Con un distinguo, di cui mi sono reso conto sabato scorso, a contatto con la natura, come in questa stagione mi piace fare appena stacco dalla redazione, dall'ufficio.
Un pensiero che m'è venuto ginocchi a terra, curvo, le braccia tese a strappare la radice d'un rovo, dopo che scavando con le dita ne avevo svelato le diramazioni spesse, profonde, ampie più di un metro, diventate ceppo, cresciute a ridosso della recinzione, tanto tignose e arcigne che per averne ragione ho dovuto spenderci sudore e impegno.
Mentre lo facevo, mentre tiravo e sbuffavo, ho ripensato a ciò che avevo a suo tempo intuito, al male simile al roveto, ostinato, pervicace, invasivo.
Per averne ragione, per tenerlo a bada, resta buono il consiglio di tenerlo rasato, troncandolo di netto quand'è ancora tenero, tuttavia non avevo idea di quanto possa essere forte, possente, robusto quand'è invisibile agli occhi, radicato nel terreno.
Un ragione in più per restare vigili, per non sottovalutarlo, ricordandosi che le apparenze a volte ingannano e oltre la superficie sovente c'è un mondo ignorato, che prospera nel buono e nel gramo.
P.S. C'è un altro pensiero partorito in giardino, quello che - a guardare le cose con più distacco - io sono il male, la morte anzi, che spezza, che mozza, che pota, che sradica, e non il rovo, che invece è la vita che sprizza, che si genera sempre, continuamente, con maggiore ostinazione di quanto possa fare l'intervento dell'uomo. Una constatazione che per un verso sconforta, per un altro rallegra: nell'alternarsi tra vita e morte la parola ultima è della prima, che sgorga di continuo, in eterno.