Ti devo chiedere scusa, ma prima ancora grazie, per ciò che in questi anni stai facendo e per come lo fai, per lo stile, il modo.
Dell'amministrazione parlo di rado, in pubblico mai, tanto meno per difenderti, anche quando ne sono tentato, anche quando evitarlo mi fa sentire codardo.
A casa sono peggio: il più delle volte brontolo, eccepisco, critico.
Tutti i miei discorsi, i miei principi, le mie visioni, non valgono la metà della metà dei tuoi gesti, della tua concretezza, della puntualità con cui porti avanti l'impegno che hai preso, senza smarrire un'oncia dell'essenza della persona che sei e che ti distingue ai miei occhi, in positivo.
Nessuno, tranne chi ti è più vicino, conosce il fardello che porti sulle spalle.
Non mi riferisco al "lavoro", alle difficoltà dell'amministrare, che credo comuni a tutti, chi più chi meno, bensì al prezzo che paghi al talento che la natura ti ha portato in dono, a quella purezza d'animo e sensibilità che al pari di ogni vetta presenta sempre un abisso sul versante contrario.
Perciò ti chiedo scusa, per le infinite volte in cui ti lascio sola, e prima ancora grazie, per le lezioni che ogni giorno mi dai, senza bisogno di salire su un pulpito.
L'ultima ieri, prima al telefono e poi a cena, quando hai espresso tutto il tuo rammarico, lo struggimento, per una questione che d'acchito ho giudicato da poco, che mi pareva una quisquilia da pochi euro di spesa pubblica al confronto dei macro temi, dei mega problemi che nell'immaginario cambiano i destini di una comunità, del mondo.
Ascoltandoti però - sentendo la passione che mettevi, lo strozzo in gola che esprimeva il disagio per non essere capita, prima ancora del discutere opinabile degli argomenti posti sul tavolo - ho compreso che dalla parte del torto ti trovavi seduta tu, ma a sbagliare ero io.
Io e tutta la vasta compagnia di coloro che piegano il particolare al generale, al fine il mezzo, coloro che si giustificano puntando lo sguardo a un bene superiore, senza accorgersi che è inciampando in quello inferiore che cadono, che stortano alla radice un fusto che poi hanno la pretesa di far crescere dritto.
Hai ragione tu: se cominciamo a farci andare bene tutto, a chiudere prima un occhio e poi due, sul poco, ci ritroveremo a non distinguere più la differenza tra giusto e sbagliato, tra malato e sano.
Tanto di cappello dunque, voglio riconoscertelo, non soltanto in privato, facendo eccezione al mio silenzio forzato su questi temi, sottolineando lo stupore che provo a scoprirti così, nonostante siano ormai sette anni che frequenti quel mondo, orgoglioso che ti abbia cambiato ma soltanto in meglio.