Eri seduto al tavolo della cucina, io terminavo la cena da solo, arrivato come al solito in ritardo. Tu a capotavola, hai voluto fermarti, chiacchierare, tenermi compagnia. Non accade spesso, ma come per gli altri figli ho imparato a rispettare i tempi, a non forzare le situazioni, cogliendo piuttosto al balzo le occasioni offerte, le eccezioni alla regola del procedere sul proprio binario, senza interscambio alcuno, se non quello convenzionale, della buona creanza, dei convenevoli classici, quando si chiacchiera senza entrare davvero in contatto.
Ti ho ascoltato con attenzione. Con i tuoi non ancora dodici anni sei tuttora per molti aspetti un soldo di cacio e spesso provo una vertigine pensando a quanto dolore la vita ti ha già messo nello zaino, al vuoto che immagino tu avverta di tanto in tanto, magari quando resti solo, nel tuo letto, eppure hai un garbo, una sensibilità, una capacità di empatia fuori dal comune, un dono, in tutto e per tutto.
Nel momento in cui te l'ho detto, che sei un dono, l'altra sera, in risposta al tuo racconto, mi hai guardato con occhi ampi, fissandomi, volendo quasi pescare nei miei per cogliere il tono di quel commento e non soltanto il contenuto, aggiungendo una sola parola, con un punto interrogativo: "Davvero?".
Sì, davvero. Hai un dono grande, un talento che la natura, i geni delle famiglie da cui provieni ti hanno dato e che coloro che ci hanno preceduto - penso in particolare ad Elisabetta e Stefano - hanno contribuito a temprare, come si fa quando si lavora il metallo, modellandolo quand'è caldo. Spero di aiutarti pure io a custodirlo, ad alimentarlo, ma già così è "tanta roba", come direbbero Giorgia o Giovanni. Già così è un regalo che fai a noi, che la piccola piantina insegna al grande albero.
P.S. Il racconto della piantina e dell'albero vorrei arrivasse a coloro che convivono con la lacerazione del lutto. A una persona in particolare, a cui sono legato fin da quando ero ragazzo e che sta passando giorni neri più che bui, alzandosi al mattino e accudendo i figli e riassettando la casa e recandosi al lavoro apparentemente come tutti gli altri giorni della sua vita, in realtà con la luce spenta dentro, con sul cuore un peso che al tempo stesso è una smorza, un muro altissimo, che impedisce non soltanto di sorridere, ma anche di guardare e pensare al futuro. La morte di chi ci ha preceduto e cresciuto ha il fragore e l'irruenza del tronco che precipita a terra, della tempesta che lo sradica e pare decretare anche il nostro abbattimento, la fine di tutto. Non è così. Anzi, quello stesso albero, una volta al suolo, continua ad esserci utile, non più riparandoci, bensì decomponendosi, disgregandosi, donando gli elementi necessari alla nostra crescita, ecco perché va tenuto accanto, accettandone il peso, e non rimosso. Lo so che il dolore che si prova e brucia è reale, tangibile, autentico, mentre queste sono soltanto parole, ma le parole - per chi le vuole ascoltare - hanno un potere intrinseco, curano, e a tacerle non è quello che fa chiunque pretende di definirsi amico.