che devi subire le conseguenze più forti, che non sei abbastanza piccolo da poterti lamentare né abbastanza grande da non farci caso. Lo so che è così e che sei incavolato per questo, e anche preoccupato, di perdere i tuoi spazi, la tua autonomia, forse anche un pezzetto del nostro bene o delle nostre attenzioni.
Lo so, perché per me sarebbe lo stesso. Per me è lo stesso, anzi. Provo infatti anch’io preoccupazione e dispiacere e irritazione persino, sapendo che parte del mio tempo libero non sarà più tanto libero, che l’apprensione avuta per voi tre “piccoli” tornerà attuale e non sarà più soltanto un ricordo passato, che dovrò dividere i miei spazi, cambiare alcune abitudini, tornare a barattare un po’ di intimità, dedicare a qualcun altro parte delle energie che pensavo di poter riservare per me stesso o al massimo a voi tre.
Non basta. Ho paura soprattutto. Paura di non essere un bravo adulto, un buon modello di riferimento per il nostro ospite. Più di ogni altra cosa però ho paura di rovinare il rapporto con voi, soprattutto ho paura di “perdere” l’equilibrio famigliare per aver voluto aggiungere un nuovo tassello, per aver fatto una scelta che come tutto questo tipo di scelte - avendo a che fare con l’umano - è sempre un salto nel buio.
Capisco il tuo disagio, la tua irritazione, il tuo fastidio. Lo capisco perché - ripeto - alla radice non è differente da quello che al tuo posto proverei io.
Capisco tutto questo, tuttavia è altrettanto vero che lo rifarei, anche se potessi tornare indietro.
E non lo farei per K., che magari in un’altra famiglia sarebbe stato meglio che da noi.
No. Lo rifarei per noi, per me. Lo rifarei perché so, perché mi è stato insegnato dal nonno e dalla nonna per primi, con l’esempio, che non si può ottenere la felicità chiudendo il recinto, non si può preferire la tranquillità, il mondo perfetto, chiudendo la porta a chi è più sfortunato di noi, a chi ha avuto meno. Non si può, non è giusto, crearsi la propria scialuppa super confortevole ed evitare di aprirsi al destino, a ciò che di misterioso riserva il nostro cammino nel mondo.
Abbiamo avuto molto dalla vita, caro Giovanni, abbiamo il dovere di dividerlo, perché soltanto “dividendo” il bene viene moltiplicato.
E lo scrivo a te, senza giri di parole, perché sei al mondo la persona che più mi assomiglia, perché ti voglio un bene sconfinato, incommensurabile, perché non smetterai mai - mai!!! - di essere il mio cucciolo, il mio piccolino, ma anche perché so di poterti parlare con sincerità, senza veli, come a un adulto.
Perdonami perciò se ti stiamo facendo provare dispiacere in questi giorni e aiutaci a starti vicino, come prima, più di prima.
Con te ho un rapporto unico e mi piaci così come sei, con i tuoi pregi e i tuoi difetti, come difetti (molti) e pregi (qualcuno) ho io.
Ti abbraccio fortissimo e non vedo l’ora di farlo di persona,
Tuo Padre

giovedì 14 giugno 2018

Diventare grandi (La stagione di Zaccaria)

Sulla battigia, a due metri dalle onde placide del mare, un bimbo siede gaudente con gli occhi fissi sulle mani minuscole, sporche di sabbia. Attorno a lui, disposti a semicerchio, in piedi, sei anziani, simili a colonne, che lo osservano silenti e compiaciuti, novelli Zaccaria che contemplano quello che per loro pare insieme Gesù Bambino e Giovanni Battista.
Appena incontrati non vi ho fatto caso, se non distrattamente. L'immagine però mi è rimasta impressa e per giorni e giorni l'ho ruminata, inconsciamente, finché ieri l'altro, di mattina, chiacchierando con Paolo e Beppe si è accesa la luce, una lampadina.
Fino a sessant'anni fa si partiva in tanti e alla vecchiaia giungevano pochi. La nostra società era zeppa di infanti, di giovani e con pochi anziani, che non a caso venivano messi al centro dell'attenzione, oltre che della tavola.
Ora è il contrario: la clessidra si è capovolta, si campa a lungo, ma le nascite sono merce rara ed è naturale che i pochi bambini siano posti su un piedistallo, soggetti di mille premure e coccolati, riveriti, venerati, mantenuti idealmente nella culla anche quando hanno gambe e braccia forti per conquistare il mondo e non soltanto per fare merenda.
Non basta. Pure la fascia di mezzo, che è poi la mia, paga dazio a questo cambiamento.
A illuminarmi, questa volta, è stata Ambra, con le parole commoventi con cui oggi ha salutato per sempre la sua mamma. "Attraverso questo dolore siamo più grandi" ha detto. È vero. L'ho provato sulla mia pelle e ne resto convinto: si diventa adulti passando per la sofferenza, per la malattia, per la morte di chi ci ha generato, partorito e cresciuto, chiunque esso sia.


P.S. Che poi, a pensarci bene, è una lezione ricevuta mille volte, proprio da bambino, ma a cui ho fatto sempre poco caso, non riuscendo appieno a comprenderla. Accadeva quando mi sbucciavo un ginocchio o facevo un capitombolo e mi mettevo a piangere, disperato, venendo consolato da un abbraccio, da un bacio e dall'immancabile frase: "Dai, che sei diventato più grande". Grande, non alto, come invece fraintendevo perplesso allora. "Più grande". Più saggio, più adulto. Migliore insomma, anche se meno innocente, e a volte più triste, di prima.

venerdì 11 maggio 2018

Nel mezzo del discorso (La politica spiegata ai miei figli)


Seduti alla stessa tavola, per cena, stiamo di rado. Soltanto noi, intendo, senza avere per ospiti parenti o amici vari.
Imploro le vostre scuse perciò se ieri l'altro vi ho annoiato organizzando tra i primi piatti e il companatico una sorta di comizio, inalberandomi e non poco, quasi avessi davanti un pubblico vasto e ostile, mentre voi ascoltavate con vago interesse persino.
Così dopo mesi di un ruminare in solitaria per evitare le bagatelle di chi ai ragionamenti preferisce il tifo da stadio, non mi è parso vero di potermi ergere su un trespolo (che non avevo) e fare un discorso in famiglia come fossi tra gli scranni del parlamento.
Chiedo perdono a te, per prima, Isabella, se cinque volte hai tentato di inserirti nel discorso e per cinque volte sei stata rimbalzata, che una simile veemenza dovevano contrastarla neppure le suffragette di inizio Novecento.
Domando venia a te, Giacomo, con il quale pure parlo spesso di politica e l'altra sera, dopo i primi dieci minuti di attenzione, in tre occasioni hai cercato di sgattaiolare dalla cucina alla zona giorno e per altrettante volte sei stato richiamato, in un paio di circostanze anche con malcelata stizza da parte mia, come colui che sta decidendo i destini della nazione e teme che coloro che gli sono vicini non si rendano conto dell'ora "segnata dal destino" che stiamo vivendo.
I miei rispetti a te, Giovanni, unico che, dati i tuoi sedici anni e una serata che ti vedeva particolarmente su di giri, hai visto tollerato un interesse evidentemente parziale e hai sbirciato continuamente il telefono e cercato di far ridere di sottecchi tua sorella, con smorfie buffe e ammiccamenti per prendermi in giro.
Onore a te, Giorgia, la sola a sembrare colpita davvero, con domande che a tratti mi hanno infervorato, a tratti invece indispettito (per l'ingenuità o perché spesso non capivi e così dovevo ripetere, assumendo lo stesso atteggiamento - tra l'altro - che aveva la mia odiatissima professoressa di matematica al liceo!).
Ho esagerato, lo so, cercando di compensare con voi una sorta di aventino che per eccesso di razionalità o per cinismo o per codardia, sui temi politici, in questi mesi mi sono cucito addosso.
Ma ciò sarebbe nulla se non confessassi la vera colpa e il motivo autentico per cui ho scritto tutto questo: approfittando del vostro fuggi fuggi, durante la prima pausa del mio accorato comizio, ho finito tutto il mezzo chilo di fragole con il succo di limone che c'era sul tavolo, approfittando del fatto che nessuno nella mezz'ora successiva ha osato riaffacciarsi nelle vicinanze. E ciò vi serva da lezione: sei voi non vi interessate di politica, la politica si interessa di voi e fa sparire le cose che contano.

P.S. "Fragole a parte, qual era il nocciolo del discorso che l'altra sera hai tenuto, Giorgio?". Qualcuno, qualche sconsiderato, se lo sarà chiesto. E se così non fosse, come temo, io non vedo comunque l'ora di dirlo. La premessa era questa: non siate negativi o pessimisti, dimenticate per un momento nomi e volti e storie personali e proclami e polemiche di questi mesi, poiché il teatro di oggi è nel nocciolo identico a quello a cui da decenni assistiamo, mentre dovremmo essere interessati a comprendere se esiste qualcosa di nuovo, di epocale oserei dire, che merita di essere sottolineato con un pennarello rosso e studiato con la cura e la passione con cui l'entomologo osserva un coleottero mai prima visto. La risposta è: sì, c'è a mio parere qualcosa di inedito, di curioso, interessante, di potenzialmente in grado di segnare una svolta e una rottura con il passato. Magari, la prima volta che tornano in tavola le fragole, fatevi invitare a casa mia e ne riparleremo.

sabato 28 aprile 2018

L'acqua del pozzo (Chi siamo e come decidiamo di apparire)


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Non sei mia figlia, pur se potresti esserlo, con i tuoi anni dispari anche quando sono pari, quel corpo sbocciato in fretta e mille pensieri in testa. Ne conosco soltanto una parte minima, una virgola, ciò che traspare dal sorriso ampio quando ti incontro e dal ricordo di qualche momento condiviso, in cui mi era sembrato di comprendere tutto e invece non sapevo nulla. Fuori sei marea placida, onda leggera del mare quando sale la brezza, dentro invece è un pozzo, che a volte mi pare acqua torbida, nonostante resti convinto sia colpa dell'ombra e che in realtà sia come l'ho sempre immaginata: cristallina.
Penso a cosa ricordo di te, all'impressione avuta, fatico a ritrovarla quando inciampo nelle immagini che pubblichi, in ciò che scrivi, con un linguaggio che urta e ti calza come una scarpa larga, sgualcita.
Rimango incerto se la ragazza che conosco, da quel frammento che rammento e da cui ti ho ricostruita, sia la stessa che fa mostra di sé provocando, assumendo una posizione estrema.
Credo di sì, sei la stessa. Ne sono certo anzi. Sono io che non ti conoscevo abbastanza (nessuno si conosce mai abbastanza) e sei tu che decidi di apparire esagerata, di recitare una parte, anche se è una parte vera.
Do la colpa all'età, a quella fase della vita in cui si forma una personalità adulta, ma mi rendo conto di essere superficiale o, peggio, di dire una bugia.
Tu non sei differente da chi è più grande di te: ciascuno di noi indossa una maschera, bella o brutta che sia, chi più bravo e chi meno a rifarsi il trucco ogni mattina, chi più abile e chi meno a coesistere con serenità alle incongruenze, alle debolezze, ai limiti della natura umana.
Tu non sei diversa dagli altri e mentre lo scrivo mi rendo conto che quanto considero una rassicurazione potrebbe suonare alle tue orecchie come una sconfitta, poiché ciò che cerchi è proprio la diversità, la capacità di evidenziarti, di ritenerti unica.
Metteti il cuore in pace. Unica lo sei, lo sei sempre stata, dalla prima scintilla che ti ha dato vita alla scelta del vestito che indosserai questa sera. E prima di scrivere qualsiasi cosa ricorda che c'è chi ti guarda e merita la parte migliore di te, non spazzatura.

P.S. Avrei voluto pubblicare un post sull'importanza del contesto, del distinguere la vita reale dai social, del fare attenzione al linguaggio che usiamo. L'ho fatto.

domenica 22 aprile 2018

Brava Giulia (Fiducia nel futuro)



Fiducia. Una parola che non uso spesso, un sentimento che raramente esige di essere pronunciato: quando c'è, sta in piedi da solo, senza necessità di evocarlo.
Faccio eccezione, poiché in questi giorni la sento particolarmente presente, soprattutto abbinata ai termini "giovani" e "futuro".
Sarà che nei mesi recenti ho ricevuto un regalo stupendo, quello di stare a contatto e lavorare con i ragazzi delle scuole superiori, un'esperienza che si somma alla compagnia dei miei figli, anch'essi più o meno di quell'età, con ogni contatto che diventa occasione di scambio, iniezione di positività, di ottimismo, confermando ciò che già sapevo: il mondo è una ruota che gira, quasi sempre in meglio.
Ieri l'altro poi si è laureata Giulia, mia nipote, dimostrando una caparbietà, una determinazione, pure un'ambizione che molte ragazze della generazione precedente non avrebbero avuto. Sono così orgoglioso di lei, che non si è limitata a seguire un solco già segnato, costruendosi piuttosto un percorso e un destino. Molto resta ancora da fare, è vero, la laurea al giorno d'oggi non è un punto di arrivo, semmai una base di partenza, un possibile trampolino, tuttavia merita un applauso l'esserci saliti, aver compreso che l'avvenire si gioca innanzi tutto puntando in alto, cercando ciò che genera passione e dà soddisfazione davvero.

P. S. Non sono uno dei suoi moltissimi fan, sulla persona in sé ho anzi motivate riserve, tuttavia c'è una canzone di Vasco Rossi che fa da colonna sonora perfetta di questo post. Soprattutto il ritornello: "E brava Giulia, e brava Giulia / prenditi la vita che vuoi / E brava Giulia, e brava Giulia / sceglitela, certo che puoi". Brava Giulia, te lo dico anch'io, per tua fortuna (di tutti) senza cantarlo. La vita non si subisce: si sceglie. Una lezione che ci hai dato, insieme a tutte quelle che a tua volta hai imparato.

sabato 14 aprile 2018

Eravamo quattro(mila) amici al bar


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Baglioni e i suoi occhi scuri sono diventati grandi insieme e negli ultimi dieci anni mano nella mano si sono accompagnati pure i social network e questo blog.
Un bar. Così Pierluca Santoro descrive Facebook. Un bar, un luogo dove passare spesso o raramente o di tanto in tanto, per incontrare gente, per dire la propria, per sapere cosa pensano gli altri, come vanno le cose, quali gli argomenti più discussi.
In quel bar mi sono trovato bene e per anni ho accettato che diventasse più grande, con un'ampia cerchia di amici (conoscenti, sarebbe la definizione corretta), andando d'accordo con alcuni e limitandomi a osservare gli altri, proprio come in un bar, dove attorno al tuo tavolo sono pochi, molti quelli che sbirci e ogni tanto incappi in qualcuno di nuovo o scambi due parole, mentre ti alzi per andare al banco e ordinare un'altra bibita.
Un paio di mesi fa, per la prima volta, ho cambiato registro e accompagnato idealmente alla porta del "mio" bar chi non sopporto più, comprese persone che conosco di persona e di cui mi ritengo amico ma che lì - in quella bolla che molti si ostinano a ritenere vita ma rimane sempre e fondamentalmente un bar - mi risultano fastidiose come mosche nella minestra.
Breve elenco.
I negativi. Gli odiatori. Coloro a cui non va mai bene niente. I detentori della verità assoluta. Chi tifa contro (in maniera seriale, senza usare leggerezza e ironia). Quelli che hanno la puzza sotto il naso. I saccenti. I diffusori di falsità, bassezza, violenza.
Prima li tolleravo, adesso li cancello, talvolta con amarezza, altre con soddisfazione, come quando ci si libera da una zecca.
Alcuni, rarissimi, invece li conservo, pur appartenendo a una o addirittura a più delle categorie indicate qui sopra. Lo faccio non per masochismo, bensì per ricordare che il pensiero unico è comunque pericoloso, che l'omologazione è rischiosa e per continuare ad indurre, però in dosi omeopatiche, un moto di reazione, di indignazione, di ribellione alla stupidità umana.
P.S. Perché come mi ripete spesso Paolo Ferrari: "A dire sì siamo capaci tutti, ma sono i no che fanno crescere, perché marcano una differenza e costringono a un cambio di rotta".

martedì 10 aprile 2018

La tentazione del silenzio


Scrivo a molti, quasi mai a me stesso.
Dovrei farlo, più spesso, per ricordare il ragazzo che ero, quanto sono cambiato, quali invece le impronte immutabili, ciò che mi emoziona e quello che invece mi fa serrare la mascella e masticare amaro.
Mi commuovo parecchio. L'ultima volta qualche giorno fa, durante la registrazione del programma che conduco, alla visione di un breve video commissionato dall'Ats al Media Center dell'Eco.
Il tema era quello delle dipendenze, con i ragazzi di quarta superiore che l'hanno realizzato ribaltando la prospettiva, mostrando alcuni atteggiamenti che rafforzano l'autostima, che producono una specie di anticorpi per evitare che la difficoltà diventi disagio.
La scena era semplice: un bimbo che sbaglia il rigore, suo padre che ci rimane male eppure non smette di incoraggiarlo. Balzo in avanti e otto anni più tardi quel cucciolo d'uomo, diventato nel frattempo un giovanotto, segna e va ad abbracciare il genitore che l'ha sempre sostenuto.
Quando siamo tornati in studio avevo i lucciconi agli occhi e un po' me ne vergognavo. Per fortuna la regia mi ha tratto d'impaccio, impostando inquadrature da lontano o almeno non tanto vicine da notare un paio di lacrime che nel frattempo rigavano il viso.
Ho letto da qualche parte che le persone forti sono quelle che si commuovono più facilmente: io devo essere fortissimo.

P.S. Ho un ringraziamento particolare da fare, a coloro che passano da qui e mi leggono e me lo fanno sapere e si lamentano se sono pigro e mi sostengono. Già, mi sostengono. La vita non è mai una linea retta, c'è stato un tempo in cui per passione e per mestiere o qui o sul giornale scrivevo ogni giorno. Quattro anni fa altro giro di giostra, una nuova opportunità, un modo di comunicare diverso e molti fogli bianchi, un po' per scelta, un po' per caso. Spesso mi capita di preferire la lontananza, l'assenza, il silenzio, da contrapporre alle molte chiacchiere, alle parole in eccesso, al rumore di fondo costante che diventa di volta in volta sibilo, borbottio, frastuono. In queste settimane avverto tuttavia  l'urgenza di non abdicare, di far sì che la moderazione non si trasformi in accidia, disimpegno, indifferenza. Mettere a frutto il talento, non seppellirlo sottoterra insomma, poco o tanto che sia. Per farlo userò uno stratagemma, scriverò di volta in volta a qualcuno di voi, anche senza mettere il nome, per non creare imbarazzo. Non sarò insistente, ma nemmeno assente. Il filo annodato più di dieci anni fa merita di continuare ad essere tessuto.

sabato 31 marzo 2018

La mano nella tua


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Mi hai tenuto la mano nella tua, per tutto il tempo, la pelle morbida quanto quella di un bambino e anche sul volto era distesa, liscia, senza un ruga nonostante gli anni e il male che, dice mia madre, ti ha scavato nel profondo.
Non ci vedevamo da anni, sapevo che ti eri ammalata, ma come al solito ho badato più a correre, rimandando di mese in mese, di giorno in giorno.
Oggi mi sono deciso, ti ho trovato nel letto di un ospedale, debole eppure serena, con gli stessi occhi chiari e mansueti e dolci che ricordavo.
Hai l'età di mia mamma, tuo marito è stato il miglior amico di mio padre, sono cresciuto frequentando casa vostra e andando in vacanza insieme, quando ero piccolissimo. Poi i momenti d'incontro si sono diradati, non a scapito della qualità: bastava una visita, un saluto, un bacio, un abbraccio, per riportare quell'intimità che distingue l'amicizia autentica dalla conoscenza vaga, il bene profondo da quello blando. Le occasioni più piacevoli erano le serate in cui vi venivamo a trovare e si chiacchierava tutti insieme fino a notte fonda, io poco più che ragazzo, al pari dei tuoi figli, tuo marito mattatore indiscusso, come sanno esserlo coloro che non conoscono vie di mezzo ed esiste soltanto il niente o il tutto. Tornando a casa, in auto, con mio padre e mia madre commentavamo i discorsi fatti, tornavamo a ridere delle battute, talvolta mi addormentavo, altre invece finivo per cantare con mio papà, che aveva voce di tenore e quando era allegro non risparmiava il fiato.
Mi hai fatto un regalo oggi, ricordandomi che nella vita più di tutto importa perdonare e voler bene, cominciando da chi ci è vicino. Augurio migliore non potrebbe esserci per la giornata di domani, che è Pasqua di risurrezione e ci rammenta che anche se noi prima o poi ce ne andiamo, sempre vivo rimane ciò che c'è di mite, di buono.

sabato 24 marzo 2018

Alzati e cammina (Contro la tentazione dell'indifferenza)


Tu mi osservi, anche senza guardarmi, e io mi sento in colpa, perché non sono come dovrei essere, perché all'impegno preferisco lo svago, perché rinuncio a mettermi in gioco, perché accampo scuse e quasi sempre taccio, anche quando non sono d'accordo e mi trovo di fronte un'ingiustizia, una scorrettezza, un sopruso.
Labile è il confine tra la pazienza e la rassegnazione, tra la calma e la pigrizia, tra l'equilibrio e l'indifferenza, tra l'ascolto e il silenzio, tra l'essere rispettoso o vigliacco.
Mi vengono in mente le parole di Victor Hugo: "Ogni virtù può sfociare in un vizio".
Tu mi osservi, anche senza guardarmi, mentre il mondo cambia e non so mai se in meglio o in peggio. Vorrei proteggervi, tu e i tuoi fratelli, creare una bolla, fermare il tempo, limitare lo spazio.
Sto fermo. E forse questo è il peccato più grande: rinunciare in partenza, per partito preso, senza rischiare almeno un primo passo, senza prendere posizione per paura di essere giudicato.
Riconosco le buone ragioni di ciascuno, è vero, e di questo spesso faccio vanto, tuttavia è vanità che porta a nulla senza il coraggio di affermare accanto al giusto pure cos'è sbagliato.
C'è un termine desueto ma preciso per definire un simile atteggiamento: ignavia.
Lo scrivo qui, perché ne avverto l'odore, la presenza, come un pericolo di questo tempo, in primis per me stesso.
Tu mi osservi, anche senza guardarmi, e io so cos'è giusto e cos'è sbagliato. Prima o poi, oltre a saperlo, dovrò anche farlo.

P.S. Grazie a Lara, che ho incontrato questa mattina, per caso, e che mi ha dato un consiglio spicciolo quanto prezioso: "Fai quello che ti senti di fare". Ha ragione lei e vorrei essere tanto risoluto da passare dal rendersene conto al cambiare davvero.

lunedì 5 febbraio 2018

Otto lettere (Auguri Giorgina)


D’accordo, il segreto è guardare le cose dall’alto, possibilmente dai titoli di coda, poiché - checche se ne dica - il finale fa sempre la differenza, nei film e nei libri come nella vita, quando si mette tutto in fila e si distingue il buono dal gramo, i rimorsi dai rimpianti, la verità dalla bugia.

Il primo giorno in cui sei nata non lo ricordo perfettamente, so che eri in anticipo di un mese, a differenza dei ritardi con cui rincasi spesso ora, la sera. Allora come oggi non ne ho mai fatto un dramma, sapendo che sarebbe impossibile, oltre che contro natura, metterti sotto una campana di vetro, pretendere di proteggerti “togliendoti” dal mondo. Per questo fin da quando eri bambina ho cercato di intrecciare per te due sentimenti che stanno in piedi soltanto se vanno a braccetto: coraggio e fiducia.

Ci sono attimi di noi a cui sono più affezionato. Ad esempio la mattina presto quando per svegliarti ti sussurro all’orecchio frasi che vorrebbero essere divertenti e tu sorridi anche se divertenti non ti sembrano affatto e nove volte su dieci manderesti a quel paese chiunque. Chiunque, tranne me. A conferma di quanto forte è il legame degli affetti, il considerarsi speciali a vicenda.

I momenti brutti li vivono tutti, quello peggiore con te è stato una vigilia di Natale, undici anni fa. Ti avevano ricoverato per quella che pareva una banale febbre alta, invece il medico ci aveva chiamati per dirti che qualcosa non andava, che il tuo polso batteva strano, che occorreva fare accertamenti immediati e nel caso operarti al cuore, intervenire d’urgenza. Ricordo la corsa nei corridoi sotterranei del vecchio Sant’Anna, tu piccina piccina sulla barella, io che chiamavo tua nonna per dirle che non potevo andare a prendere all’altro ospedale tuo nonno, ormai in fin di vita, tacendo però su quello che stava capitando con te, per non spaventarla. Buio. Buio per una mezz’ora. Il silenzio delle stanze vuote, il ronzio dell’apparecchiatura che diagnosticava, l’attesa del responso finale. Luce. La luce della lampada accanto alla dottoressa della specialistica, la sua voce calda, le rassicurazioni, la mano di tua madre nella mia, le lacrime liberatorie sulle guance, tu sdraiata sul lettino con i capelli raccolti a treccia, nessuna malattia grave, nessuna operazione al cuore da fare, lo scampato pericolo e una gioia piana, immensa.

Oltre i singoli istanti memorabili del passato c’è l’attesa per la persona che sarai, la donna che già sei e che diventerai. Attesa, non ansia. Dare tempo al tempo è una lezione che ho imparato dalla vita, pur se comprendo la tua impazienza, il tuo desiderio di provare, di sperimentare, di crescere e diventare adulta. Non ti fermerò, non farò prediche mettendoti in guardia o ammonendoti che invece l’età più bella è la tua. Mi limiterò a questo: goditi sempre il tuo tempo, cerca di gustarne ogni istante, ogni  stagione, sappi vedere di ogni bicchiere il mezzo pieno e abbi sogni ad occhi aperti a cui pensare, specie quando chiudi gli occhi e vai a letto. Non conosco altre ricette per diventare una persona soddisfatta, realizzata, contenta.

T’innamorerai, come e forse più di quanto ti sia innamorata finora. T'innamorerai e imparerai ad amare, che rispetto all'innamorarsi non "capita", bensì richiede un moto di volontà, un'azione concreta, precisa. T'innamorerai e imparerai ad amare e soprattutto ad essere amata, pur se raramente incrocerai occhi identici a quelli che hai incontrato oggi, mentre ti veniva consegnato un ricordo piccolo ma prezioso, che parla delle tue radici e rimanda a quanto forte è il legame d'amore, che sbaraglia persino le barriere del tempo, dello spazio, della distanza. Siine fiera e testimone di quell'amore, a tua volta.

Ti ho detto quasi tutto, spero di non essere stato pedante.

Ormai sono alla fine di questo post, ho scritto molto. Otto capoversi, che - se ci fai caso - iniziano ciascuno con lettere che se le metti in fila compongono il numero dei tuoi anni, oggi: diciotto. Te l’ho scritto all’inizio: anche la vita è così e queste righe ne sono una conferma: per comprenderla devi “leggerla” fino in fondo e guardarla dall’alto, senza fretta. Auguri Giorgina.

giovedì 1 febbraio 2018

La notizia in prima pagina (Grazie Bruno)

("Andate al mare!" dice Jack Ma,
il fondatore di Alibaba,
suggerendo l'idea che dopo i sessant'anni
bisognerebbe mettere al primo posto
il benessere, fisico e mentale.
Io non credo che Bruno lo farà,
ma glielo auguro)
C'è un filo rosso che "rilega" ogni giornale con un'anima.
A La Provincia di Como quel filo per quarant'anni lo ha tessuto un uomo che da oggi è in pensione: Bruno Profazio.
Bruno Profazio a La Provincia non ha semplicemente lavorato quarant'anni. Bruno Profazio per quarant'anni "è stato" La Provincia.
Mi piace ricordarlo qua, per gratitudine personale, stima e pubblica riconoscenza.
Non sono stato mai suo amico, nel senso che sarei disonesto se dicessi che l'ho frequentato e conosciuto al di fuori di via Paoli. Di contro, non avendo egli maggiore interesse e orizzonte che il giornale, posso azzardare di averlo conosciuto benissimo, apprezzando in lui un sapere professionale che si è costruito come certi collezionisti pazienti, estraendo il meglio dai molti giornalisti eccellenti che ha avuto accanto, riuscendo a cavare e trasmettere il meglio di ciascuno, diventando a sua volta maestro.
Un maestro, e qui aggiungo un altro tassello per chi non conoscesse l'uomo, che è sempre stato distante dalla cattedra, preferendo insegnare con l'esempio, con uno stile da monaco certosino di cui per altro, a parte il saio, ha tutto: la voce tenue, il passo felpato, i modi bonari, una determinazione che lambisce la cocciutaggine, gli orari antelucani (anche se per esigenze di servizio rispetto ai frati i suoi erano capovolti: prima delle dodici e mezza in redazione lo vedevi di rado, nel pomeriggio si prendeva una pausa abbondante e poi dalle sei e mezza, sette, fino a quasi il sorgere del sole era una macchina che macinava e seminava notizie come fossero grano).
Riferiscono le cronache che a volte si sia pure arrabbiato e lo abbia fatto rivelando unghie e denti aguzzi, ma di questo non sono mai stato testimone diretto, per cui mi astengo da qualsiasi giudizio. Per parlare nel dettaglio di lui c'è chi è molto più qualificato di me, essendogli stato a fianco decenni, come Lillo, Francesco, Stefano, Gugu, Nicola, Mario, Gisella, Anna, le ragazze della tipografia e molti altri, specialmente quelli che lui prendeva sotto la sua ala protettrice, di volta in volta consolandoli, esortandoli, ammonendoli, rimbrottandoli, consigliandoli in quella sorta di confessionale laico e al contempo ufficio nelle relazioni con il pubblico che era per lui la macchinetta del caffè e del tè, nel corridoio.
Un paio di volte, lo ammetto, pure io sono stato "convocato" e "ammaestrato" a dovere in quel luogo, imparando che il modo migliore per non tornarci era capire le cose al volo ed evitare contenziosi che inevitabilmente lo avrebbero visto vincitore, non soltanto perché lui era assai più tenace di me, ma soprattutto perché - onestamente - in entrambi i casi lui aveva ragione e io torto.
Faccio un esempio. Le prime domeniche di servizio come capo cronista mi presentavo in redazione quando ancora non c'era nessuno, poco dopo mezzogiorno, e come il cartografo Pigafetta (la definizione non è mia, ma di un altro collega, Giorgio Spreafico) disegnavo menabò, ordinavo articoli, impostavo pagine, imbastivo copertine, abbozzavo titoli, così che poco dopo le sei di sera il giornale era già per quattro quinti a posto. Verso le sette e mezzo, otto, puntuale come la morte, si presentava Bruno, occhi chiusi a fessura, un mezzo sorriso, girando lo stecchetto di plastica nel suo bicchierino di tè, dando il via alla riunione di redazione in cui immancabilmente tutto veniva rivoluzionato.
Una, due, tre domeniche e anche io ero diventato come Lillo Frigerio, che si imbestialiva e cominciava un tira e molla che si protraeva fino ad oltre le dieci, finché io e lo stesso Lillo per sfinimento alzavamo bandiera bianca e ci adeguavamo nolenti o volenti a quanto richiesto. Finché, un mese dopo, alla macchinetta del caffè, ho capito come potevano cambiare le cose, in meglio. "Giorgino - mi disse Bruno sussurrando, senza guardarmi negli occhi fino alla fine del discorso - tu ti occupi della cronaca della città e io dalla cronaca della città ogni giorno devo avere almeno una notizia da mettere in prima pagina".
Il resto della frase non ebbe bisogno di aggiungerla, nella mente la composi io: "O sei bravo a trovarla presto tu, quella cavolo di notizia, oppure aspetti e alle otto di sera te lo do io e voi vi adeguate. Il resto va da sé, ma il giornale deve avere un titolo forte, ogni giorno. Punto".
Una lezione di giornalismo, oltre che di vita: le priorità definiscono un giornale, altrimenti è solamente un bollettino o la schermata di un social network.
Mi fermo qua, anche perché altrimenti più che un elogio pubblico prenderebbe la forma di un "coccodrillo" (che è il termine tecnico per definire l'articolo quando ci lascia, ma per sempre, qualcuno). Per fortuna invece Bruno sta benissimo, ha da poco compiuto cinquantotto anni e sono proprio curioso di sapere come si reinventerà ora, lontano da quella che è stata per quarant'anni la sua casa e la sua chiesa.
Anzi no, devo aggiungere un altro episodio, senza il quale non racconterei l'essenziale di Bruno Profazio.
Dieci anni fa, giugno 2008. Una delle prima riunioni di redazione, per me, a La Provincia. Tavolo ovale, una dozzina di giornalisti attorno, ogni capo servizio annuncia le notizie che vorrebbe approfondire nel corso della giornata. A un certo punto dalle cronache di paese arriva la proposta di raccontare la vicenda di un parroco abituato a comprarsi auto di gran lusso. In sala silenzio. Io guardo Profazio, che da vice sostituiva quel giorno il direttore, e tra me e me penso: "Considerato quello che si dice di lui è una notizia che non uscirà mai". Non finisco di pensarlo che Profazio prende la parola e dice: "Un prete che gira in Mercedes è comunque una notizia, scriviamola". Quel giorno, nelle prime ore a La Provincia, ho capito come si fa il giornalista e cosa volesse dire lavorare in un giornale serio. Di questo e di molto altro non gli sarò mai abbastanza grato.

(La foto sopra, come quasi tutte quelle di questo blog, è di Leonora)

sabato 27 gennaio 2018

Sette, quattordici, ventuno, diciotto

Sette, quattordici, ventuno, diciotto. In quella tabellina sbilenca che è la vita, mi ritrovo a fare i conti e dare i numeri ad ogni compleanno.
Ventuno. Gli anni che ha da poco compiuto Giacomo, con le sue linee tracciate sempre per diritto, i pensieri che fanno più rumore delle parole, le spalle larghe, che per abbracciarle devo stare in punta di piedi e creano un effetto strano, poiché inverte le posizioni naturali padre, figlio, adulto, ragazzo.
Diciotto. Gli anni che tra poco compirà Giorgia, anche lei alta ma non da non poterla prendere tuttora in braccio, con i suoi balzi d'umore e una sensibilità che ha preso dalla madre, anche se da me ha imparato a mascherarla spesso.
Giacomo e Giorgia. Li vedo crescere, con uno stupore doppio: da un lato notare come si stiano formando, con una loro personalità originale e indipendente, dall'altro non potere né volere fare nulla affinché si fermi il tempo, esattamente come uno spettatore separato dalla scena da un vetro, che assiste impotente ma pure lieto di fronte all'ineluttabilità del destino.
Non ho scelto di ricordare Giacomo e Giorgia (e aggiungo anche Giovanni) oggi, per caso.
Il 27 gennaio è un giorno che ho a cuore poiché si celebra la "memoria" e alla memoria, a qualsiasi memoria, sono affezionato.
Oggi non voglio soltanto ricordare ciò che di orribile c'è stato, ma anche condividere la fortuna che ho io, che abbiamo noi, che hanno Giacomo e Giorgia e Giovanni e milioni di loro coetanei, che vivono in case più che tiepide, con nel piatto cibo abbondante e attorno visi amici invece di violenza, freddo, sangue, sofferenza, solitudine, devastazione, terrore, dolore, morte, abbandono.
Esserne consapevoli è più che un dovere: è un regalo. Un regalo che ci facciamo reciprocamente, ad ogni compleanno.

sabato 20 gennaio 2018

Il filo ingarbugliato delle cose (Nessuno è perfetto, per fortuna)


Imparo ogni giorno dalle piccole cose, pur se resto uno zuccone e per capire non basta mai una lezione.
Ieri l’altro la scoperta più recente, estraendo dalla tasca della giacca per la millesima volta gli auricolari del telefono e constatando con sorpresa che quando le ripiego con ordine poi si ingarbugliano e intrecciano e fanno nodi, mentre se le ripongo alla rinfusa nove volte su dieci, quando le riprendo, in un battibaleno sono pronte.
Così va la vita, in cui non sempre uno più uno fa due e raramente ciò che consideriamo perfetto porta frutti.
Penso al terreno senza sassi, alle camere sterili, ai panorami piatti, all’utilità degli insetti, alle relazioni prive di contrasti, al picco di gioia dopo le preoccupazioni, alle soddisfazione partorite dalle fatiche, al sollievo esaurite le paure, a quanto mi hanno reso migliore le persone peggiori, paziente con gli altri in ragione delle mie debolezze, a quanto mi sono servite le cadute, costringendomi ogni volta ad alzarmi.
Tendere all’ideale non significa disprezzare storture e dissonanze.
Credo sia utile ricordarlo pure in questo tempo di schieramenti ed elezioni, in cui differenze di pensiero e di atteggiamento si fanno più evidenti. Da parte mia faccio esercizio di tolleranza ogni giorno, evitando di farmi contagiare dal malumore cronico e dallo scandalizzarsi continuo di coloro a cui non va bene niente e si siedono sempre dalla parte della ragione. La vita è troppo breve per passarla in un continuo scontento.

mercoledì 10 gennaio 2018

L'anniversario (Dieci anni con te accanto)


Foto by Leonora

Dieci anni oggi, io che con le date non ci azzecco proprio e spesso sbaglio persino questa, che pure mi ha marchiato a fuoco.
Dieci anni con te in un altro modo, perché se scrivessi “senza te” non sarebbe giusto, non corrisponderebbe al vero.
Dieci anni dal giorno in cui hai tenuto chiusi gli occhi più a lungo e sei morto.
Sì, sei morto. Non mi piacciono i giri di parole, le perifrasi, i modi attenuati per dire cos’è successo.
È possibile che tu sia “salito alla casa del Padre”, non è vero invece che ti sia semplicemente “addormentato”, n’è tanto meno che ci abbia “lasciato”.
No, tu non ci hai lasciato. In me, in noi, nelle persone che ti hanno conosciuto vivi sempre e sempre vivrai, finché noi a nostra volta chiuderemo gli occhi per non riaprirli più, portando con noi ogni ricordo.
In tutti questi anni mi sei stato accanto. Rare quanto preziose le occasioni in cui mi sei apparso nitido, infinite invece quelle in cui ti ho nominato, spesso aggiungendo a mente ciò che già ti dicevo in vita, ringraziandoti per avermi insegnato la volontà e il piacere del dialogo, per l’essere stato un esempio, non soltanto nelle cose buone, anche nelle debolezze, nelle fragilità.
Tu non mi hai mai schiacciato, mostrandomi di ogni cosa dritto e rovescio, pure di te stesso.
Persino nella morte, nel modo in cui lo hai fatto, senza nascondere la paura ma neppure ostentandola, affrontandola con dignità, con quella serenità che accetta l’ineluttabile, quasi a proteggere me e le persone più care.
Se ripenso a quelle ore di passaggio mi viene in mente proprio questo: la dignità, la compostezza unita allo sgomento, come chi si arrende a un avversario che non può battere, piegandosi alla forza degli eventi, lasciando la vita senza rinnegarla, accettando il destino, cercando la pace nel sonno.
Dieci anni oggi, papà, un nome che ripeto spesso, con naturalezza, a testimonianza di quanto tu rimanga vivo, avendomi insegnato quasi tutto non di quello che so, ma di ciò che importa davvero.

P.S. Non era una storia triste allora, non lo è nemmeno oggi. Debbo a te pure questo, per avermi permesso di superare la paura del distacco, facendomi diventare uomo senza smarrire il sorriso.