Se nessun uomo è grande per il suo cameriere, è altrettanto vero che visti da vicino cxerti personaggi sono assai meglio di come vengono dipinti in pubblico. Con Gianfranco Miglio ho trascorso due ore bellissime. Merito soprattutto di sua moglie, Mimì. Una donna ironica, intelligente, pratica. Nelle due ore non ci ha lasciato un attimo, anche se a volte fingeva di non interessarsi ai discorsi, tenendo lo sguardo sulla stoffa che stava cucendo. Ma non gli sfuggiva nulla e, come ho cercato di riportare nell'articolo che uscì sul Corriere di Como, la parte stupenda e a suo modo unica di quest'intervista, era il suo contrappunto. Era l'8 aprile del 1998 ed è una delle pagine che sono orgoglioso d'aver scritto. A Miglio poi sono rimasto affezionato. Volli seguire e scrivere anche del suo funerale, che si celebrò in una limpida giornata d'agosto. Ricordo come fosse ora il momento in cui la bara venne calata nella nuda terra e lo sguardo di suo figlio Leo, rivolto verso il cielo azzurro e le montagne tutt'attorno. Aveva un volto sereno, come colui che sa di avere avuto una grande padre e di esserselo goduto.
Un’ora e mezza. Senza parlar di D’Alema, Fini, Berlusconi.
Senza neppur nominare un Bossi.
Con Gianfranco Miglio non accade di frequente.
Non esiste televisione, giornale o bollettino che, una settimana sì e l’altra pure, non gli chieda un’opinione in tema di riforme, partiti, parlamento e compagnia briscola. Lui non disprezza. Questo grande vecchio, sembra l’Ernesto Calindri della politica. Recita a soggetto. Quando ci accoglie, basta un saluto per farlo partire.
“L’Italia…”. “Il federalismo…”. “Le istituzioni…”. Interpreta la sua parte senza finti entusiasmi, ma con convinzione, secondo un copione collaudato. La materia gli compete. Farlo parlar di politica è come chiedere ad un pesce di nuotare. Peccato ci interessi a malapena stare a galla. Dello studioso, del ricercatore, del senatore conosciamo a sufficienza. Assai meno sappiamo del marito, del padre, dell’uomo che, piaccia oppure no, è probabilmente il cittadino di Como più conosciuto in Italia.
“Ma io non sono comasco – si affretta a precisare il professore –
pur essendo qui nato e vissuto. Io sono del lago e con la città c’è sempre stato una sorta di dualismo. Già nel medio evo, all’epoca delle lotte con l’Isola Comacina, il lago era contro il capoluogo. Il Lario, specialmente la parte medio superiore, ha sempre pencolato per Lecco e per Milano. La mia famiglia era già numerosa a Domaso nel 1200. Per questo non mi sono mai sentito interamente comasco. Io sono un làghee”.
Gianfranco Miglio è sposato. Sua moglie si chiama Miriam, per tutti Mimì, e gli è seduta accanto, intenta con aghi e lana. Ogni tanto scruta di sottecchi, quasi a sincerarsi che tutto vada per il meglio. Dapprima il suo silenzio è scrupoloso. Più tardi comincia ad annuire o a scuotere il capo in segno di dissenso. Infine dice la sua, incurante delle reazioni del marito.
“Sapete cosa dicono dei làghee? – rivela sorridente la signora - “Ghe scià un làghee, tri pass ìndree”. Sono tremendi. A differenza dei comaschi, che dicono quello che fa comodo, quelli del lago ti spiattellano ciò che pensano”.
“Molte volte - precisa il senatore –
vedo i difetti dei miei attuali concittadini e dico: “sono proprio comaschi, io non sono così”. I làghee sono molto più indipendenti. Il comasco, invece, non osa mettersi contro chi è al potere. Il comasco è più romano. E i valtellinesi pure. Me ne sono reso conto quando mi hanno spiegato che la città più popolosa della Valtellina è Roma. La regina Josè aveva per loro una speciale e voleva che chiedessero l’autonomia come la Val d’Aosta. Niente da fare. I valtellinesi, che riescono ad avere dimestichezza anche con la burocrazia, preferiscono ricevere gli aiuti dalla mano capitolina”.
Altro che Padania. Altro che macro regioni. A sentirlo elencare le virtù dell’alto lago e i vizi altrui, si direbbe che la sua nazione ideale cominci a Menaggio e non superi Morbegno.
“La gente del lago ha inventato molte più cose di quante si creda. Le filande, ad esempio, nel periodo del decollo dell’industria serica. A Cremia e Pianello i termometri. E le industrie della lana. Il comasco è assai più passivo. I làghee hanno sempre avuto un maggiore spirito di iniziativa”.
Che l’intraprendenza neppure in lui faccia difetto è un dato di fatto. Sul terreno della casa in cui è nato, ci informa, ha costruito tre condomini. E a Domaso, ci comunica, dalla vecchia dimora dei suoi avi ha ricavato ben diciotto appartamenti. Attualmente vive in una splendida villa che domina Como.
“Con l’architetto Cappelletti – dice orgoglioso -
l’abbiamo progettata io, mia moglie e mio figlio”. Suo figlio si chiama Leo, è sposato con Elisabetta e ha due figli di nome Lucia, di tredici anni, e Giacomo, che di anni non ne ha ancora due.
Anche Leo è professore universitario. Docente di fisica dello stato solido al Politecnico di Milano.
“La sua è una carriera brillante - sentenzia il padre -
è molto bravo. Ed ha migliorato la produzione del Domasino”.
Il Domasino è il vino di famiglia.
“I miei vecchi non avevano fiducia nel nostro vino. Io ho creato una cantina pregiata, perfezionando il bianco, cominciando a diraspare il rosso. La maggior parte della gente nel mondo leghista non mi conosce per gli studi sulla costituzione, bensì per il mio vino. "Lù, lè quel dal vìn”, mi dicono”.
La moglie si dimostra perplessa. “Non credete a tutto - ci suggerisce con ironia la sciùra Miriam - quando se ne occupava lui “sa beveva àsee”, si beveva aceto. Mio figlio è il vero esperto. Oltre ad aver ottenuto la denominazione di origine controllata, quest’anno ha tenuto persino un corso ad una sessantina di viticoltori della zona. Leo ama curare la vigna, potare i tralci, pigiare l’uva”.
Suo marito è più un teorico, azzardiamo noi.
“A Gianfranco il vino buono piace berlo - replica la consorte - se questa voi la chiamate teoria…”. E torna a ridere. Il senatore incassa e non fa una piega. A questi toni domestici deve esserci abituato. Ha abbastanza buon senso per capire che questo spirito critico, questa vivacità mentale è una compagnia vitale e insostituibile. Un’energia che lo ha aiutato a reagire alle disavventure capitategli negli ultimi mesi. Prima la rottura del femore, poi una grave emorragia gastrica.
“Sono arrivato alle porte dell’inferno. Per salvarmi hanno dovuto farmi una trasfusione, utilizzando cinque sacche di sangue”.
Il fisico è acciaccato, ma la mente di Miglio è lucidissima. Su questo neppure la moglie può dissentire.
“Sto scrivendo un libro sull’unità d’Italia. Spiegherò come nulla potrà mai cambiare. Le riforme nel nostro paese sono impossibili”.
A proposito di riforme. Recentemente uno dei candidati a sindaco della città ha sostenuto che Como è un po’ calvinista. Una definizione che ha fatto scalpore più per il refuso di qualche cronista – che ha trascritto casinista invece di calvinista – che per le implicazioni che se ne possono trarre. Cosa ne pensa?
“In parte è vero. I Giovio, soprattutto Benedetto, pare avessero una “penchant”, un’inclinazione per la riforma. Io stesso, pur cattolico, ho sempre avuto una certa simpatia per i calvinisti, per la loro concezioni. Però i comaschi non hanno alcuna passione per i problemi religiosi. Il loro carattere pragmatico non glielo permette. Della riforma possono al più condividere le conseguenze, non le motivazioni che l’hanno originata”.
Prima di congedarci, Miglio insiste per mostrarci la biblioteca, una serie di locali scuri e affascinanti, che collegano l’abitazione del professore con quella del figlio. Al centro dello studiolo del senatore ci incuriosisce un oggetto insolito.
“E’ un pulpito bergamasco che mia moglie ha scovato e che io ho trasformato in scrivania”.
Sopra, sotto, da parte, tutt’intorno ci sono libri. Oltre trentamila volumi. Disposti sulle sedie, sugli scavali, sui bordi, accatastati per terra, accumulati negli angoli. “Ecco - conclude la moglie - questo sì che dovrebbe essere uno studio calvinista. Invece è solo casinista>. Miglio sorride.
Giorgio Bardaglio
E anche in questo caso, aggiungo qui gli appunti mai pubblicati.
Ancora convalescente per una brutta caduta occorsa nello scorso dicembre, il senatore è accomodato in poltrona, sotto un paralume.
“Però la testa lavora. Sto scrivendo una storia dell’unità di Italia che prova che non si può cambiare niente”.
“Il problema grosso di Como è quello della subsidenza. Le soluzioni sono fantasiose. Il problema è che la nostra città è costruita su un mare di palta. I romani, quando deviarono il Cosia, scelsero di collocare Como sopra un mare di fango. Per questo molti edifici nella città murata non hanno fondamenta”.
“Nell’alto Lario si seguita a dire c’è miseria. Io taccio, ma se facciamo il conto delle automobili e del modo di vivere dei suoi abitanti scopriamo che non stanno affatto male. Se la cavano per conto loro, anche se piangono per avere aiuti”.
“Non è vero che il governo austriaco non aiutasse i setaioli comaschi. Fra il 1840 e 1850 favorirono l’industria serica, a danno dei domini ereditari dell’Austria. Lei non sentirà mai un setaiolo dire: stiamo andando proprio bene. Piangono sempre. Ciò nonostante Como è una città vivibile”.
“Non c’è un elemento comune tra Como e Lecco, che guardava molto più a Milano. Il collegamento venne più tardi, con i battelli a vapore. Como ha perso la sua unità, anche perché negli ultimi cinquant’anni è divenuto il dormitorio di Milano”.
“Mio padre era medico. Il primo pediatra a Como. Aveva un enorme intuito diagnostico, una prontezza nell’individuare le cause della malattia. Io gli feci venire la passione per la storia della medicina e in cambio mi costruì la biblioteca”.
“Mio fratello era un ricercatore, si occupava del problema dello scarico di carica elettrica. Una passione che condivide mio figlio, che è fisico, professore di fisica dello stato solido al Politecnico di Milano”.
“Gli svizzeri sono venuti fino a Porta Sala, qui a Como, poi un tanghero di un barbiere diede l’allarme, altrimenti noi saremmo svizzeri”.
“Mio figlio è sposato e ha due figli. Una bambina di tredici anni, Lucia, molto brava e molto sveglia, e Giacomo, che non ha ancora due anni, a cui spetta continuare la famiglia, perché è il maschio”.
“La mia casa è stata costruita qualche anno fa. Seguivo tutti i materiali. Il pavimento è di pietra di Valmalenco, queste colonne sono in granito di Baveno. La casa di famiglia di Domaso l’ho rifatta completamente, traendone diciotto appartamenti”.
“Nell’amministrazione cittadina, una considerazione di fondo è la tendenza, anche qui, a frammentarsi. Quante liste, quanti schieramenti diversi, non a seguito di diversità di posizioni e programmi. Prevale la rottura continua. Ciò nonostante ho l’impressione che la maggioranza uscente mi pare resista. La formula di alleanza con l’estrema destra funzione. Como è lo specchio di ciò che accade in Italia. Non si distingue”.
“Il comasco è individualista, come lo è, più in generale, l’italiano. Può darsi che le amministrazioni locali comasche non si distinguano per un forte impegno, ma questa è una cosa positiva. Che non si vogliano grandi schieramenti e impegno politico è una buona cosa nell’amministrazione di una città. Bisogna risolvere i problemi concreti. Il dramma nelle amministrazioni locali andrebbe molto ridotto. Che il comasco sia attaccato più alla famiglia, ai propri interessi e che veda un po’ con il cannocchiale a rovescio i problemi della città è una cosa positiva. Como non è mai stata una città turistica”.
“Qualcuno dice che è la conseguenza dei greci che ha portato Giulio Cesare. Non so se è vero, anche se le caratteristiche etniche durano molto nel tempo. L’alto lago fu occupato dai Franchi e nel ‘500 dal Canton Grigioni. La parte comasca è più romana. Nel 1959 una parte dei comaschi chiese di andare con la Svizzera. Non ci vollero. C’è una forte differenza di adattamento”.
"I comaschi di città non hanno spirito di iniziativa. Vede tutto il tramenio sulla struttura serica, fare una grande associazione, no ai piccoli. Lo spirito ce l’hanno quelli del lago”.
“Questo è lo spirito lombardo. Non mi sento affatto svilito, i libri che ho pubblicato li conoscono gli scienziati internazionali”.