Che sia un anno di pioggia senza disastri e di sole mite; di silenzi e di quiete del cuore, che quando ti siedi non ti vien voglia di alzarti e quando ti alzi di sederti; di parole semplici, dette senza pensarci né troppo né poco, schiette; di buone letture di libri ma anche di frasi rubate come quella di Shauna Niequist che ho appena letto sul profilo di Michela e che mi ha ricordato una cosa squisita: i mandarini freddi; di lenzuola pulite che odorano di bucato e di fiori freschi sul tavolo; di mani tese e riempite senza bisogno di chiedere; di fiducia nell'altro e ottimismo, perché possono toglierci tutto tranne ciò che siamo veramente; di pranzi insieme e qualcuno anche da soli, masticando piano e gustando il sapore di ciò che si mette sotto i denti; di stanze imbiancate e quadri appesi in posti diversi, per abituarci a cambiare; di figli maschi e anche femmine; di sguardi, alcuni rubati; di complimenti, come quello stupendo che mi ha fatto martedì David, quando mi ha detto che io "so tenere insieme le persone"; di ricordi e dimenticanze e della parola fine, quando occorre, sempre meglio un istante prima che dopo, ch'è tardi.
Buon 2012, a tutti.
Foto by Leonora
Venti righe. Indro Montanelli sosteneva che in venti righe si può raccontare tutto. Bastano tre parole invece per spiegare le ragioni di questo blog: comunicare, in libertà. Per il resto, vale per me ciò che scrisse Jorge Luis Borges, "I miei limiti personali e la mia curiosità lasciano qui la loro testimonianza".
sabato 31 dicembre 2011
venerdì 30 dicembre 2011
Cento di questi anni
Domani è un altro giorno ma dopo domani è un altro anno.
Archivio quello che sta passando con qualche ora di anticipo, grato del molto che ho ricevuto e senza rimpianti per ciò che non è accaduto. Continuo ad essere un uomo fortunato, raccogliendo assai più di quanto ho seminato.
Se riesco, domani metto in fila uno dietro gli altri i motivi principali per cui ricordo volentieri il 2011 e le speranze per cui confido nel 2012 che sta arrivando. Oggi mi accontento di lasciare qua un pensiero, sulle persone che non ci sono più, che negli anni scorsi ci hanno lasciato.
Tra pochi giorni ad esempio saranno quattro anni che mio padre è morto. Mia madre lo piange ancora e anche se sono giorni in cui non è simpaticissima, ieri mi ha fatto tenerezza perché mi ha detto: "Mi manca e a volte sembra anche a me di morire, vorrei solo potergli parlare, ogni tanto".
Ogni tanto vorrei potergli parlare, anch'io, e in realtà lo faccio. E' lui che parla a me, meglio.
In mille cose che faccio, nelle decisioni che prendo, negli oggetti che sono stati suoi e sopratutto nei moltissimi ricordi che ho di lui, nel fatto di averlo goduto così tanto pur se non siamo sempre stati appiccicati, essendo stato bravo lui a recidere il cordone ombelicale, a non voler imporre le sue scelte, a farmi camminare con le mie gambe, anche quando imboccavo una strada impervia o inciampavo. Per questo non lo rimpiango e sono anzi lieto che se ne sia andato così, presto, eppure senza rimorsi o rimpianti lui stesso. Pur s'è dura ammetterlo, credo che non sia importante spostare l'asticella qualche tempo più in là, bensì poter dire "tutto è compiuto".
Detto ciò, mi preparo a "compiere tutto" nei prossimi cento anni. Come minimo.
Foto by Leonora
Archivio quello che sta passando con qualche ora di anticipo, grato del molto che ho ricevuto e senza rimpianti per ciò che non è accaduto. Continuo ad essere un uomo fortunato, raccogliendo assai più di quanto ho seminato.
Se riesco, domani metto in fila uno dietro gli altri i motivi principali per cui ricordo volentieri il 2011 e le speranze per cui confido nel 2012 che sta arrivando. Oggi mi accontento di lasciare qua un pensiero, sulle persone che non ci sono più, che negli anni scorsi ci hanno lasciato.
Tra pochi giorni ad esempio saranno quattro anni che mio padre è morto. Mia madre lo piange ancora e anche se sono giorni in cui non è simpaticissima, ieri mi ha fatto tenerezza perché mi ha detto: "Mi manca e a volte sembra anche a me di morire, vorrei solo potergli parlare, ogni tanto".
Ogni tanto vorrei potergli parlare, anch'io, e in realtà lo faccio. E' lui che parla a me, meglio.
In mille cose che faccio, nelle decisioni che prendo, negli oggetti che sono stati suoi e sopratutto nei moltissimi ricordi che ho di lui, nel fatto di averlo goduto così tanto pur se non siamo sempre stati appiccicati, essendo stato bravo lui a recidere il cordone ombelicale, a non voler imporre le sue scelte, a farmi camminare con le mie gambe, anche quando imboccavo una strada impervia o inciampavo. Per questo non lo rimpiango e sono anzi lieto che se ne sia andato così, presto, eppure senza rimorsi o rimpianti lui stesso. Pur s'è dura ammetterlo, credo che non sia importante spostare l'asticella qualche tempo più in là, bensì poter dire "tutto è compiuto".
Detto ciò, mi preparo a "compiere tutto" nei prossimi cento anni. Come minimo.
Foto by Leonora
mercoledì 28 dicembre 2011
L'albero dei Dominioni
Felice sarebbe stato contento. Attorno al tavolo di casa mia stasera c'erano ventotto persone, tutte accomunate dal legame a una radice comune, a una famiglia, ch'è quella a cui appartengono i miei figli, per parte di madre, Isabella, che di Felice è la figlia e che di cognome fa Dominioni.
Lo abbiamo chiamato proprio così, il "Natale dei Dominioni", una festa traslata nei giorni non nei contenuti, nello spirito più intimo di una ricorrenza che di magico ha appunto questo, la convivialità spontanea, la serenità della mente e dei cuori. Un'occasione anche per conoscere Alia, la moglie di Armando, che vive a Dubai e che abbiamo incontrato per la prima volta, da che si sono sposati.
Felice sarebbe stato contento, così come suo fratello Angelo, chiamato da noi Fermo, che era un uomo di molta saggezza e poche parole. Dei tre fratelli è rimasto Egidio, il più piccino, se piccino può considerarsi un uomo che per i primi settant'anni di vita ha avuto un peso forma di cento chili. Sono loro i capostipite, a loro volta figli di Gerolamo, una pertica di uno e novanta, dallo sguardo vigile e severo, morto all'inizio della seconda guerra mondiale.
Lo scrivo qui, a memoria dei miei figli, affinché non scordino da dove provengono, l'albero che li ha generati e di cui dovranno portare frutto, che non è necessariamente quello dei lombi, ma si riconosce dalle opere. Il loro trisavolo, Battista, al principio del secolo scorso si distingueva per l'ospitalità che dava ai poveri e ai mendicanti di passaggio. Nella corte dove abitavano, a Lurate, non mancava mai una scodella di brodo, una ciotola di latte, un pezzo di pane e un tetto sopra la testa, nel fienile o, d'inverno, al caldo della stalla, tra le mucche.
Quel tempo non esiste più e nemmeno gli animali da cortile, eppure mille sono le possibilità di continuarne la tradizione, di fare del bene. E' questo ciò che conta di più e che vorrei non scordassero Giovanni, Giorgia, Giacomo, Giulia, Matteo, Chiara, Tommaso, Francesca, Marco, Serena e Ilaria. Nessuno di loro porta degli antenati il cognome, ma nel sangue sono e rimarranno sempre dei Dominioni.
Foto by Leonora
Lo abbiamo chiamato proprio così, il "Natale dei Dominioni", una festa traslata nei giorni non nei contenuti, nello spirito più intimo di una ricorrenza che di magico ha appunto questo, la convivialità spontanea, la serenità della mente e dei cuori. Un'occasione anche per conoscere Alia, la moglie di Armando, che vive a Dubai e che abbiamo incontrato per la prima volta, da che si sono sposati.
Felice sarebbe stato contento, così come suo fratello Angelo, chiamato da noi Fermo, che era un uomo di molta saggezza e poche parole. Dei tre fratelli è rimasto Egidio, il più piccino, se piccino può considerarsi un uomo che per i primi settant'anni di vita ha avuto un peso forma di cento chili. Sono loro i capostipite, a loro volta figli di Gerolamo, una pertica di uno e novanta, dallo sguardo vigile e severo, morto all'inizio della seconda guerra mondiale.
Lo scrivo qui, a memoria dei miei figli, affinché non scordino da dove provengono, l'albero che li ha generati e di cui dovranno portare frutto, che non è necessariamente quello dei lombi, ma si riconosce dalle opere. Il loro trisavolo, Battista, al principio del secolo scorso si distingueva per l'ospitalità che dava ai poveri e ai mendicanti di passaggio. Nella corte dove abitavano, a Lurate, non mancava mai una scodella di brodo, una ciotola di latte, un pezzo di pane e un tetto sopra la testa, nel fienile o, d'inverno, al caldo della stalla, tra le mucche.
Quel tempo non esiste più e nemmeno gli animali da cortile, eppure mille sono le possibilità di continuarne la tradizione, di fare del bene. E' questo ciò che conta di più e che vorrei non scordassero Giovanni, Giorgia, Giacomo, Giulia, Matteo, Chiara, Tommaso, Francesca, Marco, Serena e Ilaria. Nessuno di loro porta degli antenati il cognome, ma nel sangue sono e rimarranno sempre dei Dominioni.
Foto by Leonora
domenica 25 dicembre 2011
Felice e felice Natale (in pace amen)
Tra un pranzo pantagruelico e l'altro aggiungo due cose su questo Natale che mi sono goduto soltanto nel finale, cioè da ieri, recuperando però il tempo perduto grazie all'abbraccio delle tantissime persone che mi vogliono bene.
La prima è proprio uno di questi incontri, per la precisione quello con Felice (Luraschi), un amico di mio padre, che non manca mai la vigilia di portarci un panettone in omaggio alla vecchia collaborazione, facendo entrambi il medesimo mestiere. Tra le perle di saggezza che mi ha regalato ce n'è una che riguarda proprio il loro lavoro. Felice infatti è un "rutamàtt", un grossista di rottami, ed è quello il tramite che lo accomuna con mio padre. "Qualche giorno fa sono stato a un incontro in Amministrazione Provinciale sulle nuove normative - mi ha detto - e continuavano a chiamarli rifiuti. Ma i rottami non sono rifiuti! Volevo dirglielo, ma non mi avrebbero capito, eppure per noi, che ci lavoriamo da cinquant'anni, i rottami sono oro!". Mi ha fatto sorridere e anche pensare, su un Paese che non sa più distinguere gli scarti da ciò che vale (e che veniva riciclato ben prima che fosse un obbligo di legge).
La seconda cosa invece è più intima e riguarda il passaggio del vangelo di Natale, in cui le schiere degli angeli cantano: "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama".
Pace, non felicità. Non dev'essere una scelta casuale ed è così che mi sono arrovellato per scoprirne la motivazione. Non l'ho trovata, ma ho intuito forse qualcosa di meritevole.
Ho infatti sempre considerato la felicità l'aspirazione massima per l'essere umano, ma forse la pace la supera, poiché la felicità è una pienezza che si conquista ma è difficile da far durare, esattamente come stare sulla cresta dell'onda o il punto massimo di una scarica di corrente. La pace invece è un dono che si riceve, una disposizione del cuore che non conosce limiti di tempo e soddisfa, riempie, appaga l'uomo pur in assenza di quelle condizioni indispensabili per renderlo felice.
Ho infatti sempre considerato la felicità l'aspirazione massima per l'essere umano, ma forse la pace la supera, poiché la felicità è una pienezza che si conquista ma è difficile da far durare, esattamente come stare sulla cresta dell'onda o il punto massimo di una scarica di corrente. La pace invece è un dono che si riceve, una disposizione del cuore che non conosce limiti di tempo e soddisfa, riempie, appaga l'uomo pur in assenza di quelle condizioni indispensabili per renderlo felice.
Foto by Leonora
venerdì 23 dicembre 2011
Buon Natale a tutti. Agli ispirati qualcosa di più
Non ce la farò mai, non riuscirò a chiamare o scrivere a tutti per gli auguri di Natale. Invece vorrei farlo, anche se non ho ancora completato i ringraziamenti per quelli ricevuti al mio compleanno e non posso essere come quei bimbi (e anche quegli adulti) golosi, che di fronte a una tavola imbandita hanno gli occhi più grandi della bocca.
Rimedio qua, in questo blog che deve continuare ad essere personale e calza a pennello per augurare buone feste ad amici e conoscenti, nella speranza di poterli incontrare o sentire nei giorni a venire.
Per tutti avrei voluto registrare e riportare fedelmente le parole del vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, il quale s'è soffermato proprio sulla formalità, sull'abitudine costituita dai momenti di convivialità, dalle occasioni di incontro, anche dallo scambio degli auguri. "Ma in ogni momento formale - gli ho sentito dire - esiste un margine di libertà in cui noi possiamo agire e che lo rende vero, sostanziale". Mentre lui parlava, in quel modo calmo, spontaneo, "ispirato" mi sembrerebbe il termine corretto da usare, ero tentato di metterle già in pratica le sue parole, di usarlo quel margine di libertà, lo avrei voluto abbracciare, come il figlio abbraccia un padre. Non l'ho fatto perché la sala era gremita e perché solo i santi possono permettersi di essere folli e io non sono né uno né l'altro. Se lo scrivo qua è perché attraverso i canali istituzionali questo messaggio non arriverebbe, perché questo spazio ha raggiunto persone che ormai ci sono affezionate e che se lo eliminassi o se lo lasciassi estinguere, mi parrebbe di fare un torto, di averle usate. In verità questo blog è assai più di un diario, è un pezzo di vita che consegno a chi mi vuole bene e che fa memoria di me, del mio mondo, assai più di qualsiasi altro strumento possa usare. E poi spesso mi utile, come oggi, che voglio augurare a tutti un buon Natale.
Per dimostrare grande sobrietà, questa volta non pubblico neanche la foto by Leonora
mercoledì 21 dicembre 2011
Il tempo sospeso
Scrivo poco, chiedo scusa a chi è abituato a bussare a questa porta, trovandoci sempre una scodella di latte e pane caldo, qualche volta anche una fetta di prosciutto o del miele, da spalmare su un crostino. In questi giorni invece nulla, nemmeno un frutto o qualche avanzo da scaldare, in forno.
Colpa del nuovo lavoro, che mi assorbe completamente, prosciugandomi del tutto quando arriva sera e l'unica cosa che desidero è sdraiarmi nel letto e chiudere gli occhi, dormendo sereno.
Il sorriso non manca mai, anche se ammetto che le pressioni sono notevoli, non alleviate dall'aver cominciato con il botto, suscitando l'ira del sindaco Mariani e la fibrillazione dell'intero arco costituzionale monzese, che non conoscendomi non sa cosa aspettarsi, se un bolscevico alle porte o un bandito al soldo del notibile di turno. Per sdrammatizzare mi hanno mostrato su YouTube il video con gli insulti del sindaco in versione rap. Ci rido sopra ma non troppo, ricordando che a questo mondo siamo tutti precari e tanto vale non abbassare la testa di fronte al prepotente. Il cruccio vero è che non mi sto godendo l'atmosfera natalizia, l'attesa di giorni che da quando sono piccolo restano per me magici, speciali, anche se diventando grande mi sento più cinico.
Oggi poi è un giorno triste, quello dell'ultimo saluto a Franca, la mamma di David, che ieri l'altro ci ha lasciato. Ma di questo non voglio parlare ora, ci sarà tempo e luogo per farlo. Su questo adesso preferisco il silenzio, perché ci sono cose troppo intime anche per chi - come me - è abituato a dire tutto.
Foto by Leonora
Colpa del nuovo lavoro, che mi assorbe completamente, prosciugandomi del tutto quando arriva sera e l'unica cosa che desidero è sdraiarmi nel letto e chiudere gli occhi, dormendo sereno.
Il sorriso non manca mai, anche se ammetto che le pressioni sono notevoli, non alleviate dall'aver cominciato con il botto, suscitando l'ira del sindaco Mariani e la fibrillazione dell'intero arco costituzionale monzese, che non conoscendomi non sa cosa aspettarsi, se un bolscevico alle porte o un bandito al soldo del notibile di turno. Per sdrammatizzare mi hanno mostrato su YouTube il video con gli insulti del sindaco in versione rap. Ci rido sopra ma non troppo, ricordando che a questo mondo siamo tutti precari e tanto vale non abbassare la testa di fronte al prepotente. Il cruccio vero è che non mi sto godendo l'atmosfera natalizia, l'attesa di giorni che da quando sono piccolo restano per me magici, speciali, anche se diventando grande mi sento più cinico.
Oggi poi è un giorno triste, quello dell'ultimo saluto a Franca, la mamma di David, che ieri l'altro ci ha lasciato. Ma di questo non voglio parlare ora, ci sarà tempo e luogo per farlo. Su questo adesso preferisco il silenzio, perché ci sono cose troppo intime anche per chi - come me - è abituato a dire tutto.
Foto by Leonora
domenica 18 dicembre 2011
Una domenica allo Juventus Stadium
Sono grato a Simona Migliavada perché ha regalato una bella domenica a me e una giornata indimenticabile a Giacomo e Giovanni. Grazie a lei infatti siano andati allo Juventus Stadium di Torino, per vedere la partita contro il Novara. Avevamo posti a sette metri dal campo, roba che neanche alle partite dell'oratorio San Luigi sono così vicino.
La struttura è un gioiello di ingegneria e l'accoglienza curatissima, a prescindere dal settore di cui si ha il biglietto.
Non scorderò mai gli occhi di Giacomo e Giovanni appena entrati, di fronte alle muraglie di seggiolini ancora in gran parte vuoti (siamo arrivati un'ora e mezza prima) e a quel fazzoletto di terra color smeraldo.
Erano stupiti, meravigliati e io con loro, perché ricordavo la prima volta che mio padre mi aveva portato allo stadio, al Sinigaglia di Como, per un Como - Juventus deciso da una punizione di Cuccureddu. Era il 1973 o il 1974 credo e il gol fu assai contestato, a dimostrazione che le polemiche su arbitri ed affini sono vecchie quanto il mondo. Ricordo che i palloni erano immacolati e ne rimasi sorpreso e affascinato, in quanto all'oratorio giocavamo con vecchie sfere di cuoio consunto e ingrigito. Oggi i palloni sono d'un giallo acceso, mentre le maglie della Juve d'un rosa barocco, Balocco anzi, ma l'emozione è la stessa. Unica pecca, che non abbia segnato Del Piero. Sarebbe stato il massimo.
Oltre a ringraziare Simona, volevo fare i complimenti alla società di calcio, perché ha realizzato una struttura a cui si accede facilmente e che è curata in ogni singolo dettaglio. Fa venir voglia di passarci del tempo, di tornarci, insomma. Con Mauro, il fratello di Simona, che oggi ci ha accompagnato, lo abbiamo già deciso: in primavera torneremo, a Simona piacendo.
Foto by Leonora
La struttura è un gioiello di ingegneria e l'accoglienza curatissima, a prescindere dal settore di cui si ha il biglietto.
Non scorderò mai gli occhi di Giacomo e Giovanni appena entrati, di fronte alle muraglie di seggiolini ancora in gran parte vuoti (siamo arrivati un'ora e mezza prima) e a quel fazzoletto di terra color smeraldo.
Erano stupiti, meravigliati e io con loro, perché ricordavo la prima volta che mio padre mi aveva portato allo stadio, al Sinigaglia di Como, per un Como - Juventus deciso da una punizione di Cuccureddu. Era il 1973 o il 1974 credo e il gol fu assai contestato, a dimostrazione che le polemiche su arbitri ed affini sono vecchie quanto il mondo. Ricordo che i palloni erano immacolati e ne rimasi sorpreso e affascinato, in quanto all'oratorio giocavamo con vecchie sfere di cuoio consunto e ingrigito. Oggi i palloni sono d'un giallo acceso, mentre le maglie della Juve d'un rosa barocco, Balocco anzi, ma l'emozione è la stessa. Unica pecca, che non abbia segnato Del Piero. Sarebbe stato il massimo.
Oltre a ringraziare Simona, volevo fare i complimenti alla società di calcio, perché ha realizzato una struttura a cui si accede facilmente e che è curata in ogni singolo dettaglio. Fa venir voglia di passarci del tempo, di tornarci, insomma. Con Mauro, il fratello di Simona, che oggi ci ha accompagnato, lo abbiamo già deciso: in primavera torneremo, a Simona piacendo.
Foto by Leonora
venerdì 16 dicembre 2011
Davide batte ancora Golia
Oggi me ne sono capitate di tutti i colori. Gli insulti in una sala gremita del sindaco leghista di Monza ("BaGaglio cafone, bugiardo, imbroglione, appena sei arrivato rompi già le palle, ma dove sei cresciuto, nelle caverne con l'orso?". Vedere per credere il video), l'incontro bellissimo con i collaboratori de "il Cittadino", la chiusura delle quattro edizioni del giornale che va in edicola nei vari centri della Brianza, il sabato... Tantissime cose, tutte proiettate in qualche modo al futuro. Ce n'è una però che mi ha fatto felice davvero.
E' capitata a Como e chiude simbolicamente il cerchio della mia esperienza da capo cronista a "La Provincia". Si tratta della battaglia di cui sono più fiero e che riguarda le accuse di istigazione a delinquere e diffamazione nei confronti di Davide Scarano, l'ausiliario della Ca' d'Industria di Como che per questa vicenda è stato sospeso persino dal servizio, ha subito perquisizioni in casa all'alba con i bambini piccoli che piangevano, oltre a pressioni che un'altra persona, se fosse stata nei suoi panni, avrebbe perso il lume della ragione e non soltanto il lavoro. Il tutto per aver detto quello che pensava sulla casa di riposo e sulle scelte ritenute sconsiderate di chi l'amministrava, con ironia, anche, ma senza mai varcare i limiti non dico della legalità, ma anche del decoro.
Io, di questo, sono sempre stato convinto e infatti da quando sono venuto a conoscenza di ciò che stava avvenendo ho iniziato, con l'aiuto dei colleghi e il via libera dell'allora direttore, una controbattaglia diciamo "civile", con "La Provincia" che ha preso in sostanza la difesa del debole contro il sistema che lo stava stritolando.
Chi mi conosce lo sa, perché su questo tema ho scritto editoriali in prima pagina, commenti, rubriche e a un certo punto, come mi ha detto il mio dirimpettaio di scrivania, Emilio, era diventato un chiodo fisso. Su un punto però non ho mai derogato, cioè la fiducia nella giustizia e per una volta in quella fiducia il buono (cioè Scarano) è stato premiato.
La notizia di oggi è che Scarano è stato assolto con formula piena dal tribunale di Como, come si potrà leggere su "La Provincia" di domani, sabato o, per chi vuole saperne di più, sempre su "La Provincia", ma nel sito internet, dove c'è anche la documentazione completa di quanto avvenuto.
Dicevo che per me, con questa assoluzione, si chiude un cerchio perché la difesa di Scarano è la cosa che nei tre anni e mezzo in cui sono stato lì mi ha reso più orgoglioso. Sono contento altrettanto per i miei colleghi di settore, tutti, Paolo e Stefano per primi, che ne hanno seguito gli sviluppi giudiziari cogliendone immediatamente lo spirito, ma anche il direttore Gandola e poi Minonzio e tutti gli altri, che hanno fatto sì che la ricerca della verità non fosse il pallino o la stravaganza di un singolo, bensì l'impegno alla ricerca della verità da parte di un giornale intero.
Ma più di tutto sono contento per lui, per Davide, gigante buono e limpido, il cui candore è pari alla resistenza e che più di una volta mi ha commosso. E sono contento per la moglie, che di notte non dormiva più per le preoccupazioni e mi ha portato due volte una pastiera napoletana squisita, in segno di ringraziamento. Per me, gliel'ho anche detto, valeva più dell'oro. E sono felice per i figli, Alessandra (sette anni) e Mattia (otto mesi), troppo piccoli per comprendere ciò che stava succedendo ma che certo avranno avvertito la tensione, il trambusto. Per loro, a parziale risarcimento, ci sia questo: che il loro padre da ieri non è soltanto pienamente innocente, ma per me è sempre stato un eroe, un eroe moderno.
P.S. C'è un unico favore che ho da chiedere a Davide. Che non si monti la testa, ora, che ricordi quanto ha sofferto e sappia continuare su quella linea di sobrietà, di modestia, di cocciutaggine sì, ma senza clamore che in questi mesi lo ha contraddistinto. Se per me è un eroe è proprio per questo, perché non si è vergognato di dire ciò che pensava, senza sbraitare, senza fare la vittima, comportandosi da uomo tutto d'un pezzo, che non scende a compromessi quando c'è di mezzo la verità ma ha l'umiltà di non mettersi al centro di tutto. Il difficile per lui, in un certo senso, inizia adesso, ma so che se si comporterà come ha sempre fatto avrà una vita piena di soddisfazioni e anche meno agitata di quanto è stata adesso.
Foto by Leonora
E' capitata a Como e chiude simbolicamente il cerchio della mia esperienza da capo cronista a "La Provincia". Si tratta della battaglia di cui sono più fiero e che riguarda le accuse di istigazione a delinquere e diffamazione nei confronti di Davide Scarano, l'ausiliario della Ca' d'Industria di Como che per questa vicenda è stato sospeso persino dal servizio, ha subito perquisizioni in casa all'alba con i bambini piccoli che piangevano, oltre a pressioni che un'altra persona, se fosse stata nei suoi panni, avrebbe perso il lume della ragione e non soltanto il lavoro. Il tutto per aver detto quello che pensava sulla casa di riposo e sulle scelte ritenute sconsiderate di chi l'amministrava, con ironia, anche, ma senza mai varcare i limiti non dico della legalità, ma anche del decoro.
Io, di questo, sono sempre stato convinto e infatti da quando sono venuto a conoscenza di ciò che stava avvenendo ho iniziato, con l'aiuto dei colleghi e il via libera dell'allora direttore, una controbattaglia diciamo "civile", con "La Provincia" che ha preso in sostanza la difesa del debole contro il sistema che lo stava stritolando.
Chi mi conosce lo sa, perché su questo tema ho scritto editoriali in prima pagina, commenti, rubriche e a un certo punto, come mi ha detto il mio dirimpettaio di scrivania, Emilio, era diventato un chiodo fisso. Su un punto però non ho mai derogato, cioè la fiducia nella giustizia e per una volta in quella fiducia il buono (cioè Scarano) è stato premiato.
La notizia di oggi è che Scarano è stato assolto con formula piena dal tribunale di Como, come si potrà leggere su "La Provincia" di domani, sabato o, per chi vuole saperne di più, sempre su "La Provincia", ma nel sito internet, dove c'è anche la documentazione completa di quanto avvenuto.
Dicevo che per me, con questa assoluzione, si chiude un cerchio perché la difesa di Scarano è la cosa che nei tre anni e mezzo in cui sono stato lì mi ha reso più orgoglioso. Sono contento altrettanto per i miei colleghi di settore, tutti, Paolo e Stefano per primi, che ne hanno seguito gli sviluppi giudiziari cogliendone immediatamente lo spirito, ma anche il direttore Gandola e poi Minonzio e tutti gli altri, che hanno fatto sì che la ricerca della verità non fosse il pallino o la stravaganza di un singolo, bensì l'impegno alla ricerca della verità da parte di un giornale intero.
Ma più di tutto sono contento per lui, per Davide, gigante buono e limpido, il cui candore è pari alla resistenza e che più di una volta mi ha commosso. E sono contento per la moglie, che di notte non dormiva più per le preoccupazioni e mi ha portato due volte una pastiera napoletana squisita, in segno di ringraziamento. Per me, gliel'ho anche detto, valeva più dell'oro. E sono felice per i figli, Alessandra (sette anni) e Mattia (otto mesi), troppo piccoli per comprendere ciò che stava succedendo ma che certo avranno avvertito la tensione, il trambusto. Per loro, a parziale risarcimento, ci sia questo: che il loro padre da ieri non è soltanto pienamente innocente, ma per me è sempre stato un eroe, un eroe moderno.
P.S. C'è un unico favore che ho da chiedere a Davide. Che non si monti la testa, ora, che ricordi quanto ha sofferto e sappia continuare su quella linea di sobrietà, di modestia, di cocciutaggine sì, ma senza clamore che in questi mesi lo ha contraddistinto. Se per me è un eroe è proprio per questo, perché non si è vergognato di dire ciò che pensava, senza sbraitare, senza fare la vittima, comportandosi da uomo tutto d'un pezzo, che non scende a compromessi quando c'è di mezzo la verità ma ha l'umiltà di non mettersi al centro di tutto. Il difficile per lui, in un certo senso, inizia adesso, ma so che se si comporterà come ha sempre fatto avrà una vita piena di soddisfazioni e anche meno agitata di quanto è stata adesso.
Foto by Leonora
mercoledì 14 dicembre 2011
Faloppiese bye bye
Giacomo da ieri non è più un giocatore della Faloppiese. Mi spiace, perché per lui era come la Juventus, tre anni fa ha voluto fortissimamente andarci (io ero contrario) e ci ha passato tre stagioni fantastiche.
L'allenatore a un certo punto non ha più puntato su di lui, tutto qui. Ci siamo lasciati di reciproco accordo, noi convinti che le scelte spettano nel bene e nel male a chi guida la squadra, loro abbastanza onesti da non prenderci in giro, trattenendolo per altri mesi e continuando a farlo giocare a spizzichi e bocconi (molti gli spizzichi, rarissimi i bocconi).
Giacomo ha quattordici anni e la cosa peggiore sarebbe che abbandonasse insieme con il calcio anche i sogni. Ciò che gli brucia di più, credo, è lasciare il gruppo, i compagni. L'ho visto con i lacrimoni ieri, sforzandosi di non piangere, per dimostrare che oltre che alto è anche grande.
Come ogni genitore avrei spostato le montagne pur di evitargli un dispiacere, ma la vita è fatta così ed è soprattutto nelle delusioni che si forgia il carattere.
In questi mesi sono stato fiero di lui, assai più che se avesse giocato sempre titolare. Ha tenuto duro, fin dove era ragionevolmente possibile, senza lamentarsi o mollare. Ha dimostrato a me, suo padre, cosa significa esser disciplinati, tosti, costanti. S'è convinto alla fine, quando ha compreso che non dipendeva più da lui bensì dalle scelte di altri.
Nei prossimi giorni decideremo insieme cosa fare, in quale squadra andare, anche se la scelta finale spetterà a lui. Io spero continui e che non perda l'entusiasmo che finora ha dimostrato di avere. Della Faloppiese, oltre a momenti indimenticabili (ne ho parlato anche sul blog, in questo post e poi anche in questo), restano molte occasioni di incontro e le amicizie coltivate, sia tra ragazzi, sia tra i genitori. Spero di non perderli di vista e di aver lasciato, come famiglia, un buon ricordo. A chi resta e alla società auguro le migliori fortune.
P.S. Prima ho citato due post, sulla Faloppiese, ma è questo che mi è più caro di tutti ed è così che questa parentesi la voglio archiviare.
Foto by Leonora
L'allenatore a un certo punto non ha più puntato su di lui, tutto qui. Ci siamo lasciati di reciproco accordo, noi convinti che le scelte spettano nel bene e nel male a chi guida la squadra, loro abbastanza onesti da non prenderci in giro, trattenendolo per altri mesi e continuando a farlo giocare a spizzichi e bocconi (molti gli spizzichi, rarissimi i bocconi).
Giacomo ha quattordici anni e la cosa peggiore sarebbe che abbandonasse insieme con il calcio anche i sogni. Ciò che gli brucia di più, credo, è lasciare il gruppo, i compagni. L'ho visto con i lacrimoni ieri, sforzandosi di non piangere, per dimostrare che oltre che alto è anche grande.
Come ogni genitore avrei spostato le montagne pur di evitargli un dispiacere, ma la vita è fatta così ed è soprattutto nelle delusioni che si forgia il carattere.
In questi mesi sono stato fiero di lui, assai più che se avesse giocato sempre titolare. Ha tenuto duro, fin dove era ragionevolmente possibile, senza lamentarsi o mollare. Ha dimostrato a me, suo padre, cosa significa esser disciplinati, tosti, costanti. S'è convinto alla fine, quando ha compreso che non dipendeva più da lui bensì dalle scelte di altri.
Nei prossimi giorni decideremo insieme cosa fare, in quale squadra andare, anche se la scelta finale spetterà a lui. Io spero continui e che non perda l'entusiasmo che finora ha dimostrato di avere. Della Faloppiese, oltre a momenti indimenticabili (ne ho parlato anche sul blog, in questo post e poi anche in questo), restano molte occasioni di incontro e le amicizie coltivate, sia tra ragazzi, sia tra i genitori. Spero di non perderli di vista e di aver lasciato, come famiglia, un buon ricordo. A chi resta e alla società auguro le migliori fortune.
P.S. Prima ho citato due post, sulla Faloppiese, ma è questo che mi è più caro di tutti ed è così che questa parentesi la voglio archiviare.
Foto by Leonora
lunedì 12 dicembre 2011
Lo studente lavoratore
Studente lavoratore. Lo ripetono ossessivamente, in radio e in televisione, raccontando la tragedia dei tubi che si accartocciano sul palco del palasport di Trieste, uccidendo Francesco Pinna, un ragazzo di vent'anni che per pochi euro all'ora montava le impalcature.
Ma non è di questo che volevo parlare, né del triste sudario che si leva in questi casi, dove un dramma atroce si mescola con lo spettacolo, visto che su quel palco si sarebbe esibito poche ore più tardi Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.
Lascio che il carrozzone vada avanti da sé e faccio un passo indietro, invocando la possibilità che deve esser data ai ragazzi di cimentarsi nel lavoro, di mettersi alla prova e nel contempo imparare un mestiere. Tra i molti tagli del governo Monti potrebbe esserci lo spazio anche per qualche agevolazione alle imprese, affinché inseriscano tra i loro ranghi delle persone con meno di trentacinque anni.
Io quella quota l'ho superata da un pezzo, ma devo dire che sono grato a quanti mi hanno permesso di lavorare, anche se non sempre in regola o retribuito congruamente, concedendomi però in cambio di attivarmi, di non restare passivo, di sperimentare.
Come spesso accade, in Italia passiamo direttamente da un estremo all'altro senza toccare quel mezzo che invece sarebbe auspicabile. Prendiamo il giornalista. All'abusivismo più vile, con nessun contratto in regola e il disprezzo pure della decenza si oppone una rigidità da "Primo premio Inpgi" che non si concilia affatto con le esigenze di autentica formazione.
Nel primo caso, le aziende che lo praticano restano impunite, perché altrimenti minacciano di portare i libri direttamente al tribunale fallimentare e chiudere baracca e burattini. Nel secondo caso (che ho sperimentato quando ero a La Provincia) non c'è un cavillo fuori posto ma per formare un possibile giornalista e poterlo valutare dovrebbero trascorrere almeno due ere geologiche, con poi il cappio al collo del non poter recedere dagli impegni, una volta presi, che detto in modo più brusco si traduce in un solo verbo: licenziare.
L'estrema flessibilità non è auspicabile, ma assolutamente indispensabile se vogliamo crescere generazioni di persone in gamba, che non si limitino a vivacchiare.
Lo scrivo non per me, ma per i miei figli, per i loro coetanei, che hanno diritto ad avere una possibilità come l'abbiamo avuta noi, che grazie a quella gavetta abbiamo imparato a guadagnarci il pane e a masticarlo pure.
L'alternativa non è "più occupazione per tutti", bensì un sistema ingessato, che si atrofizza pian piano e lentamente s'accartoccia. Così com'è capitato alla struttura sul palco del teatro di Trieste, dove per cinque euro all'ora un ragazzo doveva accontentarsi di mettere insieme tubi, mentre magari aspirava a far altro, ma non poteva permetterselo perché in Italia l'avviamento al lavoro è limitato da una giungla di vincoli e non resta che l'espediente, il tirare a campare fino a che in qualche caso, proprio come per Francesco, si muore.
Foto by Leonora
Ma non è di questo che volevo parlare, né del triste sudario che si leva in questi casi, dove un dramma atroce si mescola con lo spettacolo, visto che su quel palco si sarebbe esibito poche ore più tardi Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.
Lascio che il carrozzone vada avanti da sé e faccio un passo indietro, invocando la possibilità che deve esser data ai ragazzi di cimentarsi nel lavoro, di mettersi alla prova e nel contempo imparare un mestiere. Tra i molti tagli del governo Monti potrebbe esserci lo spazio anche per qualche agevolazione alle imprese, affinché inseriscano tra i loro ranghi delle persone con meno di trentacinque anni.
Io quella quota l'ho superata da un pezzo, ma devo dire che sono grato a quanti mi hanno permesso di lavorare, anche se non sempre in regola o retribuito congruamente, concedendomi però in cambio di attivarmi, di non restare passivo, di sperimentare.
Come spesso accade, in Italia passiamo direttamente da un estremo all'altro senza toccare quel mezzo che invece sarebbe auspicabile. Prendiamo il giornalista. All'abusivismo più vile, con nessun contratto in regola e il disprezzo pure della decenza si oppone una rigidità da "Primo premio Inpgi" che non si concilia affatto con le esigenze di autentica formazione.
Nel primo caso, le aziende che lo praticano restano impunite, perché altrimenti minacciano di portare i libri direttamente al tribunale fallimentare e chiudere baracca e burattini. Nel secondo caso (che ho sperimentato quando ero a La Provincia) non c'è un cavillo fuori posto ma per formare un possibile giornalista e poterlo valutare dovrebbero trascorrere almeno due ere geologiche, con poi il cappio al collo del non poter recedere dagli impegni, una volta presi, che detto in modo più brusco si traduce in un solo verbo: licenziare.
L'estrema flessibilità non è auspicabile, ma assolutamente indispensabile se vogliamo crescere generazioni di persone in gamba, che non si limitino a vivacchiare.
Lo scrivo non per me, ma per i miei figli, per i loro coetanei, che hanno diritto ad avere una possibilità come l'abbiamo avuta noi, che grazie a quella gavetta abbiamo imparato a guadagnarci il pane e a masticarlo pure.
L'alternativa non è "più occupazione per tutti", bensì un sistema ingessato, che si atrofizza pian piano e lentamente s'accartoccia. Così com'è capitato alla struttura sul palco del teatro di Trieste, dove per cinque euro all'ora un ragazzo doveva accontentarsi di mettere insieme tubi, mentre magari aspirava a far altro, ma non poteva permetterselo perché in Italia l'avviamento al lavoro è limitato da una giungla di vincoli e non resta che l'espediente, il tirare a campare fino a che in qualche caso, proprio come per Francesco, si muore.
Foto by Leonora
domenica 11 dicembre 2011
Qualche idea per Natale (meno pesce e più canne... da pesca)
Meno pesce e più canne da pesca. In questi tempi grami in cui il bianco Natale rischia di diventare grigio immagino dei regali alternativi, per non paralizzare l'economia e nel contempo evitare sprechi.
Penso ad esempio a un corso. Di giardinaggio, per imparare a coltivare in un fazzoletto di terra o anche su pochi vasi, in balcone, ortaggi ed erbe aromatiche. Di composizioni floreali, per riempire la casa di profumi e colori ma anche di bellezza, che non guasta mai, soprattutto negli appartamenti più spogli. Di taglio e cucito, per tornare a farsi vestiti, o di ferri da maglia, per berretti, sciarpe o maglioni. Di cucina, così si fa bella figura quando si invita gente a mangiare, che è un investimento di felicità, poiché poche cose danno soddisfazione all'essere umano più di un momento conviviale. Di inglese, così da poter comunicare con il mondo intero invece di limitarsi al pianerottolo di fianco al nostro, che a volte si fa fatica persino a salutare (per quello non occorrerebbe una lezione di buone maniere, basta essere più cortesi e contenti).
Non è vero che tutte le crisi vengono per nuocere.
La maggior parte consente di migliorare, a patto di non impigrirsi, di spremere la propria creatività e metterla al servizio degli altri.
E più di tutto, se potessi farne dono ai miei amici o a chi passa di qui, sceglierei un poco di ottimismo. Basta musi lunghi, previsioni apocalittiche, scenari da guerra nucleare. Ciò che abbiamo di più caro, le cose che non hanno prezzo ma un grande valore (gli affetti, l'amicizia, il gusto per il buono, per il bello, il piacere della lettura, la compagnia a tavola, le risate tra amici, le feste con i parenti, le passeggiate solitarie, lo spettacolo delle foglie che cadono dagli alberi, la scoperta di persone nuove, il ritrovarsi tra vecchi conoscenti...) nessuno ce le potrà mai levare. E, miracolo dei miracoli, nemmeno si possono tassare.
Foto by Leonora
Penso ad esempio a un corso. Di giardinaggio, per imparare a coltivare in un fazzoletto di terra o anche su pochi vasi, in balcone, ortaggi ed erbe aromatiche. Di composizioni floreali, per riempire la casa di profumi e colori ma anche di bellezza, che non guasta mai, soprattutto negli appartamenti più spogli. Di taglio e cucito, per tornare a farsi vestiti, o di ferri da maglia, per berretti, sciarpe o maglioni. Di cucina, così si fa bella figura quando si invita gente a mangiare, che è un investimento di felicità, poiché poche cose danno soddisfazione all'essere umano più di un momento conviviale. Di inglese, così da poter comunicare con il mondo intero invece di limitarsi al pianerottolo di fianco al nostro, che a volte si fa fatica persino a salutare (per quello non occorrerebbe una lezione di buone maniere, basta essere più cortesi e contenti).
Non è vero che tutte le crisi vengono per nuocere.
La maggior parte consente di migliorare, a patto di non impigrirsi, di spremere la propria creatività e metterla al servizio degli altri.
E più di tutto, se potessi farne dono ai miei amici o a chi passa di qui, sceglierei un poco di ottimismo. Basta musi lunghi, previsioni apocalittiche, scenari da guerra nucleare. Ciò che abbiamo di più caro, le cose che non hanno prezzo ma un grande valore (gli affetti, l'amicizia, il gusto per il buono, per il bello, il piacere della lettura, la compagnia a tavola, le risate tra amici, le feste con i parenti, le passeggiate solitarie, lo spettacolo delle foglie che cadono dagli alberi, la scoperta di persone nuove, il ritrovarsi tra vecchi conoscenti...) nessuno ce le potrà mai levare. E, miracolo dei miracoli, nemmeno si possono tassare.
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venerdì 9 dicembre 2011
La stanchezza operosa
Stanco, stanco così non lo sono stato mai. Mai negli ultimi quindici anni almeno. Una stanchezza insieme fisica e mentale, dovuta ai nuovi ritmi, alle pressioni, ai viaggi, alle responsabilità. E' come se la mia testa fosse tutta un ribollire, confuso e insistente.
Calma. Ho bisogno di calma, lucidità. Prendere fiato, vedere luce, far passare pioggia e vento. Non posso spostare una montagna semplicemente caricandomela sulle spalle. Mi fermo. Penso a ciò che già so, che mi ripeto sempre: calma, strategia, visione.
L'ho scritto anche nero su bianco, sul giornale, usando la metafora della nave che non si sposta immediatamente, per far manovra richiede i suoi tempi e a una minima variazione di timone corrisponde magari un cambio di rotta ampio, ma molte miglia più in là. E prima di innestare l'avanti tutta occorre riflettere bene, considerando che poi non si frena d'un colpo o si può mettere la retromarcia come su un'auto, all'istante.
Lo scrivo qui, perché non mi sono mai vergognato delle mie debolezze. Credo che confessarle sia il secondo passo sulla via per superarle. Il primo è ammetterle.
Ora mi aspetta un fine settimana senza cellulare che trilla, senza pagine da passare, decisioni da prendere. Posso riflettere, leggere, ragionare. E sorridere, anche se di sorridere non ho mai smesso in questi giorni, perché faccio un mestiere che mi assomiglia e con persone che stimo, con le quali posso crescere. Quanto è diversa la stanchezza di questi giorni, tutta operativa, da quella greve, inerme, con le mani legate, che mi assillava quando le cose non andavano bene, quando mi mancava l'aria perché avrei voluto fare e invece dovevo frenarmi. In questo senso, anche s'è dicembre, mi sembra già estate.
Foto by Leonora
Calma. Ho bisogno di calma, lucidità. Prendere fiato, vedere luce, far passare pioggia e vento. Non posso spostare una montagna semplicemente caricandomela sulle spalle. Mi fermo. Penso a ciò che già so, che mi ripeto sempre: calma, strategia, visione.
L'ho scritto anche nero su bianco, sul giornale, usando la metafora della nave che non si sposta immediatamente, per far manovra richiede i suoi tempi e a una minima variazione di timone corrisponde magari un cambio di rotta ampio, ma molte miglia più in là. E prima di innestare l'avanti tutta occorre riflettere bene, considerando che poi non si frena d'un colpo o si può mettere la retromarcia come su un'auto, all'istante.
Lo scrivo qui, perché non mi sono mai vergognato delle mie debolezze. Credo che confessarle sia il secondo passo sulla via per superarle. Il primo è ammetterle.
Ora mi aspetta un fine settimana senza cellulare che trilla, senza pagine da passare, decisioni da prendere. Posso riflettere, leggere, ragionare. E sorridere, anche se di sorridere non ho mai smesso in questi giorni, perché faccio un mestiere che mi assomiglia e con persone che stimo, con le quali posso crescere. Quanto è diversa la stanchezza di questi giorni, tutta operativa, da quella greve, inerme, con le mani legate, che mi assillava quando le cose non andavano bene, quando mi mancava l'aria perché avrei voluto fare e invece dovevo frenarmi. In questo senso, anche s'è dicembre, mi sembra già estate.
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martedì 6 dicembre 2011
L'attimo fuggito (e se Nolan avesse ragione?)
Sto diventando vecchio. Me ne sono accorto ieri, rivendendo dopo anni "L'attimo fuggente". Per la prima volta ho pensato che la responsabilità del suicidio di Neil fosse anche del professor Keating, l'amato, adorato, ammiratissimo professor John Keating. Per la prima volta ho anche provato dispiacere, disperazione quasi, per il severissimo padre di Neil, per quel detestabile genitore che soffoca le aspirazioni del figlio, che ne inibisce la creatività, ma paga a prezzo carissimo le sue asprezze. E, ancor peggio, per la prima volta ho dubitato che avesse ragione anche il personaggio monocorde e vile rappresentato dal preside Nolan, quando avverte che è pericoloso instillare il seme della passione, del sogno, in una mente adolescenziale, per sua natura fragile.
Sto diventando vecchio e il bianco e nero non mi basta più, vedo le sfumature e cerco la giusta dose anche negli slanci.
Ci ho ripensato oggi, in due differenti occasioni. Stamattina, appena svegliato, e poi leggendo un messaggio che mi ha mandato Silvia riguardo a una insegnante dei suoi figli, rea di avere usato metodi didattici discutibili e non concordati con il resto del corpo docente, ma per questo messa in croce dai genitori e, quel che è peggio, con forza, violenza quasi, da parte dei colleghi.
"Ma è mai possibile che delle regole debbano considerarsi valevoli per sempre secula seculorum amen? Se i risultati non ci sono perchè non aggiustare il tiro? Chi mina dall'interno un sistema, qualunque esso sia, viene eliminato anche se è apportatore di novità che, poste in modo corretto, possono essere interessanti e costruttive". Se lo chiede Silvia, girando la domanda a me, che non ho risposte. Certo mi piacerebbe che i miei figli non crescano omologati, forgiati con lo stampino, inquadrati e imbalsamati. Per lo stesso motivo, però, vorrei fosse posta attenzione al loro punto di crescita, alla maturità effettiva. Una crescita che li aiuti a puntare in alto senza farli immediamente cadere.
Foto by Leonora
Sto diventando vecchio e il bianco e nero non mi basta più, vedo le sfumature e cerco la giusta dose anche negli slanci.
Ci ho ripensato oggi, in due differenti occasioni. Stamattina, appena svegliato, e poi leggendo un messaggio che mi ha mandato Silvia riguardo a una insegnante dei suoi figli, rea di avere usato metodi didattici discutibili e non concordati con il resto del corpo docente, ma per questo messa in croce dai genitori e, quel che è peggio, con forza, violenza quasi, da parte dei colleghi.
"Ma è mai possibile che delle regole debbano considerarsi valevoli per sempre secula seculorum amen? Se i risultati non ci sono perchè non aggiustare il tiro? Chi mina dall'interno un sistema, qualunque esso sia, viene eliminato anche se è apportatore di novità che, poste in modo corretto, possono essere interessanti e costruttive". Se lo chiede Silvia, girando la domanda a me, che non ho risposte. Certo mi piacerebbe che i miei figli non crescano omologati, forgiati con lo stampino, inquadrati e imbalsamati. Per lo stesso motivo, però, vorrei fosse posta attenzione al loro punto di crescita, alla maturità effettiva. Una crescita che li aiuti a puntare in alto senza farli immediamente cadere.
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lunedì 5 dicembre 2011
L'albero e il seme
"Carissimo Giorgio, sono la professoressa Carolina Valsecchi in Taborelli.
Quando ho letto la mail, stamattina, non credevo ai miei occhi. Dalla casa di riposo Vallardi, dov'è ospitata da anni, mi ha scritto la mia professoressa di matematica delle medie, colei che con la mia indolenza ho fatto più arrabbiare e che aveva ricambiato consigliando ai miei genitori di mandarmi, se proprio proprio, a una scuola professionale.
Io ostinatamente (e incoscientemente) non l'avevo ascoltata e mi ero iscritto al liceo scientifico. Una delle tante volta in cui in me s'è incarnato il proverbio: "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile. E la fecero".
Ripenso a queste cose dopo aver visto con i miei figli "L'attimo fuggente". Oggi nei confronti della professoressa Taborelli provo un profondo affetto, oltre che stupita gratitudine, essendo lei alla soglia dei novant'anni, credo, o avendo già superati. Se però dovessi innalzare un monumento agli insegnanti migliori, sceglierei coloro da cui ho imparato la creatività, la capacità di ragionare con la mia testa, la libertà delle idee. Non per questo biasimo la professoressa Taborelli, preferendo pensarla così: voleva giudicare l'albero che vedeva in me, senza sospettare che quello che vedeva era soltanto un seme.
Foto by Leonora
Volevo congraturarmi con te per l'eccellente risultato che hai ottenuto diventando direttore del giornale di Monza.
Ti auguro ogni bene.
La tua professoressa Carolina Taborelli"
Quando ho letto la mail, stamattina, non credevo ai miei occhi. Dalla casa di riposo Vallardi, dov'è ospitata da anni, mi ha scritto la mia professoressa di matematica delle medie, colei che con la mia indolenza ho fatto più arrabbiare e che aveva ricambiato consigliando ai miei genitori di mandarmi, se proprio proprio, a una scuola professionale.
Io ostinatamente (e incoscientemente) non l'avevo ascoltata e mi ero iscritto al liceo scientifico. Una delle tante volta in cui in me s'è incarnato il proverbio: "Gli innocenti non sapevano che quella cosa era impossibile. E la fecero".
Ripenso a queste cose dopo aver visto con i miei figli "L'attimo fuggente". Oggi nei confronti della professoressa Taborelli provo un profondo affetto, oltre che stupita gratitudine, essendo lei alla soglia dei novant'anni, credo, o avendo già superati. Se però dovessi innalzare un monumento agli insegnanti migliori, sceglierei coloro da cui ho imparato la creatività, la capacità di ragionare con la mia testa, la libertà delle idee. Non per questo biasimo la professoressa Taborelli, preferendo pensarla così: voleva giudicare l'albero che vedeva in me, senza sospettare che quello che vedeva era soltanto un seme.
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domenica 4 dicembre 2011
Non fare l'indiano, a meno che sei a tavola
Con Giovanni sono severo, mi arrabbio quando frigna e non mangia nulla. Dimentico che io ero molto, ma molto peggio e mi arrabbio ancora di più quando me lo fanno notare.
Dico che lo faccio per lui, che sono uno schizzinoso pentito, in verità dev'essere lo stesso seme che potenzialmente porta la vittima a diventare aguzzino.
E pensare che anche adesso, che pure sono migliorato un sacco, rimango un abitudinario pigro, che si perde moltissimi piaceri del gusto. L'altra sera, ad esempio, se non fosse stata per l'insistenza del mio amico Angelo, non sarei mai entrato in un ristorante indiano. Mi veniva fastidio anche solo a pensarlo e mi sono seduto al tavolo scettico, neanche che al posto della sedia ci fossero i chiodi di un fachiro. Invece alla fine se non mi portavano via a forza avrei mangiato pure le gambe del tavolo. Eravamo a Como, in via Borgovico, quasi di fronte al parcheggio di Villa Olmo. Il locale non era riscaldato benissimo, in compenso il cibo era delizioso. Non chiedetemi di pronunciare e tanto meno di trascrivere le pietanza che ho ingurgitato: so soltanto che c'erano salsine sublimi, carne di pollo cotta a puntino e delle focacce da urlo, con un retrogusto delicato di menta.
Mi sa che una delle prossime settimane ci porto Giovanni. Lui non mangerà nulla e io mi arrabbierò, ma intanto avrò la scusa per sbafarmi anche quello che c'è nel piatto suo.
Foto by Leonora
Dico che lo faccio per lui, che sono uno schizzinoso pentito, in verità dev'essere lo stesso seme che potenzialmente porta la vittima a diventare aguzzino.
E pensare che anche adesso, che pure sono migliorato un sacco, rimango un abitudinario pigro, che si perde moltissimi piaceri del gusto. L'altra sera, ad esempio, se non fosse stata per l'insistenza del mio amico Angelo, non sarei mai entrato in un ristorante indiano. Mi veniva fastidio anche solo a pensarlo e mi sono seduto al tavolo scettico, neanche che al posto della sedia ci fossero i chiodi di un fachiro. Invece alla fine se non mi portavano via a forza avrei mangiato pure le gambe del tavolo. Eravamo a Como, in via Borgovico, quasi di fronte al parcheggio di Villa Olmo. Il locale non era riscaldato benissimo, in compenso il cibo era delizioso. Non chiedetemi di pronunciare e tanto meno di trascrivere le pietanza che ho ingurgitato: so soltanto che c'erano salsine sublimi, carne di pollo cotta a puntino e delle focacce da urlo, con un retrogusto delicato di menta.
Mi sa che una delle prossime settimane ci porto Giovanni. Lui non mangerà nulla e io mi arrabbierò, ma intanto avrò la scusa per sbafarmi anche quello che c'è nel piatto suo.
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giovedì 1 dicembre 2011
La mamma elefante e i poteri forti
Mi sento in cima a un monte e sorrido pensando a come ci sono arrivato. Dirigere Il Cittadino senza tessere, senza raccomandazioni, spinte, non rappresentando nessun altro, se non me stesso. Gli unici poteri forti che conosco sono quelli di mia madre, che però - saggiamente - ha smesso di esercitarli quando avevo tredici anni e temendo che fossi di carattere troppo chiuso, introverso, mi ha spinto, letteralmente spinto, all'oratorio, tra persone in gamba, che sono gli amici che ho anche adesso.
(Volevo scrivere: mi ha spinto a calci, ma non sarebbe stato corretto. E' stato più uno spingere con il muso, come fanno i cavalli col puledro o le elefantesse con il loro cucciolo, quando ha ancora le gambe malferme e vorrebbe starsene accovacciato ma lo costringono ad alzarsi, a camminare, a stare al passo con il branco perché è l'unico modo per sopravvivere, chi si ferma è perduto).
Devo dire grazie a Massimo Cincera, l'editore, che mi ha scelto, guardandomi negli occhi, fidandosi del ragazzo che ero, cinque anni fa, la prima volta che l'ho incontrato e avevamo parlato della multimedialità, del futuro dell'informazione. Era stato Giorgio Gandola a organizzare l'incontro. Conoscevo poco anche lui, gli era piaciuto un report che gli avevo mandato via mail prendendo spunto dal libro di Vittorio Sabadin, "L'ultima copia del New York Times". "Devi parlare con Cincera" mi aveva detto. Così è stato. Tutto è nato lì, non c'è nulla dietro.
Basta però parlare del nuovo lavoro, è ora di farlo. Anche perché sono grato e commosso (commosso veramente, non per modo di dire) dalle dimostrazioni di affetto dei tanti amici che ho, però sono anche un po' in imbarazzo per questo clima da "Santo subito". Per fortuna se mi guardo allo specchio vedo sempre quel ragazzo chiuso, insicuro e pieno di difetti che a tredici anni sua madre ha spinto a lasciare la sua stanza, i libri sugli animali, il microscopio e il piccolo televisore con i baffi (l'antenna mobile), in bianco e nero, mandandolo all'oratorio, a imparare come si sta al mondo.
Foto by Leonora
(Volevo scrivere: mi ha spinto a calci, ma non sarebbe stato corretto. E' stato più uno spingere con il muso, come fanno i cavalli col puledro o le elefantesse con il loro cucciolo, quando ha ancora le gambe malferme e vorrebbe starsene accovacciato ma lo costringono ad alzarsi, a camminare, a stare al passo con il branco perché è l'unico modo per sopravvivere, chi si ferma è perduto).
Devo dire grazie a Massimo Cincera, l'editore, che mi ha scelto, guardandomi negli occhi, fidandosi del ragazzo che ero, cinque anni fa, la prima volta che l'ho incontrato e avevamo parlato della multimedialità, del futuro dell'informazione. Era stato Giorgio Gandola a organizzare l'incontro. Conoscevo poco anche lui, gli era piaciuto un report che gli avevo mandato via mail prendendo spunto dal libro di Vittorio Sabadin, "L'ultima copia del New York Times". "Devi parlare con Cincera" mi aveva detto. Così è stato. Tutto è nato lì, non c'è nulla dietro.
Basta però parlare del nuovo lavoro, è ora di farlo. Anche perché sono grato e commosso (commosso veramente, non per modo di dire) dalle dimostrazioni di affetto dei tanti amici che ho, però sono anche un po' in imbarazzo per questo clima da "Santo subito". Per fortuna se mi guardo allo specchio vedo sempre quel ragazzo chiuso, insicuro e pieno di difetti che a tredici anni sua madre ha spinto a lasciare la sua stanza, i libri sugli animali, il microscopio e il piccolo televisore con i baffi (l'antenna mobile), in bianco e nero, mandandolo all'oratorio, a imparare come si sta al mondo.
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