sabato 31 ottobre 2020

Perdere l'amaro (Come per le olive l'acqua)


Sono arrivato alla fine, era stata una promessa, l'ho mantenuta. Un mese insieme, passo passo, una postilla al giorno, come l'anno scorso sempre a ottobre, anche se rispetto a dodici mesi fa m'è pesato meno. Allora ero giunto con il fiato corto, con l'intenzione di abdicare per parecchio alla scrittura, mentre oggi non sento la necessità di scomparire del tutto, di lasciare a maggese questo lembo di terra. È un "punto e a capo" insomma, poiché tra i molti limiti di questi appunti di viaggio c'è il merito di costringermi a trovare ogni volta uno spunto, un appiglio, osservando meglio la realtà, ciò che mi accade e circonda, per cavarne il buono, per comprenderla e insieme raccontarla.
Oggi, per dire, ho raccolto le olive dall'albero che sovrasta l'entrata di casa. Una pianta che ha una sua storia: abbandonata quand'era ancora in vaso sul palco di un comizio a metà degli anni Novanta, presa in custodia e affidatami da una persona burbera e saggia, messa a dimora nella prima abitazione di famiglia e poi spostata a fatica, poiché nel frattempo era cresciuta, con l'ultimo trasloco.
Da allora fa bella mostra di sé e in anni particolari - come questo - produce una messe di olive che è una meraviglia. 
Se ne parlo è per un dettaglio che mi ha dato da pensare, nel momento in cui i due secchi stracolmi di frutti sono stati riempiti fino all'orlo d'acqua, perché è così, lasciandole a mollo tre settimane o un mese, che le olive "perdono l'amaro".
Perdere l'amaro. Servirebbe anche a noi, specie in questi tempi di bile accentuata, di nervosismo a fior di pelle, di rabbia a fatica contenuta, a causa degli imprevisti della pandemia, che si aggiungono agli inciampi che già di per sé la vita dispensa.
Per gli esseri umani lasciare in ammollo non serve a nulla, se non forse ai reumatismi e all'artrite cronica, tuttavia esistono persone che sono come per le olive l'acqua: aiutano a far "perdere l'amaro", la negatività, il rancore, la durezza, la stizza, con l'esempio e insieme la parola.
Qualche esempio.
  • Comprendendo le ragioni degli altri, "camminando nei loro mocassini per almeno due lune", come insegna la saggezza dei nativi d'America.
  • Considerando gli errori reciproci come involontari, fatti causando dolo ma senza intenzione alcuna, concedendo per principio l'attenuante della buona fede.
  • Perdonando se stessi, le proprie mancanze, le debolezze, le meschinità enormi o spicciole.
  • Riconoscendo che esiste sempre un'occasione di riscatto, la possibilità di svoltare, di imboccare la strada giusta.
  • Apprezzando e concedendo valore a ciò che si ha, invidiando meno quanto si presume manca.
  • Vivendo appieno la compagnia, le relazioni umane, il contatto con la natura.
  • Prendendosela per poco o nulla, consapevoli che per giganti possano sembrarci i nostri impegni, i problemi, gli affanni, sono pur sempre una minuzia, meno di un battito d'ali di farfalla al cospetto dell'universo e dei miliardi di anni preceduti alla nostra entrata in scena.
Un elenco che non prevede fine, potrebbe consistere in una lista infinita, stilata su misura.
Mi fermo qui. All'ambizione della completezza preferisco chi mi indica il percorso, segna una via. Anche questo è buon modo per "perdere l'amaro": sapersi accontentare, non pretendere che ogni cosa sia perfetta, aggiustata, finita.

venerdì 30 ottobre 2020

To be or not to be (Coorious)

Un seme, un germoglio, un'intuizione. È partito tutto da qui, in abbinata all'ostinazione di chi non si arrende e alla capacità - che per me ha del prodigioso - di chi osserva la realtà e riesce a ricavarne modelli, qualcosa di replicabile e trasmissibile (Paolo, sto parlando di te).
Domani il nuovo progetto di Edoomark verrà presentato ufficialmente su L'Eco di Bergamo, che in questa ciorcostanza è il primo partner, ma la piattaforma per capire meglio di cosa si tratta è già pronta dal pomeriggio di oggi.
Si chiama Coorious ed ha a che fare con il mio mestiere in senso lato, cioè sulla competenza del cercare, capire, raccontare.
Una gestazione per cui sono occorsi mesi e che ho avuto il piacere di seguire, anche se il grosso, ciò che conta, l'hanno fatto altri, sempre comunque appartenenti ad una squadra, a un gruppo di lavoro in cui ciascuno fa la propria parte e il tutto risulta assai maggiore di ogni singola componente.
Per il momento può bastare così, anche perché il resto, il senso più generale di simili esperienze, l'ho già raccontato tra le righe, in passato, compreso un post di un paio di settimane fa, sempre in questo blog, citando la vera anima di tutti i progetti, insieme al nocciolo più autentico del loro valore.

P.S. “Coorious” non è un’accademia, né un corso, né tanto meno una scuola, bensì qualcosa di simile alla bottega artigiana, un’esperienza in cui facendo, realizzando, mettendo testa e mano, si impara.

giovedì 29 ottobre 2020

Bravi dopo (Lo siamo tutti)

Dovevano fare così, era meglio cosà, se ascoltavano quello, dovresti sentire quell'altro, là però, qui invece, su d'altra parte, giù tuttavia...
Ne sappiamo tutti una pagina più del libro. Dopo.
Dopo. Quando i buoi sono ormai scappati dal recinto, quando la  realtà s'è palesata nella proprio sconcertante e adamantina evidenza.
In questi giorni di contagio e provvedimenti per prevenirlo ne abbiamo una gigantesca prova provata, ma la predizione postuma è pratica antica e diffusa ad ogni latitudine e longitudine, con molti saccenti che spiegano cosa e come sarebbe stato meglio fare, dettagliando persino la virgola.
Una tentazione da cui non sono esente, salvo riconoscere qui, pubblicamente, che ho il fiuto di un cane da caccia con la sinusite cronica, azzeccando raramente chicchessia. 
Esistono dei fuoriclasse, anche nel vaticinio, coloro che sanno leggere i segni dei tempi, che anticipano gli eventi, scorgono segnali dove il resto dell'umanità nota soltanto nebbia. Ma sono pochi, rarissimi, e di solito non scrivono su Facebook né vanno in tv, a farsi tirare per la giacca.
Mettiamoci il cuore in pace allora e smettiamola di alzare il dito indice come fosse una baionetta.
Bravi dopo lo siamo tutti, ma esser "bravi dopo" non conta.
Un poco di umiltà dei "tribuni da partita finita", un pizzico in meno di faccia tosta, lo ammetto, in mesi come questi conforterebbe una cifra.


mercoledì 28 ottobre 2020

People (Gli occhi non mentono)

Ho detto di sì, perché Bettina è una persona che ho a cuore, fin dai tempi in cui mi faceva da cameraman ("camerawoman" sarebbe meglio dire), troppi anni or sono.
L'ho in mente ancora così, con quei capelli biondo rossi a caschetto, l'accento brasiliano e il sorriso indossato spesso, tranne le volte in cui le schiacciavano la coda senza sospettare quanto può essere spigolosa un'anima tonda con un cervello nel mezzo.
È stata lei tre mesi fa a contattarmi, per dire che aveva avuto l'idea di tradurre in un libro fotografico i molteplici sentimenti suscitati dalla prima ondata di virus, quando tutti eravamo impreparati a sostenerne l'urto (non è che ora lo siamo, nonostante l'esperienza passata, ma questo è un altro discorso).
Mi è stata chiesta l'introduzione al capitolo "People", alla terza insistenza le ho risposto che andava bene, ignorando chi fosse l'editore committente, senza pretendere un soldo né conoscere altro, limitandomi al piacere ricambiato della fiducia assegnata d'istinto.
Il volume è uscito ("Suspended Freedom", Lombardia Foto Book), ha un profumo che sa di buono e più che da leggere è da sfogliare, ammirando le molte fotografie incastonate nel bianco.
Ci sono pure le mie venti righe, ispirate a suo tempo e che a pagina diciannove hanno trovato aria, spazio.
Le riporto qui, essendo questa essenzialmente una stanza di casa loro.

Gli occhi non mentono e sono gli occhi quel che resta del giorno, ciò che più limpido rimane di un tempo “a volto coperto” che confidiamo appartenga soltanto al passato e che fatichiamo a raccontare, immersi tuttora nell'onda di piena montata all'improvviso e che ha cambiato l’esistenza di sempre, di come la conoscevamo.
È storia, non cronaca, quella che consegniamo agli archivi, alle pagine dei libri, come questo.
Ma è una storia muta, poiché le parole incespicano, tartagliano, non vanno dritte al punto, non riescono a spiegare l’essenza di quanto vissuto: il dolore, l’incertezza, il timore, l’angoscia, lo sgomento.
Per farlo, per lasciare traccia a chi verrà dopo di noi, per evitare che l’unica testimonianza sia quella di un resoconto ricco di dettagli ma di sentimenti povero, servono le immagini.
Le fotografie. Gli scatti dei volti, in particolare. E, dei volti, gli occhi soprattutto, che custodiscono non l’ultima immagine di chi era in vita, come per centinaia di anni si è creduto, bensì quanto ha provato, cosa stava provando, chi è sopravvissuto.
Guardarle, osservarle bene, altro sforzo non è richiesto, se non quello di aprire i nostri, di occhi, con un suggerimento: chiuderli subito dopo. Fissare l’immagine che troviamo di fronte e per un istante serrare le palpebre, lasciare penetrare quello sguardo nel nostro, sentire sotto pelle, prima ancora di immaginare, le mille emozioni tutte diverse, tutte uniche, che quelle persone in prima linea hanno sperimentato.
“People”. Gente, persone, anche popolo. Così ha per titolo questo capitolo, che forse più degli altri fa comprendere il significato di un periodo che ciascuno di noi ha vissuto in maniera differente, ma nel contempo pure esperienza di insieme, di comunità, di popolo appunto.
Un grazie sincero allora agli autori e ai soggetti di queste foto, di chi ha saputo cogliere e di chi si è fatto cogliere, di chi ha messo gli occhi davanti e dietro l’obiettivo, permettendo a noi di conservare memoria di un evento storico, dando forma e contenuto a parole quali virus, pandemia, malattia, morte, contagio, che abbiamo sentito ripetere migliaia, milioni di volte, e proprio per questo faticano a mantenere la forza d’urto, l’impatto, mentre le immagini colgono nel segno, come una carezza e al tempo stesso un pugno nello stomaco.

martedì 27 ottobre 2020

Istruzioni per l'uso (Due approcci, due stili, un aiuto)

In questo giorno spiccio, denso di impegni e appuntamenti, mi rendo pienamente conto di come tutti siamo unici, differenti, eppure sommariamente distinguibili in categorie.
Queste, ad esempio: coloro che per ogni azione, sia essa installare una centrale termica oppure fissare nella parete un chiodo, pretendono di leggere le istruzioni d'uso, con il puntiglio di un orologiaio elvetico e quanti procedono sul versante opposto, avventurandosi a prescindere, mettendo mano, confidando nel sapere accumulato con le pratiche più disparate, dal sostituire le cinghie delle tapparelle a riparare uno spinterogeno.
Ad occhio, se ci pensate, in ogni famiglia si possono trovare personaggi appartenenti all'uno o all'altro idealtipo.
Nella mia, sempre ad esempio, posso vantare di annoverarne due autentici campioni, agli antipodi per vocazione e metodo: i miei cognati Angelo e Fulvio.
Il primo, Angelo, ingegnere, è di una meticolosità che rasenta, fino quasi a tamponarlo, il perfezionismo. Eccelso rilevatore di misure, calcolatore algebrico di ingombri e forme geometriche (memorabile il giorno in cui se ne uscì con il lapidario triplice urlo: "Errore, errore, errore!" per una mensola fuori squadra di un millimetro), egli può logorare un intero reggimento mentre studia la posa di una vite a brugola o programma il termostato dell'altrui appartamento, senza però mai sottrarsi da alcun compito che gli sia affidato, salvo prima chiedere in rigoroso dialetto: "Mah... Ul librètt di istrusiùn?".  
Il secondo, Fulvio, perito industriale capo tecnico tintore, riesce a cimentarsi con successo nei lavori più disparati. Già istrionico imprenditore e celeberrimo timoniere nonché capitano di barche a vela, lui ricorre al libretto di istruzioni soltanto in caso estremo e mai per consultarlo da cima a fondo, come invece fa Angelo, bensì per un'osservazione veloce, quasi un colpo d'occhio, tornando poi a capo fitto sull'oggetto interessato, sia esso un impianto idraulico per l'irrigazione del giardino o la minuta rotella di un orologio.
Fulvio e Angelo, Angelo e Fulvio, distinti e distanti, sempre, su tutto, tranne quando c'è da dare una mano e aiutare qualcuno.

P.S. Ne scrivo col sorriso, l'intento però è più vasto e concerne il ringraziamento per ciò che fanno, con una generosità sconfinata, senza mai tirarsi indietro, ciascuno con il proprio stile e in piena autonomia, a parte i casi in cui l'intervento è così complesso da richiedere la compresenza dell'uno e dell'altro. In quelle occasioni, oltre allo spasso di vederli all'opera insieme, più divertenti di una scenetta di Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, si può constatare appieno il valore della collaborazione nella differenza, della somma di virtù a compenso delle mancanze di ogni singolo, che poi è il motivo per cui l'essere umano da qualche migliaio di anni a questa parte s'è fatto largo su tutte le altre specie animali che conosciamo.

lunedì 26 ottobre 2020

Compresi noi (I bordi frastagliati delle cose)

I bordi frastagliati delle cose. Potrebbe essere il titolo di un libro, è una frase che mi porto appresso spesso, specie in questi giorni di incertezze assolute, in cui il baccano sovrasta ogni lucidità, ogni possibilità di pensiero, di ragionamento.
I bordi frastagliati delle cose. Una sensazione tattile, come quando percorro con i polpastrelli il foglio di carta strappato di fresco, il granito della soglia d'ingresso, il ramo nodoso del larice, le rughe sul viso di mia madre e ormai anche del mio, sempre più simile a mio padre, quando mi guardo allo specchio.
Nulla è liscio, nulla è limpido, chiaro, scontato. Il bene e il male, il giusto e lo sbagliato, il bianco e il nero, la testa e la coda si intrecciano, si confondono, mi costringono a scegliere tra la mannaia che separa tutto o il mal di testa per tenerlo unito, per dare una direzione a ciò che invece va dappertutto.
Rimangono gli affetti, le persone che ho care, i sentimenti d'amore, d'amicizia, di stima, la curiosità, il desiderio di conoscenza, la volontà di non giudicare troppo duramente l'altro e insieme me stesso, di concedermi le attenuanti generiche e anche quelle specifiche, considerando la maggior parte degli errori involontari, commessi per colpa ma senza volontà di dolo.
I bordi frastagliati non sono soltanto delle cose, li abbiamo pure noi, dentro.

domenica 25 ottobre 2020

La morale delle piante (Radici che generano)

L'errore è stato aver atteso troppo a lungo la potatura o forse averne sottovalutato l'istinto vitale, l'energia.
Il gelsomino di casa, al limitare del muro di cinta, s'è portato via buona parte delle ore di luce del mio giorno di festa.
Non lo biasimo, né me ne rammarico: un pomeriggio a lavorare in giardino compensa sempre della fatica.
Anche oggi, specialmente oggi, con le notizie tristi e preoccupanti sulla diffusione della pandemia e sulle misure di prevenzione che essa comporta, a margine di una domenica già di per sé grigia, uggiosa.
L'odore di erba bagnata, la consistenza soffice della terra, i colori sgargianti della natura che si rintana, la calma dei gesti compiuti senza che nessuno metta fretta...
Ingredienti semplici di una ricetta ricca.
Restano i calli sulle mani, la pelle delle braccia resa appiccicosa dalle gocce bianche e dense della linfa, i mille pensieri che mi hanno accompagnato dall'inizio alla fine, quando cercavo di districare i rami dalla rete di recinzione. Una matassa complicata, che ha messo a dura prova la pazienza, permettendomi al contempo di comprendere che si tratta dello stesso lavoro che compie ogni giorno chi si occupa dell'organizzazione e gestione di una comunità, di un'istituzione, di un'azienda.
Procedere per livelli, comprendere dove ha origine il problema, fare attenzione a cosa si taglia, assicurarsi che venga preservato ciò che più importa, dare una forma.
Ogni colpo di cesoia, ogni sforbiciata, mi rimandava a quello e a una lezione di sponda. Questa: se la pianta è generativa, per quanto si tagli, tornerà più verde e più bella e più forte di prima.
Marginale è dunque il riguardo o la sapienza del giardiniere, bensì che l'albero o l'arbusto siano di buona radice e messi a dimora nella giusta posizione, con la corretta dose di luce e di acqua.

P.S. Ogni riferimento ai troppi governanti che invece di farci uscire dall'emergenza, contribuiscono ad alimentarla o peggiorarla, non è puramente casuale. Per quanto essi siano giardinieri maldestri, voglio convincermi che la foresta che siamo possa sopravvivere, anche se occorrerà tenere duro e non avere fretta.

sabato 24 ottobre 2020

JoJo Rabbit sui pedali (Lacrime e consapevolezza)

Un film, che film. L’ho rivisto con te, una settimana dopo averlo guardato la prima volta, e m'è parso più bello ancora.
JoJo Rabbit” parla di noi, di me, di te. Soprattutto di te, che per età ed eccesso di sfortuna puoi competere con il bimbo protagonista.
Mi sono commosso pure per questo, mentre si avvicinavano i titoli di coda e osservavi accigliato - come sei sempre, quando ti concentri - l’ultima scena.
È in quell'istante esatto che ti ho abbracciato, mentre stavi per appoggiarmi la testa sulla spalla, forse perché capivi che mi ero commosso, e tenendo gli occhi chiusi mi hai stretto forte, più forte ancora di quando ogni tanto vuoi fare la lotta.
“Non sarai mai solo. Ricordalo” m'è venuto da dirti, d'impeto, con la voce un po' strozzata, senza ragionarci sopra, sentendo che era vero a prescindere, perché sono quelle cose che dimorano non nel cervello, bensì nella pancia.
Chissà se quel momento rimarrà impresso in te, chissà se sarà uno di quelli che si cancellano dalla memoria oppure tra mille rimangono a galla, per insondabili motivi, per invisibili riccioli a cui li appendiamo, senza averne contezza.
Resta il fatto che il film merita proprio e la tua presenza me lo ha fatto apprezzare sotto una luce nuova, oltre che gustare un momento piacevole, una bella esperienza.

P.S. In questi mesi hai scoperto il gusto di andare in bicicletta, con gli amici, nei boschi, su e giù per le cunette. Per quanto possa suonare strano e benché tu non ne abbia piena consapevolezza, pedalando stai mettendo... un mattone, uno di quelli importanti, una pietra angolare della formazione di essere umano, della tua esistenza. Non è tanto il piacere delle due ruote, bensì quello della scoperta, della prima emancipazione, dell'autonomia. Stai diventando grande insomma. Sono certo lo farai pienamente, con l'augurio di non accantonare mai del tutto il tuo candore, la tua purezza.

venerdì 23 ottobre 2020

Tutto questo (Pure quest'anno)

Doveva essere "Tutto questo si chiamerà l'anno scorso". Sbagliavo.
Lo è pure quest'anno.
Con una differenza: nove mesi fa ci siamo cascati mani e piedi, almeno a Bergamo, picchiandoci il muso; stavolta fatichiamo a distinguere se sia un "al lupo, al lupo" oppure il lupo è già tra noi, davvero.
Anche da quassù, dalla tolda di quella che dovrebbe essere una corazzata dell'informazione, fatico a discernere il vero dal falso, l'esagerato dal giusto.
Buon senso e verità d'altra parte hanno quasi sempre voce flebile, mentre il clangore della cronaca sparata a volume massimo elimina le differenze di tono, i rumori di fondo, tutti quei dettagli che formano un'opinione ragionevole e non una sensazione da sposare o rinnegare del tutto.
A futura memoria, di questi giorni disorientanti, annoto:
  • il dispiacere per mio figlio Giovanni, il suo diciottesimo da compiere tra poco e gli ultimi due anni di liceo - irripetibili - gettati nel fosso;
  • l’impressione che per molti, per troppi, il contagio da virus equivalga ad una colpa, al non aver rispettato ogni precauzione, invece che un accidente, una sfortuna, qual è ogni malattia da che mondo è mondo;
  • la certezza che il sistema sanitario italiano funzioni decentemente in condizioni normali, ma appena il livello di stress aumenta si trova ovunque confusione e torniamo in balia del caso;
  • la sensazione che per quanto serio possa essere, il virus farà meno vittime dello scorso inverno, poiché qualche nozione in più l'abbiamo;
  • il timore che tutto precipiti all'improvviso, con il lutto e il dolore che molti hanno già provato;
  • il disagio per tutte le chiacchiere e le sentenze dei Soloni che ne sanno sempre una pagina più del libro, scordando che prima di dare consigli sulle competenze altrui dovrebbero dare buon esempio loro;
  • la lentezza di alcuni - specialmente nel settore pubblico, ma non solo - nello sbrigare pratiche o svolgere un banale compito, in contrasto con la prodigiosa rapidità degli stessi a dire "Ciao ciao" all'ufficio e piazzarsi in smart-working sul divano, senza alcun controllo, al primo soffio di vento;
  • la responsabilità e l'efficienza dei miei colleghi in tv quando lavorano da casa e fanno più e meglio di quando hanno me dietro il collo;
  • la perfidia, mista a vigliacco godimento (lo scrivo ironicamente), con cui ieri l'altro ho appreso del coprifuoco serale, immaginando così di poter tornare a vedere tutti insieme un film in famiglia, come dopo il "liberi tutti" di aprile non abbiamo più fatto;
  • la paura che il patto tra cittadini e autorità, tra individui e Stato, a forza di tirare la corda venga meno, specialmente per le generazioni più giovani, quelle meno ammalate dal virus e che più pagano dazio in conseguenza dei provvedimenti per contenerlo.
  • La percezione che decidiamo poco o nulla e sia piuttosto il destino, il caso, a determinare se supereremo tutto entro breve oppure andrà gambe all’aria pure quest’autunno / inverno.
  • Per oggi mi fermo qua. Se mi viene in mente altro aggiungerò un post scriptum, poco sotto.

giovedì 22 ottobre 2020

Non si sa mai (Alleggerire lo zaino)

Fatico a cancellare, porto sullo spalle uno zaino zeppo, negando la prima regola di chi scala le montagne: salire leggero.
Lo spiegò ai ragazzi che erano in studio con me, per intervistarlo, Simone Moro. "Deve starci tutto, ma il tutto deve essere il meno possibile, perché ogni chilo in più, moltiplicato per chilometri e per i metri d'altura, diventa un macigno". Aveva fatto pure un calcolo, ma come tutti i numeri l'ho dimenticato.
Resta il concetto, che pure nella vita calza a pennello.
Invece no. Lascio andare nulla o poco, tendo a trattenere, butto di rado e quando accade lo faccio con rammarico, quasi un dolore fisico, come se mi cavassero un dente e non i vestiti lisi e fuori moda, che ingombrano l'armadio, o gli appunti presi su un foglietto, i messaggi ricevuti sul telefono, gli oggetti più disparati, perché "non si sa mai", "magari servono".
Sbaglio. Lo so. Deve essere una tara genetica o l'impronta trasmessa da chi mi ha preceduto. Dovrei allenarmi o rieducarmi, meglio, a fare più pulizia, ad abbandonare lungo il sentiero quanto non è strettamente necessario.
Per quanto possa essere utile infatti, "trattenere" è il contrario esatto di vivere. La vita infatti scorre, trattiene mai, continua a germogliare piuttosto, è una pentola che bolle, non una vaschetta sottovuoto nel comparto congelatore del frigorifero.


mercoledì 21 ottobre 2020

Senza didascalia (Lui ed io)

Per un giorno parto dalla coda: invece di scrivere qualcosa e scegliere poi una foto a corredo, metto l'immagine innanzi tutto.
Lo faccio per gratitudine verso Leonora, che quasi sempre inconsapevole presta volti e colori alle mie parole messe nero su bianco, ma pure perché quel bimbo immortalato, che non so chi sia né quanto grande è diventato, mi sento molto io.
Aggiungere la ragione precisa, tentare di spiegarne l'esatto motivo sarebbe una forzatura, oltre che tempo sprecato. Un po' come quando ti raccontano una barzelletta e alla fine te la spiegano.
Per una volta mi piace pensare che ciascuno possa vedere ciò che crede, quanto sente, confidando che l'istinto, l'intuito, possano cogliere nel segno più di qualsiasi puntiglioso resoconto.

P.S. L'ho già scritto, lo ripeto. Leonora non è l'unica fotografa che apprezzo. C'è anche Elena ad esempio, i cui scatti mi piacciono moltissimo, spesso lasciandomi stupito. O Francesca. Oppure Margot, Andrea, Augusto. Qualche altro. A Leonora, però, a Lyonora, come si firma, sono grato poiché mi accompagna praticamente dall'inizio e perché ha un sito che mi permette di attingere a piene mani, senza nessun fastidio, con un semplice clic, blandendo non soltanto l'artista che c'è in me, ma anche il pigro.

martedì 20 ottobre 2020

Gettare in mare (Con poco riguardo)

Ti sei coperto con le mani il volto e lì ho compreso che avresti ceduto. Mi hai colto di sorpresa, era un discutere da poco, sull'aver fatto i compiti o meno e su un'insufficienza in matematica che credevo fosse risaputa, invece era una confidenza che mi avevi fatto.
Ti devo chiedere scusa, non l'avevo capito.
Così come non ho capito che una vicenda per me banale fosse per te spina nel fianco, peso greve sul tuo torace da dodicenne che sta diventando robusto, ma dentro rimane bambino.
Il pianto che n'è seguito ha dato la portata di quale nervo avessi toccato.
È stato Giacomo a farmelo notare, con quel fare burbero e insieme protettivo che ha di solito. "Papà, basta!" è sbottato. Ad essere onesto però mi ha scosso più il silenzio di Giorgia e soprattutto Giovanni, che raramente con te è tenero.
Io avrei continuato il discorso, cercando di sdrammatizzare, di farti intendere che non era nulla di grave, che se ne parlavamo lì, attorno al tavolo dove stavamo cenando, era proprio perché potevi sentirti tranquillo.
Sbagliavo.
A volte i padri, i maschi adulti, meglio, sono così: gettano in mare per far imparare a nuotare, si preoccupano poco di delicatezze, riguardi, attenzioni, sanno che il mondo è duro di per sé e che l'unico modo di proteggere non è mettere sotto una campana di vetro, bensì esporre fin da subito a intemperie e inciampi, sgambetti e schiaffi che riserva il destino.
Non dico sia giusto. Però capita, a che mondo è mondo.
L'abbraccio che ci siamo dati, mezz'ora dopo, quando il magone è rientrato, ha chiuso la parentesi e aperto di nuovo un reciproco credito, come avviene sempre tra persone che si vogliono bene e insieme superano tutto, il poco e il tanto.

lunedì 19 ottobre 2020

Punto e a Capo (Valle)

I "luoghi del cuore" non sono soltanto quelli del Fai. Esistono per ciascuno di noi, pietre preziose incastonate nel diadema dei giorni che la sorte ci porta in dono.
Uno di essi per me è Capovalle, una crosta di case al colmo di Val Sabbia e Val Vestino, tra il lago d'Idro e quello di Garda, nel punto in cui la provincia di Brescia si affaccia sul Trentino, dove esiste tuttora l'edificio che un secolo addietro faceva da dogana al confine austro-ungarico.
È lì che ha radici la famiglia della mamma di mio cognato; è lì che sopra un pendio cinquant'anni fa hanno appoggiato uno chalet di legno ch'è un incanto; è lì che ogni agosto ho vissuto i giorni di vacanza più semplici e insieme memorabili che esistano.
Quest'estate siamo tornati, l'anno prossimo invece non lo rifaremo e quelli dopo neppure.
Tutte le cose di questo mondo, per quanto belle, finiscono, e pure quella baita da fiaba ha segnato il capolinea, il punto messo alla fine del capitolo.
Un addio doloroso per Fulvio e Danila, che in quel borgo, tra quelle stanze che profumano di pino hanno trascorso il nocciolo della loro esistenza, ma anche per noi, ospiti occasionali e testimoni di una  generosità che vale più di qualsiasi somma di denaro, in grado di unire quanto il cemento.
L'ultimo regalo, Capovalle, lo ha fatto proprio con il canto del cigno, insegnandoci ad affrontare il dispiacere del distacco, il dolore quasi fisico dovuto alla consapevolezza che nulla sarà più come prima, che non è possibile tornare indietro.
Affrontarlo fa male, ma è la legge ineluttabile che accompagna ogni essere umano.
Vale per i beni materiali e ancor per le persone, quando se ne vanno: l'ultima pagina si chiude, resta però il libro, la grandezza e la bellezza di quanto vissuto, i momenti goduti, i mille ricordi intrecciati tra loro.
I "luoghi del cuore" si chiamano così proprio per quello, perché nel cuore trovano dimora e rimangono.

P.S. Lo spiedo bresciano. Fulvio e suo papà, il "signor" Bruno, a torso nudo. La poltrona di pelle rossa nel patio, con i cani che di notte ci salgono. Il monte Stino. La pianta solitaria. I fumetti di Diabolik e di Tex Willer sulle mensole delle camere da letto. Il profumo del caffè il mattino presto, che sale tra le fessure delle assi del pavimento. Le gite con pranzo al sacco. Quella volta al monte Manos in cui il sacco con il pranzo ce lo siamo dimenticato e siamo dovuti tornare per mangiare un panino. La cena da Tullio, pagata da Angelo. "Cose, animali, città, capitali, piante..." e i giochi la sera, prima di andare a letto. Le tazze di metallo smaltato al posto dei bicchieri. La doccia da fare a turno. La Ktm da cross che c'era in garage e che abbiamo fatto partire, un pomeriggio. La pesca della trota nel torrente. La volta in cui siamo andati a sparare in un tiro al piattello sui monti, abusivo. Le cene e i pranzi alla buona, in allegria. Gianni e Danila che arrotolano il tabacco nella cartina e se lo fumano. Le moto dei turisti olandesi o tedeschi, che rombano nella strada di sotto. La passeggiata da Moerna a Persone. La lotteria con il quadro (inquietante) vinto, sempre a Persone. Il camino acceso e i maglioni di lana infeltrita tirati fuori dagli armadi, quando fa freddo. I sonnellini, al fresco. La tiritera sui turni di ospitalità ("Andiamo noi", "No, vanno loro", "Ma di solito in quei giorni andiamo noi", "Sì, ma quest'anno gli altri giorni non possono", "Eh, ma cavolo, avevamo già deciso", "Beh, ma per noi alla fine è lo stesso", "Hanno cambiato idea", "Abbiamo cambiato idea", "Va bene così, andiamo noi e anche loro"). L'aver sempre trovato una soluzione, in armonia. La legna impilata con cura. Il cugino Brunetto. La staccionata sbilenca, da ripararne un pezzo ogni anno. La passeggiata per andare a riempire le bottiglie d'acqua gasata, alla casetta sul piazzale in alto al paese. La messa la domenica mattina e i racconti sul vecchio don Basilio. I tornanti che salgono la valle e la sensazione quando scollini il passo San Rocco e sai che dopo duecento metri c'è casa. I bagni al lago d'Idro. La torta di rose. Gli aghi di pino nei pluviali. Manuela che riordina tutto a puntino. La fune tesa tra due alberi e i ragazzi che si lanciano nel vuoto. I cani fuori dalla porta. Adelrosa che ride, di gusto. Mio padre e zio Gianni e Felice in canottiera, che giocano a carte, a Ferragosto.
Tutto questo è stato e tutto questo sarà per sempre, come nelle favole. Lì infatti " felici e contenti" siamo stati, comprendendo cosa sia "famiglia", davvero.

domenica 18 ottobre 2020

Essere educati (Educando)

Debbo molto a tutti, a Paolo Ferrari di più, almeno per ciò che attiene il rapporto con i ragazzi, i giovani.
Un modo di vederli, di apprezzarli, di interagire cambiato radicalmente negli ultimi anni, quelli in cui ho avuto la fortuna di collaborare con lui, imparando innanzi tutto a puntare su di loro, a fidarmi, a coglierne le potenzialità, la ricchezza che hanno.
Se dovessi descrivere il nocciolo di quanto ho compreso, direi che Paolo mi ha insegnato questo: la possibilità di formare i ragazzi, di accompagnarli, di condurli, di educarli, è al tempo stesso un'occasione unica, preziosa, per essere formati a nostra volta, di essere condotti noi, educati dagli stessi ragazzi, in un percorso, una relazione che non è mai univoca, ha sempre una doppia direzione, è circolare.

P.S. I tempi grami che stiamo vivendo, con la pandemia e le conseguenze negative sull'economia, rischiano di spazzare via le esperienze meno collaudate, robuste. Eppure sui progetti di Paolo mi sento di scommettere e li considero una cartina di Tornasole: se riusciremo a fare capire quanto valgono, come possono essere importanti, se verranno compresi, sostenuti, vorrà dire che staremo investendo sul futuro, che ci stiamo preparando al meglio. Altrimenti... Niente. Buonanotte.

sabato 17 ottobre 2020

Ciò che conta davvero (Spese e risparmio)

Lascio testimonianza pubblica qui, dell'incontro privato "genitori - figli" che oggi abbiamo organizzato, per condividere conoscenza di ciò che la nostra famiglia possiede, affinché possiate esserne responsabili, farvene carico. 
Il totale complessivo potrà esservi sembrato tanto o poco, dipende dal punto di vista, dalla considerazione che ne abbiamo.
Di certo l'intero raccolto è frutto di attenzione, di cura, in qualche caso di rinuncia, di sacrificio, di un oliva risparmiata ogni giorno, per parafrasare uno degli esempi classici dell'economia del tenere da conto.
Di contro, se la somma non è considerevole è per il fatto che veniamo da famiglie che avevano poco o nulla, in passato, e non siamo genia di imprenditori, coloro che moltiplicano le entrate, assumendosene anche il rischio. Abbiamo piuttosto passo corto e costante, come la formica contrapposta alla cicala nella favola raccontata da La Fontaine su spunto di Esopo.
Queste le pagine scritte fin qui, da chi vi ha preceduto, ora tocca a voi affrontare un tempo di mezzo, una stagione in cui non siete più ragazzi sollevati dai pensieri del conto economico, ma parimenti nemmeno adulti con una propria indipendenza, con un'autonomia che deriva dal reddito e dal proprio risparmio.
Ecco perché con vostra madre abbiamo deciso di confrontarci con voi su ciò che fino a ieri discutevamo soltanto lei ed io.
Al di là di tutto, a me importa questo: che i beni materiali e in particolare il denaro mai diventino "misura di tutte le cose" o, peggio, fonte di divisione, creando un solco.
I soldi non sono che uno strumento, un mezzo per poter godere senza ansie o patemi una vita felice e piena grazie ad altro, cominciando dagli interessi e dalle relazioni personali.
A tale proposito, credo possa fare da stella polare quanto mi ha confidato Loris, l'altro giorno. Una breve confessione che potrebbe essere la mia e che vale un manifesto.

Sai, ci sono stati giorni in cui vedevo più buio che luce davanti a me e in quei giorni mi sono rammaricato delle cose che avrei potuto fare nei tempi passati, cose semplici tipo un week-end lungo, una cena al ristorante, una sera a teatro, qualsiasi cosa occupasse il tempo insieme alle persone care, poche o tante, agli amici...
Quelle cose che spesso rinvii e poi non fai più per ragioni che solo ora hanno assunto un altro valore nella graduatoria delle priorità (il lavoro, i soldi, la pigrizia). Se il destino vorrà essere benevolo ecco, quello è il mio buon proposito, cercare di sfruttare il tempo per arricchire l'anima e il corpo di quei piaceri che la vita ti offre (anche una semplice camminata nel bosco o in riva al lago parlando del più e del meno), piaceri, persone care, possibilità che non scontati per tutti, sono una fortuna e per questo sarebbe un peccato non approfittarne.

venerdì 16 ottobre 2020

Dritto negli occhi (Guardarci, meglio)

Quello che le donne non dicono lo si legge dagli occhi, quegli stessi occhi che Modigliani non dipingeva poiché - si dice - gli era impossibile cogliere l'anima dell'altro.
Se c'è un dito di bicchiere pieno, in tutto il vuoto che le attuali restrizioni, imposizioni, precauzioni, prevenzioni impongono, credo sia questo: il risalto degli occhi nel viso dalle mascherine coperto.
Mi capita di pensarci spesso, in questi giorni, incrociando gli altri per strada, al bar, nei corridoi, in foto, facendo caso a ciò che prima era soltanto un dettaglio. La forma, il colore, il taglio, l'intensità dello sguardo, la profondità, la sensualità, la varietà, l'unicità, il magnetismo, l'essenza che gli occhi rappresentano.
Potrei dire che ora capisco meglio civiltà che per tradizione velano il volto, lasciando scoperto soltanto tra fronte e naso o, per eccesso di zelo, coprono pure quello.
Non è così.
Che lasciando esposti soltanto gli occhi il concetto di bellezza sia più uniforme, più egualitario, lo sapevo già e non era comunque sufficiente per farmelo preferire alla libertà di mostrarsi completamente, all'accettazione di sé totale, senza usare scorciatoie o l'espediente di ridurre i tratti distintivi ad uno.
Semmai la consapevolezza che questi giorni ardui consegnano è che per conoscerci, per capirci, per intenderci, non soltanto dobbiamo parlarci di più, ma guardarci negli occhi, meglio.

P.S. Gli occhi seducono. Conducono a sé, portano a noi l'altro e all'altro noi, collegano intimamente impiegando un tempo infinitesimale, una frazione di secondo.
La chiamiamo "magia" poiché siamo incapaci di spiegarlo in alcun modo, né con la chimica, la fisica, qualsiasi altra disciplina che studiamo nel libri o applichiamo in laboratorio.
Gli occhi siamo noi, interi, ridotti in un centimetro quadro.

giovedì 15 ottobre 2020

Un fusto d'uomo (Finché c'è forza...)

Appartiene alla generazione degli ultimi patriarchi, anche se patriarca non lo è mai stato, avendo soltanto un figlio. 
Ambrogio è unico e molto insieme: vicino di casa, socio per anni di mio padre, suo amico soprattutto. 
Di lui potrei parlare per ore, aneddoto dopo aneddoto, raccontando imprese epiche, a cui non si sa come sia sopravvissuto. La volta che si è ribaltato con il camion evitando un bambino; quella ancor più spericolata in cui, sempre con il camion, senza freni per un guasto improvviso, ha percorso una discesa ripida abbattendo tutto ciò che ha trovato sulla sua strada, fermandosi dopo aver saltato un muro; il pomeriggio nel quale l'asse di legno sul quale camminava è ceduto, facendolo finire con le gambe in un bidone d'acido; quando è rimasto folgorato mentre recideva cavi elettrici che l'addetto alla sicurezza sosteneva di avere scollegato; per tacer di tagli, strappi, ossa rotte... senza mai che non abbia lavorato il giorno dopo.
Cento episodi, di cui per buona parte sono stato testimone oculare e che gli hanno lasciato cicatrici ma soltanto fuori, perché dentro è rimasto lo stesso.
L'ultimo fulmine che su questo fusto d'uomo s'è abbattuto è più subdolo, infatti è qualche anno che lo combatte, a volte facendo temere il peggio, alla fine riprendendosi sempre, con una forza d'animo, con uno spirito, che davvero credo non sia più presente in natura, che appartenga soltanto a chi ci ha preceduto, esattamente come per Tolkien la stirpe di esseri che abitavano la "terra di mezzo" nella seconda era, quella di Gil-Galad e Isildur.
Sembra che esageri. Niente affatto. Chi lo conosce lo sa e non se ne stupisce nemmeno.
A me però Ambrogio ha sempre colpito per altro. Le volte in cui si è commosso soprattutto.
Quando hanno portato al camposanto sua madre, anni fa, al momento della deposizione, l'ho visto piangere come un bambino.
Era la prima volta e fu uno smacco: il rendersi conto della sua fragilità, che è la fragilità di ogni essere umano, oltre lo scafandro. Ci sono state altre volte, quando si è ammalato mio padre, quando c'era da accompagnare al cimitero qualche altro amico, la recente scomparsa, improvvisa, di sua sorella Margherita. In questi casi però ero abituato, avendo capito che oltre la scorza spessa c'è una sensibilità fuori dal comune, una generosità senza pari, una tenerezza sorprendente, soltanto per chi lo osserva con distrazione, da lontano.
Scrivo queste righe poiché la persona è spiccia, mi verrebbe difficile dirglielo in faccia, lui troverebbe subito il modo di prendermi in giro, di schernirsi, di cambiare argomento, parlando dell'orto che tiene come un maniero, dei funghi che quest'anno non ha preso, della sua Inter, che più interista di lui non c'è nessuno (nel pregio e nel difetto), del suo amico Gigi o dell'Amelio o del Felice di Guanzate o del Giulio, l'altro vicino di casa, amico a decenni alterni, perché i caratteri forti è raro non cozzino.
Ad Ambrogio voglio bene, un bene vero, senza smancerie. E a lui sono grato.
Pur con tutti i difetti, la sua generazione ha permesso a noi di vivere nell'agio e se possiamo disquisire cosa sia giusto o meno è perché loro si sono caricati sulle spalle anche lo sbagliato.

mercoledì 14 ottobre 2020

Non indossiamo maschere (Lo siamo)

"Garbato", "pacato", "riflessivo"...
Dovrebbero essere complimenti e in effetti credo mi rappresentino, almeno la parte pubblica di me stesso, quella che emerge da ciò che scrivo e anche dagli incontri di persona, mentre con gli amici più intimi e soprattutto in famiglia sono assai più sanguigno, impaziente, irascibile persino. Proprio poiché mi conosco e so che esiste un lato oscuro della forza non me la prendo sia quando qualcuno in buona fede usa espressioni che in realtà stridono ("hai un atteggiamento clericale in tutte le questioni"), sia quando viene fatta ironia o sarcasmo, sostituendo al "garbato" un "ruffiano" e al "riflessivo" un "furbetto".

P.S. Le parole qui sopra le scrivevo anni fa, le ho ritrovate ieri l'altro, per caso, in un appunto per un post mai pubblicato. Nella sostanza non sono cambiato, diventando forse più disilluso e a tratti cinico, pur se di rado rinuncio a un modo di pormi pacato. Il tono definisce la persona, almeno com'è percepita, all'esterno. Non indossiamo maschere, lo siamo.

martedì 13 ottobre 2020

Che bestie (Non per modo di dire)

Nel bestiario a cui attingo con maggior soddisfazione e frequenza, due animali fanno la parte del leone, pur se il leone non sono: il serpente e l'elefante.

Comincio dal secondo, che evoco sovente per suggerire a me stesso e agli altri pazienza, costanza.
"Sai come si ingoia un elefante, dicono in Africa? Un boccone per volta".
Io la racconto così, con un pressapochismo che non fa onore alla mia categoria, senza aver verificato nulla, né chi l'ha detto, né se l'abbia detto, né se davvero l'hanno detto in Africa piuttosto che in Asia (dubito fortemente invece sia un proverbio della Papuasia o della Nuova Caledonia, visto che lì di elefanti non ce n'è l'ombra, nemmeno allo zoo, anche se non si sa mai).
La sostanza della frase però è verosimile ed è una senno che mi piace, mi aggrada: il rimando a non avere fretta, a badare al passo dopo passo, sapendo che così facendo si possono compiere imprese apparentemente impossibili, disperate o fuori misura.
Se ci rifletto, tutto ciò che ho combinato di grande l'ho realizzato così, "un boccone per volta", compreso questo blog, che in alcuni casi è pesante quanto un elefante, ma di vederlo così cresciuto, all'inizio, non avrei scommesso una virgola.

Il secondo animale è più sottile, anche come rimando di saggezza.
"Sai come si prende il serpente? Dalla testa".
Andare in capo alle questioni, al nocciolo dei problemi, al loro principio, ciò da cui discende tutto il resto.
Quante volte la tentazione è afferrarli dov'è più comodo, dove si fa meno fatica, sia esso il corpo o la coda. Ma così facendo si risolve poco o nulla e anzi si rischia di combinare un pasticcio, lasciando in libertà la parte più a rischio, quella velenosa, che ti si rivolta contro inesorabilmente, senza che ce se ne accorga.

P.S. Prendere il serpente dalla coda è pure quando ci illudiamo che gli strumenti, le soluzioni sulla carta, le indicazioni di principio possano cambiare un'organizzazione, migliorare le prestazioni, ottimizzare risorse e rendimenti. Non è così. Ogni cambiamento, specialmente quelli buoni, partono sempre dall'essere umano, dalla persona, dalla motivazione che ha, da come si impegna, da quanto è convinta.

lunedì 12 ottobre 2020

Undicesimo (Non invidiare)

Il fatto di cronaca è passato di moda, acqua sotto i ponti, eterna girandola di un sapere senza memoria.
Non per me, non questa volta, che mi ostino a ricordare il titolo dell'articolo in cui l'autore del duplice omicidio di Lecce, a fine settembre, avrebbe confessato uno dei moventi della sua furia: "Li odiavo, erano troppo felici".
L'invidia. La "tristezza per il bene altrui percepito come male proprio". Una debolezza che più delle altre mi spaventa, un po' perché rifugge la luce e pugnala alle spalle, in maniera vigliacca, un po' poiché dei sette vizi capitali è l'unico che nemmeno mi sfiora, per cui mi sento impreparato a riconoscerlo e, non riconoscendolo, a pormi in difesa.
Tentando però di non cedere alla paura, faccio uno sforzo per ignorarlo, evitando di snaturare la mia natura, bensì assecondandola e provando tristezza a mia volta per coloro che ne sono corrosi, logorati nel cuore da quella fiamma, non riuscendo a godere nulla, dovendo convivere con il loro demone ventiquattro ore ogni giornata.
Non ho invidia degli invidiosi, insomma.
L'unica cosa che mi sento di appuntare loro è l'assenza di obiettività: se sapessero mettersi nei panni altrui, infatti, scoprirebbero che la felicità piena non esiste, che ciascuno ha la sua pena e che provare invidia è un farsi del male da sé, non godendo la propria vita soltanto per il torto di immaginare migliore l'altra.

P.S. L'unico invidioso che mi viene in mente, che ho riconosciuto, la tipica eccezione a conferma della regola, è un collega di tempi lontani, il quale tuttavia lo era in maniera puerile, evidente, quasi farsesca, tanto da diventare esso stesso macchietta. Avendone perse le tracce non ne ho più l'occasione, ma se potessi tornare indietro glielo direi, gli farei presente che la sua invidia è proprio un "peccato", nel senso che dispiace come le molte piccolezze offuschino la grandezza del professionista che stimavo, che era e che forse da qualche parte è, tuttora.



domenica 11 ottobre 2020

Senza misure (Dio è quella cosa lì)

Lo faccio di rado, per non dire mai, sapendo quanto lusinga la tentazione di vestire i panni dei mestieri altrui, diventando solitamente negligenti verso il proprio.
In famiglia poi si è sempre guardato con sospetto a chi vuole fare il prete senza esserlo ("Pret fàls" li chiamava mio padre)
Il Vangelo di oggi però, quello della liturgia ambrosiana almeno, continua a rodermi dentro e suscitarmi pensieri che chiedono di uscire in qualche modo, anche a costo di essere depositati qui, senza eccessiva pubblicità, ma neppure nascosti e chiusi a doppia mandata nel cassetto.
Il passo è quello di una parabola, raccontata da Matteo, in cui si fa l'esempio dell'agricoltore che getta abbondante il proprio seme, senza curarsi che vada nel terreno fertile oppure si perda tra i rovi o nei sassi e porti poco frutto o nulla del tutto.
Dio è quella cosa lì. Dio è quell'abbondanza cieca lì, quel continuo creare, germogliare, seminare appunto.
Dio è "hével", che come ha insegnato Erri De Luca in ebraico si può tradurre come spreco ed è ripetuto come una litania nel libro del Qoèlet.
Dio è il contrario di ciò che facciamo spesso noi, cioè misurare, contare, calcolare, programmare, pianificare, risparmiare.
Quando mi si dice che ci stiamo sempre più allontanando da Dio io penso a questo, al nostro continuo "selezionare" piuttosto che "generare", all'uso continuo del bilancino, del braccio corto, del tornaconto immediato, individuale, senza visione abbondante, generosa per il futuro.
L'umanità non si distinguerà per un evento cosmico, apocalittico, bensì per consunzione.
Andremo incontro al peggio quando saremo diventati bravissimi a selezionare il meglio.

P.S. Chi è suscettibile e non crede in un creatore può sostituire la parola "Dio" con "Natura": il pensiero dovrebbe filare lo stesso.

sabato 10 ottobre 2020

Quel che si può (Quel che si vuole)

Da anni non ne vedevo uno, uno ora è ricomparso, di fronte alla mia auto, al semaforo che da via Autostrada porta verso il centro.
M'è apparso così, a una decina di metri dal cruscotto, un ragazzo di vent'anni o giù di lì, che poteva essere mio figlio, camicia color porpora e un berretto buffo, i panni stretti dell'artista di strada fatto e non) finito.
Di primo acchito, mentre cercavo di intuire se fosse un matto o un balordo, m'è parso di notare l'accenno d'un sorriso, prima che l'esibizione lo rendesse serio serio, improvvisando con tre palline uno spettacolo in piena regola, seppur contenuto nei tempi svelti di arancione e rosso.
All'accensione del verde anche lui è scattato, tendendo la mano di finestrino in finestrino, cercando di incrociare lo sguardo dagli automobilisti che - come di solito faccio io - quello sguardo che domanda lo fuggono, mimando un diniego con la testa e se proprio proprio uno spicchio di sorriso.
Martedì scorso no. Martedì scorso il giocoliere ha fatto breccia nel mio cuore ispessito, fermandosi però prima del braccio da T-Rex che ho attaccato a scapola e busto, così ho abbassato il vetro dell'auto e porto cinquanta centesimi che avevo nel taschino, guardandolo dritto negli occhi e aggiungendo: "Non sono molti, ma è qualcosa...".
"Quel che si può" è stata la sua risposta, cortese. Quattro parole in croce e che in croce mi hanno messo, facendomi pensare tuttora, a lungo.

P.S. No, non "quel che si può", caro giocoliere. "Quel che si vuole" piuttosto.
"Quel che si vuole". L'ho pensato subito e avrei voluto dirlo al ragazzo - e lo avrei anche fatto, se il conducente nella vettura dietro la mia non avesse suonato lesto il clacson - un po' per espiare il senso di colpa da tirchieria, un po' perché ci tenevo ad essere onesto, innanzi tutto con me stesso.
Non quello che possiamo; quello che vogliamo è ciò che riusciamo a fare, che facciamo, sempre, o nella stragrande maggioranza dei casi.
Ciò che vogliamo è nel bene e nel male la spinta, la molla che aziona ogni nostro meccanismo.
Vale per te giocoliere, quando con le tre palline lanciate per aria disegni un cerchio perfetto, e per me, per noi, quando al "si può" opponiamo il "si vuole", delineando nel bene e nel male il contorno nitido dell'essere umano che siamo.

venerdì 9 ottobre 2020

A spalle larghe (Le porte scorrevoli del destino)

Le porte scorrevoli del destino aprono e chiudono possibilità infinite, lasciandomi muto.
Se mi concentro sul motivo per cui avviene questo piuttosto che quello, a me e non a lui, a loro e non a noi e viceversa, mi ritrovo in breve sull'orlo di un abisso. Scuro.
L"accettazione è compagna fedele, oltre che indispensabile, di ogni essere umano: c'è chi la tiene - o sembra tenerla - placidamente per mano; altri la portano come zaino che piega la schiena, ribellandosi agli eventi infausti, cercando di scrollarseli di dosso, puledri bradi a cui per la prima volta vengono imposti giogo e basto.
Neppure l'immagine della ruota che gira, pur percependone il seme di verità che contiene, mi acquieta del tutto, troppo vaga e lontana dal senso di equità imposto dalla ragione, il monumento al quale vorremmo si piegasse tutto.
Invece di certo e ragionevole c'è nulla o poco e per quanto riguarda i fatti salienti della vita restiamo gli stessi che mettevano piede fuori dalla caverne, migliaia di anni fa, egualmente nudi e piccoli e fragili, sentendoci Dio appena la porta si spalanca su una stanza in cui entra il sole, mentre quando l'anta si apre verso un locale buio ci ritroviamo sgomenti, impauriti, costretti a stare fermi o procedere a tentoni, senza sapere neppure chi siamo.

P.S. Poi ci sei tu. Oggi finito per l'ennesima volta sotto i ferri del chirurgo e a cui è toccato in sorte un fardello che a soppesarlo da fuori schianterebbe un orso. La dignità con cui lo affronti, la capacità di non far ricadere sugli altri paure ed angosce, mi lascia ogni volta ammirato, consapevole che stai dando a tutti noi una lezione, con lo stile che ti ha sempre distinto, silenzioso e calmo.
Mi ripeto spesso che ciascuno di noi ha spalle più larghe di quanto appare. Tu di più. Ed è per questo che mi verrebbe da scrivere che per la nostra famiglia sei un pilastro, ma non è così: per noi sei più albero, poiché non soltanto sostieni ma metti anche seme, così che altri possano crescere e un giorno a loro volta sostenere il peso che abbiamo.

giovedì 8 ottobre 2020

Primo comandamento (È cosa buona ed equa)

Imparerai che nella vita è difficile accettare ordini, ma pure darne, comandare, specialmente se vorrai essere "giusto", perché giusti si riesce ad esserlo di rado, al massimo "equi", che poi è ciò che cerco di essere io, equo, come strumento di difesa, oltre che leva per non restare spalle al muro.
Imparerai tutto questo e pure a sopportare il rumore di fondo che a volte si crea e che è un ribollire in pentola, un borbottio diffuso, alimentato da chi mai è contento, da quanti per lamentarsi trovano immancabilmente un pretesto.
In quel caso, sappi che la battaglia è persa e l'unica uscita è tirare dritto, cercando di non farsi corrompere, riuscendo a mantenere quell'equilibrio di giudizio che porta a discernere comunque ciò che merita di essere ascoltato, per non gettare insieme all'acqua sporca pure il bambino, cioè le istanze giuste, le richieste intelligenti, i suggerimenti che odorano di bucato.
Parlo in generale, giuro, perché il destino mi ha offerto in dote la fortuna di lavorare in gruppi dove il lato oscuro della forza non ha mai preso il sopravvento, compreso qui, a Bergamo, anche se è una battaglia continua o, meglio, un dover prendersi cura del giardino ogni giorno, con la meticolosità, l'energia e la passione dell'agricoltore per il proprio campo.

P.S. Riconosco di non avere una vocazione o un talento per il comando. Se guardo a me stesso con lucida freddezza ammetto di essere scarso in alcuni talenti indispensabili allo scopo (il carisma, ad esempio, quella "autorevolezza" spontanea che si ha o non si ha, perché non è un'abilità, semmai un attitudine istintiva, un dono) così come è assente in me il piacere di dare ordini, il gusto di esser posto sopra un altro. Anche per tradizione, coprire ruoli apicali in famiglia non era contemplato. Mio padre per primo preferiva il "conto proprio", l'assenza di gerarchie, avendo al più come modello la tavola rotonda di re Artù, quell'essere "primo tra pari" che piace pure a me d'acchito, senza però considerare che per passare tra il dire e il fare c'è il mare di mezzo. Con il tempo ho trovato una mia strada, comprendendo che il potere non è cattivo in sé (dipende dal modo in cui si esercita e dall'avere o meno un obiettivo buono) e che si può interpretare il ruolo senza rinnegare i valori positivi, che della propria persona sono il fondamento.

mercoledì 7 ottobre 2020

Mamoli e mammole (Speranza)

Nel giorno in cui sui giornali tiene banco la saccenteria presuntuosa del ministro Speranza - che non concedendo nulla al suo cognome innesca una pallida polemica mettendo in alternativa scuola e sport, come se non concorressero entrambi al pieno sviluppo della persona - mi trovo innanzi, nel parco Loreto, a Bergamo, una scena bellissima.
Nell'anello di sentiero tra alberi e prati una dozzina di ragazzi e soprattutto ragazze corrono a perdifiato, con un professore che tiene il tempo e incita.
C'è chi sbuffa, chi arranca, chi impreca, chi non lascia trasparire una piega del volto.
Nessuno però cede, nessuno si tira indietro.
E' una vera ora di educazione fisica, come forse io in cinque anni di liceo non ho mai fatto, pur se stavamo in movimento, giocando a basket o a calcio.
Non oso dire nulla, prima di imboccare il cancello chiedo a una studentessa qual è l'istituto che frequentano. "Il Mamoli" mi sussurra, con l'esigue fiato che le resta in gola senza però mancare l'accenno di un sorriso.
Bene. Oggi ho visto un pezzetto dell'Italia che funziona, di un paese che ha futuro e pure speranza, scritto minuscolo, per non confonderlo con chi il fiato lo utilizza invano.

P.S. Erano più ragazze ho scritto. In effetti di ragazzo ne ho notato solo uno. Lievemente sovrappeso, correva a passo di trotto e sbuffava quanto un mantice, tanto che per qualche istante ho temuto stramazzasse al suolo o buscasse un infarto, accasciandosi esanime al suolo. Invece no. Con fatica, ma anch'egli ha raggiunto l'obiettivo dei giri fissato, ha tenuto duro. L'immagine di quel ragazzo, che a prima vista pareva mio figlio Giovanni l'anno scorso, mi ha "accompagnato" tutto il giorno. Facile emergere quando si è dotati di talento, assai più arduo - e parimenti meritevole - stringere i denti e non lasciarsi prendere dallo sconforto quando occorre sacrificio. Me lo ricorderò ogni volta che a voler arrendermi, per qualsiasi ragione, sarò io.

martedì 6 ottobre 2020

In cima alla pigna (Siamo quella gente lì)

"Il nonno Gianni sarebbe orgoglioso di te".
Lo siamo anche noi, per la laurea magistrale in psicologia, ma ancor più per la persona che sei, Silvia, prima della nostra ultima generazione, di una famiglia allargata che ha sempre dimostrato di essere tale, nella sua accezione più bella, cioè con legami di affetto e solidarietà che non prescindono mai dalla libertà del singolo e dall'interesse generale della comunità in cui si abita (che altrimenti non saremmo famiglia, bensì mafia).
Vale per la parte di tua madre, così come quella di tuo padre.
Anche in tempi di prova - soprattutto in tempi di prova - portiamo indelebile in dote una tela di fibra grezza, robusta, tessuta con cura da chi ci ha preceduto, la cui eredità più grande è proprio l'esempio, la capacità di uscire in positivo dalle difficoltà incontrate lungo il cammino.
Noi siamo quella gente lì, Silvia, noi siamo quelle persone così, non esenti da difetti - tutt'altro - ma che dai difetti non si fa schiacciare, che un passo dopo l'altro ne viene fuori e ambisce a essere un poco migliori del giorno prima.
Discorsi. Parole come potrei scriverne a milioni, anche se il giorno della tua laurea, sentendoti così preparata e pronta, con la tua giacca rosa, nell'esposizione della tesi a distanza, non sono riuscito a disgiungere quell'immagine da un'altra, che riguarda proprio il fratello di mia madre, tuo nonno Gianni, e che mi è stata più volte raccontata, di lui bambino, rimasto senza padre, povero d'una povertà nera, che aveva portato a casa un pezzo di cuoio da mettere sotto gli zoccoli di legno, come suola.
"L'ho trovato per strada" aveva detto prontamente allo zio Emilio, che aveva appena il doppio dei suoi anni e lavorava in vetreria.
Era un bel pezzo di cuoio, di "corame", come lo si chiamava in dialetto allora, chiaro, lucente, asciutto.
Strano. Fuori pioveva.
Una pioggia sulla quale si infransero le speranze di quel ragazzino di farla franca.
Ma questa è soltanto la polpa della storia. Il nocciolo è che quel pezzo di cuoio costrinsero a riconsegnarlo di persona al calzolaio, assumendosene la responsabilità, chiedendo scusa.
Ecco, ieri mentre ti ascoltavo ho pensato subito anch'io a tuo nonno, al filo ininterrotto che da quel bambino biondo platino porta fino a te, a voi nipoti, alla strada che è stata fatta e a quella che ci sarà da fare, al brutto e al bello che è stato e a quello che verrà, senza perdere mai fiducia, ottimismo, speranza.

P.S. Si dice che sediamo sulle spalle dei giganti. La verità è che siamo giganti noi stessi, anche se non ce ne rendiamo conto se non alla fine, quando giungiamo in cima alla pigna.

lunedì 5 ottobre 2020

Mi abbracci così (Le porte aperte)

Mi abbracci così, con il pudore che cade come un velo, stringendomi forte, naufrago alla deriva aggrappato d'impeto al primo legno.
Ogni giorno diventi più grande, oltre che alto, mentre bello lo sei sempre stato, anche se forse adesso in modo spiccato, con i lineamenti gentili del viso che prendono armonia con il resto del corpo.
Ti osservo da lontano quando non pensi di esser visto, noto le tue esuberanze di ragazzino sereno e pure quando gli occhi ti si adombrano e guardi in basso, perso in pensieri profondi e oscuri a noi quanto un pozzo.
Con te non sono l'adulto migliore del mondo, lo riconosco. A volte il mio egoismo fa premio sull'attenzione e sulla comprensione che meriteresti, piccole durezze che potrei risparmiarti, una schiena dritta che a volte è soltanto la scusa per non riuscire a testimoniare un amore tondo.
Per fortuna non sono solo, faccio parte di una famiglia che è diventata la tua e in cui ci si aiuta a vicenda, compensando mancanze e attutendo i tonfi che inevitabilmente accadono.
La tua età poi è straordinaria, sospeso in quella terra di mezzo tra l'indipendenza e il vincolo a chi ti dà sicurezza, oltre che un posto a tavola e il tetto.
Sono davvero orgoglioso di te e ne voglio lasciare traccia qui, per i tempi che verranno.
Sei per noi una benedizione, lo sei dal primo giorno, in questa avventura straordinaria che è il mondo quando si è disposti a lasciare le porte aperte e non chiuderle per comodità o paura di ciò che è ignoto.

P.S. Oggi al lavoro mi si spezza il cuore, poiché devo dare conto di un ragazzino che aveva un anno meno di te e che in un incidente è morto. Nessuno può comprendere il dolore di sua madre, che nell'auto gli era accanto, o del padre, cui la notizia è rimbalzata come un proiettile nel petto. Nessuno può provare ciò che provano, né attutirne il dolore, tanto meno io, che vorrei tu fossi qui, per abbracciarti come di solito fai tu, restando in silenzio, eppure dicendoci tutto.

domenica 4 ottobre 2020

Noi no (Accettiamolo)

Se non lo vedessi con i miei occhi stenterei a crederlo.
Non perché non mi fido di chi lo riporta, bensì per com'è distante da ciò che sono, che provo, che sento.
Parlo dei "no" e di quanto siano difficili da accettare.
Cambiano le frasi, non il copione di molte conversazioni specialmente sui social, con un approccio che dapprima blandisce in modo suadente, cerca di fare breccia, salvo poi precipitare in aggressività, offesa, volgarità, dileggio, appena si intuisce che dall'altra parte non c'è interesse o, peggio, un rifiuto.
E non importa il garbo, la delicatezza o la schiettezza del "no" ricevuto.
A mandare fuori di testa, a far perdere ogni contegno è il "no" in sé, inaccettabile, quasi fosse un'umiliazione nel profondo.
Faccio un esempio concreto, così chi non ha idea di ciò di cui sto parlando può comprenderlo.

Lui: "Complimenti, sei stupenda".
Lei: "Grazie"
Lui: "Single?"
Lei: "No"
Lui: "Peccato ah ah"
Silenzio
Lui: "Dici che posso invitarti lo stesso per un drink o un'uscita? O son troppo giovane e per questo mi dici che sei single? Ah ah ah".
Lei: "Non è il fatto che sei giovane ma per il semplice rispetto verso l'altro. Comunque grazie, sei gentile. Buon pomeriggio"
Lui: "Dalle foto sei sempre con le amiche. Esci con me e fine, fidati".
Silenzio
Lui: "Beh, voi donne mentite sempre, non è una novità e non sono così piccolo da credere a tutte le cagate che dite".

La chiudo qua. Il proseguo è peggio e non aggiunge nulla all'essenza di quanto messo nero su bianco.
Sugli scaffali di casa fa tuttora bella mostra un libro letto molti anni fa e scritto da Asha Philips, una psicoterapeuta infantile. Il titolo era: "I no che aiutano a crescere".
Forse coloro che ora non li accettano sono quelli a cui, quando erano bambini o ragazzi, un "no" non è mai stato detto.

P.S. Ho scelto un dialogo che mi è stato mostrato: mi assicurano non sia un caso isolato e proprio per questo lo riporto qui, non sto in silenzio, sono solidale e vicino a chi subisce questo tipo di atteggiamento.
Più della rabbia dei prepotenti temo infatti l'indifferenza di chi fa finta di nulla, come se fosse normale, tollerabile, scontato. Io no.
Comportarsi così è sbagliato, occorre ribadirlo, anche se per non cadere nel moralismo chiudo con il commento della persona che lo scambio qui sopra me lo ha inviato: “Meglio accettare con ironia un no che accumulare frustrazione, vivendo in una realtà distorta dove tutto è dovuto”.
Giusto. Punto, partita, incontro.

sabato 3 ottobre 2020

L'amore (È come l'acqua)

Chinato di fronte al finestrone del soppalco, mentre tu figlia mia dormi nella stanza accanto e io asciugo la pozza che con il temporale s'è infiltrata dall'infisso, penso che l'amore - ogni tipo di amore - è come l'acqua, che da che mondo è mondo gli esseri umani tentano di contenere, di tener fuori dai luoghi costruiti per riparo, ma che in breve o alla lunga, spesso senza sapere da dove e come, si insinua, fa breccia, irrompe, siano gocce o lago.
È così che mi sono consolato, senza più guardare a quell'infiltrazione con ostilità o fastidio, immaginando tutte le volte che vorrai bene a qualcuno o ti innamorerai, non importa l'età, il soggetto, l'equilibrio.
Ci saranno giorni in cui ti sembrerà di essere sospinta dal vento, alcuni nei quali parrà di svernare, senza meta né intento, altri ancora con il cuore duro, chiuso a lucchetto.
Sappi che nulla è mai scontato e che la vita ci sorprende sempre, a prescindere dalla tavola che per lei abbiamo apparecchiato.
L'unico augurio che ti faccio è di scegliere d'istinto, con il cuore appunto, chi ti rende felice, serena, migliore soprattutto, perché quella è l'unica bussola che esiste al mondo: se ti fa stare bene è la persona giusta, in tutti gli altri casi al massimo una svista, un abbaglio.

P.S. Aggiungo le parole di Neruda, che sono anch'esse un auspicio: "Si nada nos salva de la muerte, al menos que el amor nos salve de la vida". "Se nulla ci salva dalla morte, almeno che l'amore ci salvi dalla vita".

venerdì 2 ottobre 2020

GK (Confessarsi, nell'intimo)

Rimasto in mutande e non per modo di dire, di fronte allo specchio, una settimana fa, l'occhio m'è caduto su un dettaglio accendendo insieme il lampo di un ricordo.
Faccio un passo indietro (qui, mentre scrivo, non quand'ero praticamente nudo, davanti allo specchio).
Chi abita in una casa affollata, specialmente affollata di ragazzi, sa che l'ordine è un'utopia più della città ideale di Tommaso Moro.
Tesa e mai doma, come la lotta tra bene e male, in ogni abitazione immagino si svolga la battaglia che esiste tra chi cerca di porre ogni indumento nel giusto armadio, cassetto, e chi invece abbandona scarpe, calze e felpe ovunque, con predilezione per sedie, tavoli e pavimento.
A casa nostra almeno è così, anche se la "reverenda madre" che sovrintende tutto ha una perseveranza e un'energia tali da non cedere mai e talvolta sbraitando, spesso in silenzio, non cede di un millimetro, mettendo sempre a posto tutto, lasciando ogni locale pronto per essere fotografato da "Elle Decore" o da " Domus".
Siccome però il diavolo si insinua nei dettagli, può capitare che qualche stortura si celi oltre le ante dell'armadio, manifestandosi con indumenti fuori posto, per un errore minuto oppure per una delle periodiche rotazioni che la suddetta "reverenda madre" programma con obiettivi limpidi soltanto a lei stessa, restando oscuri per gli altri coinquilini, che si accorgono di quelle piccole rivoluzioni soltanto quando non trovano ciò che cercano.
Tutto ciò per dire che a volte nel comparto dove in teoria dovrebbe esserci la mia biancheria, incappo in capi sconosciuti, che non so se siano finiti lì poiché dismessi dai figli oppure per sbaglio.
Sta di fatto che, lungi dal contestare alcunché, mi limito a indossare ciò che trovo, avendo imparato che è una ruota che gira e alla fine tutto scorre, come diceva Eraclito, ma anche tutto torna, come fanno calze e mutande mie e loro.
Una settimana fa, dicevo, è stato uno di quei casi. Il primo paio della pila di boxer in maglia di cotone nel cassetto, pescate nella penombra del primo mattino, pareva di bel blu accesso, con stampata ad ogni centimetro quadrato la sigla di un noto stilista americano.
"Guarda un po' - mi sono detto - qualcuno deve avere fatto spese folli oppure erano in saldo".
Un pensiero durato poco, il tempo di tornare verso il bagno, lavare i denti, sciacquarsi il volto, rimirarsi velocemente allo specchio e... l'occhio s'è fissato su un dettaglio, una lettera che non avrebbe dovuto esserci. Così ho controllato meglio, scoprendo con stupore che il buon Calvin Klein (CK) non c'entrava proprio, bensì stavo inconsapevolmente indossando una paio di Glein Kloin (GK), acquistate da un compagno di mio figlio Giovanni, al mercato, e finite lì probabilmente soltanto per darmi modo di confessarmi in tutti i sensi nell'intimo.

P.S. La GK non le ho restituite (ma la sera le ho tolte e lavate, giuro). Le porterò fieramente, in futuro, perché mi ricordano il ragazzo che ero, scarso di mezzi ma carico di stupore e di sogni, che a dodici anni comprò un paio di Addass, preferendole alle Mike in bella mostra nel negozio in centro paese del Giordano.

giovedì 1 ottobre 2020

Un ponte (Tra noi)

Ho fatto tredici e non ho vinto nulla. O forse è proprio il contrario: il valore più concreto di questi ultimi anni consiste nella leggerezza delle parole, il filo ininterrotto che attraverso questo blog unisce noi, oltre la persona che ero con quella che nel frattempo sono diventato.
Quattromilasettecentoquarantasette giorni, mille post, un milione di parole almeno.
Il resoconto spiccio di un panorama ampio.
Era il primo ottobre del 2007 quando ho iniziato, con determinazione, cercando di non dare peso alla volubilità che mi accompagna spesso, confidando nella caparbietà del seminatore che nei geni evidentemente in dote porto.
È stato proprio così, non ho mai ceduto.
Sono stato talvolta in letargo, altri mesi ho scritto con regolarità, l'anno scorso - per il dodicesimo anniversario - ho fatto in modo che ogni giorno di ottobre avesse una traccia qui, un pensiero.
Un ponte, tra noi.
Un post al giorno per tutto il mese, il proposito che mi piacerebbe rinnovare quest'anno.
Un impegno che prendo, innanzi tutto con me stesso e per chi mi segue con stima, oltre che con affetto.
Il medesimo affetto e l'identica stima che provo io per tutti voi, che passate di qui e da tredici anni mi fate da finestra e da specchio.